venerdì 22 dicembre 2006

Il Papa è preoccupato. E ha ragione.

Il Papa: "Sulle coppie di fatto non taccio la mia preoccupazione"
di Redazione
Città del Vaticano – "Non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto". Il Papa tocca di nuovo un tema che ha diviso e continua a dividere cittadini e politici. L’intervento del Pontefice è avvenuto durante l’udienza dei cardinali e i membri della Famiglia Pontificia e della Curia romana per gli auguri natalizi. "Molte di queste coppie - ha detto Benedetto XVI - hanno scelto questa via, perché, almeno per il momento, non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi - ha aggiunto il pontefice - per l'altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi . Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso".

Benedetto XVI ha voluto anche replicare alle accuse, rivolte alla Chiesa, di volersi ingerire nelle questioni private dei cittadini: "Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l'uomo non ci interessa?

Difesa della natalità - Molto duro il passaggio del Papa sul calo della natalità, molto forte soprattutto nell'Occidente: "Questa profonda insicurezza sull'uomo stesso, accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi, è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile".

Dialogo con l'Islam. "In un dialogo da intensificare - ha detto il Papa - con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II,

Benedetto XVI e Auschwitz

Ratzinger: "Un arcobaleno mi disse che Dio esiste"

Città del Vaticano - "Nei miei spostamenti in Polonia non poteva mancare la visita ad Auschwitz-Birkenau nel luogo della barbarie più crudele, del tentativo di cancellare il popolo di Israele, di vanificare così anche l'elezione da parte di Dio, di bandire Dio stesso dalla storia". Lo ha detto il Papa che, questa mattina, nella sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, ha ricevuto in udienza i Cardinali e i membri della Famiglia Pontificia e della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.

"Fu per me motivo di grande conforto - ha raccontato Benedetto XVI - veder comparire nel cielo l'arcobaleno, mentre io, davanti all'orrore di quel luogo, nell'atteggiamento di Giobbe gridavo verso Dio, scosso dallo spavento della sua apparente assenza e, al contempo, sorretto dalla certezza che Egli anche nel suo silenzio non cessa di essere e di rimanere con noi. L'arcobaleno era come una risposta: Sì, Io ci sono, e le parole della promessa, dell'Alleanza, che ho pronunciato dopo il diluvio, sono valide anche oggi".

Da Il Giornale del 22 Dicembre 2006

giovedì 21 dicembre 2006

Mr. Chesterton, cosa c'è che non va nel mondo?


Ci viene segnalato, ed entusiasticamente rilanciamo al web intero, il numero di Agosto 2006, per la precisione il n° 347, della bella rivista "Fogli - Itinerari mensili di costume", edita dalla pugnace Ares.
In essa vi è il bellissimo "Itinerario" a firma del nostro carissimo amico Fabio Trevisan, che intervista nientepopodimenoche...?

GILBERT, E' OVVIO AMICI!

Fabio è riuscito a farlo parlare nonostante sia morto settanta anni fa (ma in realtà io dico: chi è mai riuscito a zittirlo, grazie a Dio?). Ed è piacevolissimo leggerlo. Merita, amici miei, merita eccome! Sembra davvero di sentirlo ancora parlare!

Io, Uomo Vivo, ve lo segnalo, come vi segnalo il sito dell'editrice:

www.ares.mi.it

E che buon pro vi faccia!

mercoledì 20 dicembre 2006

L'Udienza Generale di Papa Benedetto XVI del 20 Dicembre 2006


Cari fratelli e sorelle!

"Il Signore è vicino: venite, adoriamo". Con questa invocazione la liturgia ci invita, in questi ultimi giorni dell’Avvento, ad avvicinarci, quasi in punta dei piedi, alla grotta di Betlemme, dove si è compiuto l’evento straordinario, che ha cambiato il corso della storia: la nascita del Redentore. Nella Notte di Natale ci fermeremo, ancora una volta, dinanzi al presepe, a contemplare stupiti il "Verbo fatto carne". Sentimenti di gioia e di gratitudine, come ogni anno, si rinnoveranno nel nostro cuore ascoltando le melodie natalizie, che in tante lingue cantano lo stesso straordinario prodigio. Il Creatore dell’universo è venuto per amore a porre la sua dimora tra gli uomini. Nella Lettera ai Filippesi, san Paolo afferma che Cristo "pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini" (2,6). E’ apparso in forma umana, aggiunge l’Apostolo, umiliando se stesso. Nel Santo Natale rivivremo la realizzazione di questo sublime mistero di grazia e di misericordia.

