Stanato da padre Roberto Brunelli, ecco il Giuliotti-pensiero su Chesterton.
Avessero continuato a parlarne altri, oggi staremmo tutti meglio. C'era un vero e proprio movimento culturale attorno alle posizioni degli scrittori cattolici inglesi Chesterton e Belloc, e qui in Italia eravamo una bella punta di diamante.
Leggete, merita.
Marco Sermarini
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LA FILOSOFIA DELLE FATE
Inutile fantasticare su questo titolo fantastico.
La Filosofia delle Fate, ovvero filosofia del «se», o del «veto», che deriva dall'antichissimo principio della «gioia condizionale» e fu insegnata da Dio stesso, con un solo avvertimento (non osservato) ai Protoparenti, nel Paradiso Terrestre, non è dunque, come qualcuno (qualche linee della « terza pagina ») potrebbe credere, una spiritosa invenzione del celebre « umorista » inglese Gilberto Chesterton.
Esso (questo strano, profondo e piacevolissimo scrittore), nel suo libro fondamentale Orthodoxy (tradotto in italiano — e bene — da Raffaello Ferruzzi, Roma, Casa Editrice Ausonia, 1927) non ha fatto altro che riscoprirla nei « racconti della nutrice » o — come noi diremmo — nelle « novelle della nonna », a quel modo che il poeta (ed egli lo è radiosamente) ritrova in sé e intorno a sé, smatassandone i significati nascosti, il lontano ed arcano e divino mondo dell'infanzia.
Ma, prima di ricredere nelle Fate (ossia — per intenderci — nella dipendenza della natura dal soprannaturale, della Creazione dal Creatore — dal gran Mago invisibile, com'egli lo chiama, di questo incantato Universo), anch'egli come tanti, essendosi impaniato e spaniate tra le zirlanti uccelliere del pensiero moderno, né trovando ancora dove posarsi (il Cattolicismo, a quel tempo, doveva sembrargli una cosa da non pigliarsi sul serio), aveva voluto vedere se gli fosse stato possibile di fabbricare, col proprio cervello, una nuova eresia.
Senonchè (Dio è talvolta provvidenzialmente ironico) era successo a lui come ad uno (son presso a poco le sue parole) che, partitosi dall'Inghilterra con l'intenzione di scoprire un'isola non segnata sulle carte geografiche, aveva trovato, sì, dopo una lunga navigazione, l'isola del suo desiderio, ma essa altro non era che il luogo di partenza, era... l'Inghilterra; e, pure essendo l'Inghilterra, era proprio (oh prodigio!) quella dolce, incantevole e non più abbandonabile isola per la quale, avventurosamente, s'era messo in viaggio.
In altre parole, l'eretico infastidito delle eresie già esistenti, l'uomo che voleva inventare, come s'è detto, un'eresia nuova che lo soddisfacesse, era riuscito, infatti, ad inventarla, ma, dopo averla inventata, s'era dovuto accorgere che esisteva già, che esisteva, anzi, da venti secoli e che, per di più, non era un'eresia, ma la già disprezzata ed ora ammirabile ortodossia.
Fino allora questo mondo era apparso a Chesterton come un'immensa macchina paurosa e farraginosa, che girasse a scosse, a fatica e stridendo (e, peggio ancora, senza scopo), e ciò perché doveva avere — introvabile e inesplicabile — qualche imperfezione o mancanza nel proprio interno.
Ma dopo la comica e fortunata scoperta egli s'accorse, al tempo stesso, di due cose: primo, che nella macchina del mondo c'era un foro; secondo, che una specie di punta dura (il dogma cristiano) sembrava fatto apposta per incastrarsi ed ingranare in quel foro. E allora — avendo, infatti, la punta e il foro, combaciato l'una nell'altro — « tutte le altre parti ingranarono perfettamente, con meravigliosa esattezza.
Tutto il macchinario, pezzo per pezzo, si mise a posto col rumore caratteristico dell'assestamento. Messa a posto una parte, tutte l'altre parti ripeterono il movimento, con la stessa esattezza con cui tutti gli orologi battono mezzogiorno. E, istinto per istinto, dottrina per dottrina, tutto ricevè la sua risposta ».
Il Cattolicismo, dunque, (per uscir di metafora) gli appariva, in tal modo, come l'unica vera spiegazione dell'enigma cosmico.
Esso, col suo Dio personale, trascendente e creatore, con la sua Dottrina della Caduta, che ci offre il perché delle evidenti tracce d'un antico e generale naufragio, e col fatto storico — centrale e universalmente riparatore dell'Incarnazione — (un Dio-Uomo che rinsalda in sé la già spezzata catena spirituale) - chiariva tutto, armonizzava tutto, vivificava tutto ed era come un immenso radioscopio, pel quale il nostro sguardo, al di là delle apparenze e delle ipotesi, poteva penetrare, oltre la scorza, nell'intimo degli uomini e delle cose.
I creduti e sè credenti savi (per esempio) — scienziati, filosofi, letterati ed altre vessiche — che, osservati con la lente del Vangelo (che è quella stessa girata continuamente dalla Chiesa, sulla storia umana, per giudicarla), apparivano, quali erano in realtà, dei pazzi; e, viceversa, i creduti pazzi (i « pazzi di Cristo ») risplendevano in tutta la loro misconosciuta sapienza.
Gli ignoranti, gli umili, quella parte del popolo, non contagiata, che crede ancora nel soprannaturale, le « pastorelle » di Lourdes o della Salette, Giovanna d'Arco con le sue « voci » aeree, tutti coloro, radicati nella tradizione cristiana e digiuni di teorie o di sistemi, che affermavano, pronti anche a morire per ciò che affermavano, d'essere stati testimoni di questo o quel miracolo, dicevano, non potevano non dire, la verità.
Chi non diceva invece la verità, o la diceva deformata, frammentaria e irriconoscibile, era il « sacerdote laico » delle varie Sorbone che, mentre si sarebbe amaramente vergognato di credere in Dio, non provava il benché minimo ribrezzo a credere nell'inerranza del proprio vuoto dipinto.
C'era, per esempio, tra questi savi-pazzi, il « materialista » ; il quale s'era messo in testa — o non so dove — che il mondo fosse una specie di girarrosto a moto perpetuo: un girarrosto che si fosse fatto da sé, che non s'incantasse mai, perfettamente meccanico, perfettamente lubrificato, perfettamente girante con tutta l'umanità infilata nello spiede e, perciò, (dico io) perfettamente stupido come il suo inventore.
C'era poi l'« immanentista », animale religioso quant'altri mai, ma che poteva burlarsi dei due Testamenti e della Chiesa, anzi di qualunque chiesa, perché lui, Dio l'aveva trovato da sé, in sé stesso, e per ciò si gloriava d'essere il luminoso ostensorio ambulante d'un Dio natante nel suo dilatatissimo io.
C'era anche il «panegoista» — altra specie di quadrumane auto-divinizzato — che diceva d'essere « al di là del bene e del male », che faceva sé centro ed àpice del mondo, che assicurava che tutto incominciava in lui e che « non dubitava neppure d'aver creato suo padre e sua madre ».
Questo sott'uomo si chiamava anche con un altro nome: egli era il Superuomo.
Senonchè Nietzsche — il santo padre di tutto il cucciolume egoarchico, — nonostante « il desiderio dei galoppi sfrenati sui grandi cavalli », nonostante « gli appelli alle armi », un giorno (dice Chesterton) mentre passeggiava, meditando, in aperta campagna, vide, ben cornuta e a testa bassa, una vacca; e Zarathustra (incredibile ma vero) si battè le gambe dans le derrière.
Ebbene: ci fu, invece, una volta, una povera ragazza contadina, quella tale Giovanna d'Arco (già sbavata, in orribili versi, dall'orribile vecchio di Ferney e riprofanata, in forbita prosa, dall'ormai defunto Anatolio e teatralizzata, ultimamente, con intenzioni non perfide, dal saltimbanco Shaw) la quale non ebbe mai paura (che si sappia) né di vacche, né di leoni, né di tutti i diavoli. Essa « non solo esaltò il combattimento, ma combattè », non solo non finì presunta luetica nel manicomio, ma vergine, sul rogo; e non solo fu un'eroina, ma è Santa.