Dice ancora san Paolo: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli" (Gal 4,4-5). In verità, da molti secoli il popolo eletto attendeva il Messia, ma lo immaginava come un potente e vittorioso condottiero che avrebbe liberato i suoi dall’oppressione degli stranieri. Il Salvatore nacque invece nel silenzio e nella più assoluta povertà. Venne come luce che illumina ogni uomo – nota l’evangelista Giovanni –, "ma i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,9.11). L’Apostolo però aggiunge: "A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio" (ivi, 1,12). La luce promessa rischiarò i cuori di coloro che avevano perseverato nell’attesa vigile ed operosa.

La liturgia dell’Avvento esorta anche noi ad essere sobri e vigilanti, per non lasciarci appesantire dal peccato e dalle eccessive preoccupazioni del mondo. E’ infatti vegliando e pregando che potremo riconoscere ed accogliere il fulgore del Natale di Cristo. San Massimo di Torino, Vescovo nel IV-V secolo, in una delle sue omelie, afferma: "Il tempo ci avverte che il Natale di Cristo Signore è vicino. Il mondo con le sue stesse angustie dice l’imminenza di qualche cosa che lo rinnoverà, e desidera con un’attesa impaziente che lo splendore di un sole più fulgido illumini le sue tenebre… Questa attesa della creazione persuade anche noi ad attendere il sorgere di Cristo, nuovo Sole" (Disc. 61a, 1-3). La stessa creazione dunque ci conduce a scoprire e a riconoscere Colui che deve venire.

Ma la domanda è: l’umanità del nostro tempo attende ancora un Salvatore? Si ha la sensazione che molti considerino Dio come estraneo ai propri interessi. Apparentemente non hanno bisogno di Lui; vivono come se non esistesse e, peggio, come se fosse un "ostacolo" da rimuovere per realizzare se stessi. Anche fra i credenti – siamo certi - alcuni si lasciano attrarre da allettanti chimere e distrarre da fuorvianti dottrine che propongono illusorie scorciatoie per ottenere la felicità. Eppure, pur con le sue contraddizioni, le sue angustie e i suoi drammi, e forse proprio per questi, l’umanità oggi cerca una strada di rinnovamento, di salvezza, cerca un Salvatore e attende, talora inconsapevolmente, l’avvento del Salvatore che rinnova il mondo e la nostra vita, l’avvento di Cristo, l’unico vero Redentore dell’uomo e di tutto l’uomo. Certo, falsi profeti continuano a proporre una salvezza a "basso prezzo", che finisce sempre per generare cocenti delusioni. Proprio la storia degli ultimi cinquant’anni dimostra questa ricerca di un Salvatore a "basso prezzo" ed evidenzia tutte le delusioni che ne sono derivate. E’ compito di noi cristiani diffondere, con la testimonianza della vita, la verità del Natale, che Cristo reca a ogni uomo e donna di buona volontà. Nascendo nella povertà del presepe, Gesù viene ad offrire a tutti quella gioia e quella pace che sole possono colmare l’attesa dell’animo umano.

Ma come prepararci ad aprire il cuore al Signore che viene? L’atteggiamento spirituale dell’attesa vigile ed orante rimane la caratteristica fondamentale del cristiano in questo tempo di Avvento. È l’atteggiamento che contraddistingue i protagonisti di allora: Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, i Magi, il popolo semplice e umile. Soprattutto l’attesa di Maria e di Giuseppe! Questi ultimi, più di ogni altro, hanno provato in prima persona l’affanno e la trepidazione per il Bambino che doveva nascere. Non è difficile immaginare come abbiano trascorso gli ultimi giorni, nell’attesa di stringere il neonato fra le loro braccia. Il loro atteggiamento sia il nostro, cari fratelli e sorelle! Ascoltiamo, in proposito, l’esortazione del già citato san Massimo, Vescovo di Torino: "Mentre stiamo per accogliere il Natale del Signore, rivestiamoci di indumenti nitidi, senza macchia. Parlo della veste dell’anima, non di quella del corpo. Abbigliamoci non con abiti di seta, ma con opere sante! Le vesti sfarzose possono coprire le membra ma non adornano la coscienza" (ibid.).

Nascendo fra noi, Gesù Bambino non ci trovi distratti o impegnati semplicemente ad abbellire con le luminarie le nostre case. Allestiamo piuttosto nel nostro animo e nelle nostre famiglie una degna dimora dove Egli si senta accolto con fede e amore. Ci aiutino la Vergine e san Giuseppe a vivere il Mistero del Natale con rinnovato stupore e pacificante serenità. Con questi sentimenti desidero formulare i più fervidi auguri per un santo e felice Natale a tutti voi, qui presenti, e ai vostri familiari, con un ricordo particolare per quanti sono in difficoltà o soffrono nel corpo e nello spirito. Buon Natale a voi tutti!