Tale la differenza tra chi s'appoggia a Cristo e chi s'appoggia alla propria mota farneticante.
« Di quanto la religione s'allontana da noi, di altrettanto s'allontana la ragione ».
« Nell'atto di distruggere l'idea dell'autorità divina, abbiamo distrutto in gran parte l'idea dell'autorità umana... Con una fune lunga e resistente abbiamo cercato di rovesciare la mitra di sulla testa dell'uomo pontificante, ed è venuta giù anche la testa ».
Quindi, «il suicidio del pensiero».
«Penso, dunque sono», disse il pio-empio Cartesio. E gli echi innumerevoli e sempre più deformati di quella celebre eresia hanno portato la gente in pazzeria.
Invece si doveva dire: «Dipendo da Colui che è, dunque, in quanto dipendo, sono; e sono finché dipendo».
Ma l'uomo moderno non ha voluto capire ciò che è successo e sta succedendo ogni giorno: che cioè « l'isolamento del pensiero nell'orgoglio conduce all'idiozia e che tutti gli uomini che hanno il cuore duro finiscono col cervello tenero».
Ma ecco, lasciati al loro destino i savi-pazzi, le meraviglie che vedono i pazzi-savi, nel paese delle Fate che è questo mondo, creato e retto dal gran Mago invisibile che è Dio:
«Il mondo è una cosa che colpisce, ma non è soltanto questo; l'esistenza è una sorpresa, ma è una sorpresa (per chi dice : «dipendo, dunque sono») piacevole».
«Tutte le mie convinzioni (parole testuali di Chesterton) sono rappresentate da un indovinello che mi colpì fin da bambino. L'indovinello dice : — Che disse il primo ranocchio? — E la risposta è questa: — Signore, come mi fai saltar bene! — In succinto, c'è tutto quello che sto dicendo io. Dio fa saltellarè il ranocchio, e il ranocchio è contento di saltellare ».
Ma che insegnano di diverso tutti i Santi e tutta la sapienza cristiana?
Questo mondo chestertoniano delle Fate è quello stesso della dipendenza da Dio, dell'obbedienza e dell'abbandono a Dio, e, soprattutto, della gioia che proviamo, come il ranocchio dell'indovinello ed esser fatti saltellare da Dio.
Non solo, ma, nel dominio delle Fate, accade questa cosa paradossale: Rinunziando alla libertà si acquista la libertà. Una cosa ti è proibita. Se non la farai, vedrai e opererai prodigi.
«Di tutti i frutti d'ogni albero del Giardino (disse il supremo Mago al primo abitante del primo regno delle Fate) puoi mangiarne, ma del frutto dell'Albero della scienza del Bene e del Male non mangiarne, perché, in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai ».
Pensate alla nostra potenza, alla nostra intelligenza, alla nostra felicità, alla nostra innocente libertà, se non avessimo infranto, in Adamo, quel primo «veto»!
Chesterton, quando parla scherzosamente, ma profondissimamente, del paese incantato delle Fate, in cui la felicità dipende da un « se », da una condizione (« tu puoi vivere in un palazzo d'oro e di zaffiro se non dirai mai la parola vacca », « ti è concesso vivere felicemente con la figliola del Re, se non le mostrerai una cipolla »), vuol fermare la nostra attenzione, attraendoci col suo iridescente linguaggio figurato, su questa elementare verità cristiana: Obbedisci, senza cercare di voler comprendere, al tuo Creatore e Signore e comprenderai tutto; obbedisci a Lui e in Lui solo (che ti aprirà i tesori della sua sapienza per ricompensarti della tua obbedienza), potrai rallegrarti di tutto.
Perché sarai stato umile diventerai grande, perché sarai stato obbediente diventerai libero, perché avrai rinunziato a sapere il perché della condizione strana o stranissima che ti fu imposta, lo saprai; e saprai anche infinitamente più di tutto ciò che desideravi sapere.
È la posizione spirituale del cristiano, diametralmente opposta a quella del « pensatore » moderno ; il quale, edificando col fumo e accecandosi, diventa la scimmia impotente e ripugnante della «Simia Dei»; in cui, come in Dio, l'infelice non crede.
Il pensiero moderno si stacca da Dio, deifica sé e non capisce più nulla; il pensiero cattolico pensa in Dio, abbraccia tutto in Dio e d'ogni cosa trova la spiegazione nel Libro di Dio.
Ora, questo Libro è letto e commentato dalla Chiesa, ch'è illuminata, perché non erri, dallo Spirito Santo. E ciascuno di noi, se lo legge e commenta dentro la Chiesa e con la Chiesa, può dar fuoco, se l'ha, alla propria biblioteca; perché, letto e compreso quel libro, tutti gli altri libri son carta sporca.
Ma Chesterton vede nell'ortodossia, vale a dire nel Cattolicismo, (oltre al paese delle Fate, in cui si può abitare sottostando, come abbiamo visto, ad una conditio sine qua non) anche la coesistenza e la conciliazione dei contrari.
Il Cattolicismo, infatti, è conservatore e rivoluzionario, statico e dinamico, pacifico e guerriero, aristocratico, e democratico, gerarchico e capovolgitore, tradizionalista e avvenirista. E perciò (sebbene i suoi raggi multicolori partano, per ritornarvi, da un unico centro, che è Cristo) esso par fatto apposta per essere, come il suo divino fondatore, accettato e rifiutato in ogni tempo, in ogni luogo e da tutti gli uomini.
Ma gli accusatori — vari e fra loro in contrasto — del Cristianesimo in genere e del Cattolicismo in ispecie, ne dimostrano involontariamente e, per di più, eloquentemente, la ricchezza, la complessità, la vitalità e l'origine non terrestre.
Succede alla Chiesa sposa di Cristo (e, dopo Chesterton, lo dimostrò un altro inglese convertito: Benson) come al suo Sposo divino.
Gli uni dicono: Essa prende gli uomini e li trasforma in pecore. E gli altri : Essa, con la sua intransigenza e violenza, sovverte le basi della famiglia, dello stato, della società. Gli uni: Essa è antiumana, perché predica la castità, la santità e la rinunzia ai piaceri. E gli altri: Essa è troppo umana, troppo terrestre, troppo interessata e mescolata alle cose del mondo. Gli uni : Essa si veste di sacco, va a piedi scalzi, digiuna, si batte il petto, disprezza « le nobili gioie della vita » e dice che i ricchi difficilmente entreranno nel Regno dei Cieli. E gli altri: Essa, fondata, secondo vuol far credere, da Cristo, il quale « non aveva una pietra dove posare il capo », ostenta un fasto, un lusso, una pompa e una ricchezza che sorpassano qualunque scandalo più scandaloso. Gli uni: Essa è cosi squilibratamente spiritualista da considerare la carne e il mondo come i due massimi nemici dell'uomo. E gli altri : Essa è tanto materialista da insegnare, nel suo Credo, che non solo le anime ma perfino i corpi entreranno un giorno nella Vita Eterna.
Così, da opposte parti e con armi diverse, la Chiesa è attaccata dai suoi nemici. Senonchè, mentre questi balbettano e ribalbettano, monotoni, fastidiosi e, in fondo, sempre sconfitti, le stesse cose, Essa, nella sua concordia discorde, nel suo miracoloso equilibrio, nel suo pauroso oscillamento, come un campanile troppo alto squassato da un continuo doppio di campane suonanti a gloria, Essa sola, in mezzo e al disopra delle tempeste, domina, illumina, prega, benedice, canta, adora.
Taluni, dice Chesterton, chiusi gli occhi dinanzi a questo singolare spettacolo, « hanno preso la stupida abitudine di parlare dell'ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c'è invece niente di così pericoloso e di così eccitante come l'ortodossia: l'ortodossia è la saggezza, e l'esser saggi è più drammatico che l'esser pazzi; è l'equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio, che pare si chini da una parte, si spenzoli dall'altra, e pure, in ogni atteggiamento conserva la grazia della statuaria e la precisione dell'aritmetica. La Chiesa, nei primi tempi, fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa seguì puramente il dirizzone d'un'idea — come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli; lasciò da un lato la grande mole dell'arianesimo, sostenuta da tutte le forze del mondo, per mettere il Cristianesimo più a contatto col mondo; un momento dopo doveva scansare l'orientalismo che l'avrebbe troppo allontanata dal mondo. La Chiesa ortodossa non scelse mai le strade battute né accettò i luoghi comuni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani, sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione.