Vai Peppone... Un po' di sana polemica natalizia...




Riceviamo dal caro amico Roberto Prisco, chestertoniano d'acciaio, e rilanciamo al nostro piccolo popolo di dodici lettori e mezzo...
Ah, la buon'anima di Peppone...

Aridatece Peppone (e il suo Natale) - di Michele Brambilla -

Eccolo qua il presepe del compagno Cofferati: c'è Prodi
ciclista, e c'è Moana Pozzi nuda inseguita dalla Morte. Alle
spalle s'intravvede quell'intruso del Bambinello, chissà se
c'entra qualcosa. Non stiamo scherzando: questo presepe è
nella sede del Comune di Bologna, palazzo d'Accursio, ed è
stato organizzato dal signor sindaco e dai suoi compari.
Oltre al premier in bici (gli servirà per fuggire dai
fischi?) e alla povera Moana ritratta con le vergogne di
fuori (un po' di rispetto per i morti no?) ci sono altri
pilastri della storia del cristianesimo: Freud e Picasso,
tanto per citarne un paio. Questo è il presepe della giunta
progressista. E poi dicono che uno si butta a destra, diceva
Totò.

Naturalmente qualcuno penserà che siamo degli ignoranti
perché questo presepe, che diamine, l'ha fatto un artista.
Non ne riporto il nome perché non lo ricordo: ma anche se me
lo ricordassi non lo farei, un po' perché non merita
pubblicità e un po' per carità cristiana, si dice il peccato
ma non il peccatore.
Comunque questo artista Cofferati se lo è scelto con cura. È
un signore che ha fatto sapere di essere agnostico, il che
non è una colpa, perché credere non è facile né
obbligatorio. Ma agnostico - leggiamo sul vocabolario - vuol
dire persona che «non prende posizione», «che mostra
indifferenza». E invece questo genio delle statuine
natalizie ha detto che sono quarant'anni che lavora sul
presepe, e ha aggiunto: «Se faccio arrabbiare il cardinale
sono contento».
Vuol dire che tanto indifferente non è.

Insomma: uno dei tanti presepi dissacratori, o più
semplicemente idioti, una vergogna a cui assistiamo da
qualche tempo.
Anche quest'anno in tutta Italia è un fiorire di
manifestazioni «natalizie» in cui il Natale viene nascosto,
oppure annacquato.
Canzoncine in cui la parola Gesù viene sostituita da Virtù,
presepi nei quali accanto alla capanna del Bambino vien
messa una moschea, recite in cui si parla genericamente di
pace e di bontà ma non si fa menzione di quel neonato ebreo
che, comunque la si pensi,ha spezzato in due la storia:
avanti Cristo, dopo Cristo.

La giustificazione di questi zelanti distruttori del Natale
la conosciamo bene: dicono che non si devono offendere i
musulmani, tanto meno i bambini che vanno a scuola.
Giustificazione assurda perché gli islamici non sono affatto
infastiditi dal Natale: o se ne infischiano, o ricordano che
Gesù era per loro, comunque, un profeta.
No, non sono i musulmani a distruggere il Natale e, più in
genere, la tradizione cristiana: siamo noi occidentali
devastati dal politically correct e da quel ben noto vizio
dell'autoflagellazione che ci porta a ritenerci colpevoli di
tutti i mali del mondo.

Lungi da noi volerla buttare in politica, ma i maestri in
questa opera di demolizione delle nostre tradizioni sono gli
amministratori e in genere i pensatori della sinistra.
È soprattutto nelle giunte di sinistra - perché negarlo? -
che le feste del Natale vengono trasformate in burletta; e
sono soprattutto gli intellettuali e i giornalisti di
sinistra che ci fanno una testa così sulla necessità di non
offendere i musulmani, dell'aprirci alle altre culture, di
non essere sordi al dialogo.
È una sinistra che ci fa rimpiangere, e di molto, i vecchi
comunisti di una volta, che avevano tanti difetti ma erano
certamente più seri.
Un Peppone certi imbecilli li avrebbe cacciati fuori dalla
sezione a calci nel didietro.