È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile che un'epoca metta a capo a qualche cosa, difficile è conservare il proprio capo; è sempre facile essere modernisti, com'è facile essere snob.
Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell'errore e dell'eccesso, che, da una moda all'altra, da una setta all'altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo, questo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c'è un'infinità di angoli a cui si cade, non ce n'è che uno a cui ci si appoggia. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo gnosticismo alla scienza cristiana, sarebbe stato ovvio e volgare. Ma averli evitati tutti è l'avventura che conturba; e, nella mia visione, il carico celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate, e l'augusta verità oscilla, ma resta in piedi».
Spero che nessuno vorrà rimproverarmi questa lunghissima citazione. Essa era necessaria per far vedere con quale e quanto calore (e colore) Chesterton difenda la Chiesa, nella quale ha ritrovato la via, la verità e la vita.
Ma è dunque il suo libro una vera e propria apologia del Cattolicismo?
Un giorno l'autore passeggiava con un amico (un editore celebre) per le vie di Londra. A un tratto l'amico, a conclusione del suo discorso, disse : « È certo che il tal dei tali farà carriera: egli crede in se stesso ».
In quel momento lo sguardo di Chesterton si posò sopra un omnibus che passava e che portava scritto: Hanwel! (È il luogo di cura per gli ammalati di mente). Perciò rispose: «Ti devo dire dove sono gli uomini che più credono in se stessi? Te lo dico subito... Gli uomini che veramente credono in se stessi sono tutti nei manicomi ».
L'amico storse la bocca e ribattè qualche cosa.
Ma Chesterton : «Il credere in se stessi è la caratteristica più comune degli imbecilli».
L'amico, il cui naso s'era allungato più d'un palmo, obiettò, lasciandosi cadere le braccia : « Ma allora, se l'uomo non deve credere in sé stesso, mi dici in che cosa dovrà credere? »
Chesterton pensò un poco, poi disse: « Vo a casa a scrivere un libro per rispondere al tuo quesito ».
E, dalla promessa mantenuta, saltò fuori « L'Ortodossia ».
Dunque Orthodoxy, che vuol dimostrare che l'uomo, invece di credere in se stesso, deve credere nel Credo, è, sì, un'apologia del Cattolicismo, ma come (fortunatamente!) più viva, più fresca, più agile, più pugnace, più acuta e più persuasiva delle solite apologie, scritte, di solito, con la proboscide, da certi elefanti ecclesiastici!
Con ciò non si vuol dire (ben inteso) che in questa Ortodossia — uscita, sfavillando, dalla penna d'un sottilissimo dialettico, d'un umorista prestigiatore e d'un poeta magico, quando stava con un piede sulla soglia della Chiesa e con l'altro, già alzato, per entrarvi — tutto sia impeccabilmente ortodosso.
Ortodossi sono, senza dubbio, moltissimi degli innumerevoli paradossi che crepitano, scintillando, lungo la muraglia dell'ortodossia; ma qualcuno, più grosso, e che, per ciò, scoppia più forte, vi produce, talvolta, sebbene inconsapevolmente, qualche crepa o spacco; e tuttavia, neppur lì, la muraglia frana.
Chesterton (per esempio) che si dichiara un seguace del liberalismo infastidito dei liberali, un democratico a tutta oltranza, cristianamente entusiasta del suffragio universale, ma in disaccordo coi democratici, e un ortodosso in religione eterodosso in politica, non esita ad affermare nel capitolo intitolato «La Rivoluzione eterna» (ossia, nel suo concetto, la rivolta cristiana contro le conseguenze [peccati] della Caduta) che Cristo, condannato « dall'autorità costituita » e dagli « aristocratici » (?!), «è l'eterna gloria di tutti i ribelli» (?!).
E qui (cosa inesplicabile, se si pensa al suo squisito buon gusto) par di sentir concionare un cialtrone in cravatta rossa, ritto sopra un tavolino, in mezzo al « popolo sovrano ».