Ma davvero: non vogliamo buttarla in politica. Il discorso è
un altro.
Cancellando il Natale, si cancella qualcosa di cui non
possiamo fare a meno. Non sto parlando delle nostre
tradizioni culturali: di quelle mi frega assai poco.
È che il Natale - e, per estensione, tutto il
cristianesimo - è qualcosa che ci riguarda ben più di una
consuetudine culturale. Di fronte a questa ricorrenza, uno
si chiede: ma sarà vero che duemila anni fa Dio si è fatto
uomo? E che dopo la morte ci attende un'altra vita?
Personalmente me lo chiedo con mille dubbi, ma anche con
tutta la speranza che posso. E sono certo che queste
domande, almeno una volta nella vita, se le pongono tutti.

Ecco cosa conta del Natale: se è una storia vera oppure no.
Ieri ero al funerale di un mio amico di 42 anni. Ho visto
sua moglie, fiera e commovente nello stare in chiesa con i
due figli piccoli. Provate a consolare questa donna parlando
del dialogo con l'islam e dell'integrazione con le altre
culture. È altro di cui ha bisogno.
Lei come tutti noi, che ogni tanto avvertiamo con un brivido
d'angoscia che il tempo si fa breve.

Giù le mani dal Natale e dalla speranza che ci porta,
quindi.
Se non vi interessa lasciatelo perdere.
Ma giù le mani.

(C) Il Giornale 14-12-2006

martedì 19 dicembre 2006

IL NATALE DI GILBERT

CANTO DI NATALE

Nel grembo di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una luce
(stanco e disfatto è il mondo, ma qui tutto
proprio tutto va bene).

Sul seno di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una stella
(sono astiosi e astuti tutti i re
ma qui sinceri i cuori).

Sul cuore di Maria giaceva il Bimbo
ed era la sua chioma come il fuoco
(stanco è il mondo, ma del mondo
è questo il desiderio).

Stava Cristo ai ginocchi di Maria
la sua chioma pareva una corona.
E tutti i fiori a lui guardavan su
tutte le stelle giù.

Gilbert Keith Chesterton

lunedì 18 dicembre 2006

Natale... cioè nascere!!!


L’avventura suprema è nascere. Così noi entriamo all’improvviso in una trappola splendida e allarmante. Così noi vediamo qualcosa che non abbiamo mai sognato prima. Nostro padre e nostra madre stanno acquattati in attesa e balzano su di noi, come briganti da un cespuglio. Nostro zio è una sorpresa. Nostra zia, secondo la bella espressione corrente, è come un fulmine a ciel sereno. Quando entriamo nella famiglia, con l’atto di nascita, entriamo in un mondo imprevedibile, un mondo che ha le sue strane leggi, un mondo che potrebbe fare a meno di noi, un mondo che non abbiamo creato. In altre parole, quando entriamo in una famiglia, entriamo in una favola.

(G.K.Chesterton)

giovedì 14 dicembre 2006

Sul "Caso" Piergiorgio Welby


La menzogna della pietà. Non si tratta di pietà per il caso singolo, ma di gestione "legale" della fine della vita.
Un interessante intervento del filosofo cattolico ed esperto di bioetica Francesco D’Agostino.
Gli interessi di chi vuole la morte della nostra civiltà chiamandola vita e progresso hanno fatto, purtroppo, di quest'uomo un caso.
E' penoso e orribile sentire gente che si offre volontaria per sopprimere quest'uomo, con la leggerezza con cui si offrirebbe per passargli un bicchiere d'acqua.
Dio non guarda a quest'uomo come a un caso perché lo ha tessuto da sempre nel suo seno.
Noi preghiamo per quest'uomo, Welby, che porta il nome di un grande santo che intercederà per lui davanti al Signore per il dono della fede e della pace del cuore.