Oppure, nel capitolo seguente («Il romanzo dell'Ortodossia») — del resto bellissimo, — dopo aver detto che, nel Getsemani, l'Uomo-Dio, tentato da Dio, ossia da se stesso, «dovè passare sommariamente attraverso il nostro umano errore del pessimismo» e che, poi, dall'alto della Croce, oscurandosi il sole e tremando la terra, confessò, con un grido, che Dio era abbandonato da Dio, così continua : «Ed ora lasciate che i rivoluzionari scelgano un credo fra tutti i credi e un Dio fra tutti gli dèi del mondo... Essi non ne troveranno un altro che sia stato in rivolta anche lui. Anzi (il tema si fa sempre più difficile per esser trattato in termini umani) lasciate che gli atei stessi si scelgano un Dio. Essi non troveranno che una divinità che abbia manifestato il suo isolamento; non troveranno che una religione in cui Dio sia apparso per un istante ateo».
È chiaro che qui il paradosso, contorto fino all'assurdo, assume le proporzioni d'una bombarda e fa cadere parecchie pietre. Ma, lo ripeto, quando Chesterton scriveva queste cose, sebbene sul limitare della Chiesa, non era ancora, com'è oggi, un membro vivo del corpo mistico di Cristo.
In conclusione, Ortodossia, tardi conosciuta dagli italiani — ma meglio tardi che mai — (pochissimi i lettori del testo inglese, pochi più quelli della traduzione francese, qua è là inesatta, del Grolleau) è un grande, originale, e a volte strano o stranissimo ma sempre profondo libro.
E dunque non facile; e soprattutto non facilmente riassumibile. Malgrado la forma brillante, la cristallina chiarezza e iridescenza delle immagini, e quel continuo caprioleggiamento del pensiero, che sembra un giuoco ed è, invece, un modo bizzarro di procedere a zig-zag, verso o dentro la Verità, è un libro non già oscuro, ma luminosamente laberintico. (L'autore stesso lo chiama « caotico » — e non è —). Eppure, con un filo tra le dita, il cui capo ci viene offerto all'ingresso, possiamo, passando di meraviglia in meraviglia, girarlo tutto ed uscirne più agguerriti contro l'errore, più fiduciosi nella Provvidenza e più tranquilli e sereni, per continuare (fino all'apparizione della piena luce sul limitare della morte) il n
ostro breve viaggio su questo magico ed enigmatico mondo.
Le altre opere (le novelle poliziesche soprattutto, notissime all'estero e relativamente note, benché tradotte, in Italia) non ci danno, come qui, tutto Chesterton.
«Eretici » (un volume polemico e già filocattolico) aveva preceduto e quasi preparato il terreno per «L'Ortodossia»; poi, dopo «L'Ortodossia» (scritta, come abbiamo visto quando l'autore era, rispetto a ciò che è, mezzo topo e mezzo uccello, sebbene più uccello che topo) apparvero — perfettamente ortodosse, ma non per ciò meno chestertoniane — l'opere del cattolico praticante e militante; e, fra queste, «La Sfera e la Croce» (un romanzo-film di apologetica in azione, che è somma vergogna non conoscere) e quel recente «San Francesco», cui molto nuoce, a mio parere, un'eccessiva acrobazia dialettica intorno al «Concrocifisso», già troppo abbeverato d'inchiostro, dai suoi spietati ammiratori.
Ma «Ortodossia», fino ad oggi, anche con qualche pustola eterodossa, resta, come dicevo, il suo libro massimo e fondamentale. Libro che contiene, in germe, altri venti libri; tanto è ricco di pensieri, intuizioni ed accenni, tutti suscettibili di schiudersi in meravigliosi fiori di meditazioni e di poesia.
E perciò sia qui ringraziato Raffaello Ferruzzi, per avercene data una traduzione ch'è, insieme, fedele al difficilissimo testo e — com'è costume in riva ad Arno — splendidamente italiana.
[da Le due luci (santità-poesia), 1933; originariamente un articolo uscito in due puntate su L'Avvenire d'Italia, 20 e 21 Aprile 1927]
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