Da Il Foglio del 6.12.2006

Quando mi si chiede se sono favorevole all’eutanasia, rispondo di no. Ma so che sto dando una risposta imprecisa e forse anche ambigua, tali e tanti sono i significati che si nascondono dietro al termine eutanasia.
Dovrei, pedantemente, cominciare con lo spiegare che l’eutanasia non ha nulla a che vedere né colla rinuncia all’accanimento terapeutico (che è in sé e per sé doverosa), né con il rifiuto consapevole e informato del paziente a trattamenti di sostegno vitale (rifiuto conturbante psicologicamente e moralmente, ma giuridicamente legittimo e vincolante per il terapeuta), né con pratiche di medicina palliativa che sono giustificate anche se – in linea di principio – potessero aggravare ulteriormente lo stato di salute del paziente o addirittura accelerarne il decesso.
Ma, una volta fatte tutte queste faticose distinzioni (ognuna delle quali tale da attivare ulteriori e a volte irresolubili questioni casistiche) sarei ancora all’inizio del mio discorso contro l’eutanasia: mi resterebbe da spiegare perché ritengo illecito sopprimere un paziente terminale, e pienamente capace di intendere e volere, anche se tale fosse il suo autentico ultimo desiderio. Si osservi che parlo di illiceità e non genericamente di immoralità: infatti, quello che davvero mi turba nei dibattiti sull’eutanasia che sentiamo da tutte le parti è la mancata comprensione dell’abisso che c’è tra giudicare un atto eutanasico e promuovere una legislazione eutanasica.
Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale. Non c’è dubbio che esistano situazioni di fine vita tragiche, se non atroci, e non c’è nemmeno il dubbio che esse siano situazioni non solo rare, ma eccezionali, ciascuna cioè connotata da una sua irriducibile particolarità.
Ma la legge non è fatta per gestire situazioni estreme ed eccezionali; è fatta per gestire la quotidianità dell’esperienza.
Hard cases make bad laws, dicono gli americani e non potrebbero dire di meglio: la legge, qualsiasi legge, burocratizza l’esperienza e non potrebbe fare diversamente. Ma situazioni estreme, come quelle di fine vita, non tollerano di essere burocratizzate. Quando la legge pretende di farlo, la morte diventa il momento conclusivo di una procedura amministrativa, fredda e anonima come inevitabilmente sono tutte le procedure.
Non è un caso (l’esempio di Olanda e Belgio) che dalla proceduralizzazione dell’eutanasia, come atto giustificato dalla richiesta informata del malato, si passi – senza avvedersi dell’enormità di questo passaggio – all’eutanasia dei malati di mente e all’eutanasia pediatrica. E non è un caso che in Olanda ferva il dibattito sull’eutanasia geriatriaca (la “pillola Drill”), qualificando – non si sa quanto in buona fede – volontà manifestate da anziani in stato di abbandono e spesso in stato di confusione mentale come volontà autonome e da rispettare come assolutamente insindacabili.
Mi chiedo spesso come potrebbe reagire un sacerdote in confessionale, qualora un penitente gli dicesse di aver ucciso per pietà, in una situazione estrema, un congiunto. Nessun atto, anche se privato, singolo, irripetibile, può naturalmente pretendere di non essere assoggettato a un giudizio morale e tale giudizio può anche essere di ferma condanna. Ma quando quel medesimo atto diviene pubblico e, una volta legalizzato, si offre come esemplare e paradigmatico, il discorso cambia completamente. Non è più la pietà per il caso singolo che viene in questione, ma la gestione legale e burocratica della fine della vita umana, attraverso l’applicazione di freddi protocolli formali. Sul resto si discute, è a questa eutanasia che bisogna dire no.

giovedì 7 dicembre 2006

FEDE, RAGIONE E BELLEZZA: COSI' HO INCONTRATO CHESTERTON


L'ALTRA FOTO...
FORTE PEARCE, NO?

FEDE, RAGIONE E BELLEZZA: COSI' HO INCONTRATO CHESTERTON


ECCO LA PRIMA FOTO...
DA SINISTRA A DESTRA: IL PROFESSOR PEARCE, I NOSTRI ANDREA MONDA E FABIO TREVISAN...

FEDE, RAGIONE E BELLEZZA: COSI' HO INCONTRATO CHESTERTON

La cronaca dell'incontro con Joseph Pearce e Andrea Monda a Bologna dal nostro Fabio Trevisan, con delle eloquentissime fotografie...



Presso lo straordinario Oratorio di S. Filippo Neri a Bologna (Oratorio bombardato durante la II guerra mondiale e tuttora in fase di ristrutturazione), si è tenuta lunedì 27 novembre 2006 una conferenza organizzata dal Centro Culturale Enrico Manfredini dal titolo: “G.K.Chesterton, l’avventura di un uomo vivo”.
Intervistato dal Prof. Andrea Monda, giornalista e saggista, ha parlato il Prof. Joseph Pearce, docente di Letteratura presso la Ave Maria University di Naples (Florida), dinanzi a un folto pubblico (per lo più giovane) molto attento e divertito.
Pearce si è dilungato a tratteggiare la sua conversione attraverso la lettura del grande scrittore inglese: lettura inizialmente avvenuta in carcere.
Militante del movimento razzista “National Front” fin dall’età di 15 anni, colmo di livore anticattolico, Pearce fu coinvolto nella politica anticattolica dell’Ulster.
Appartenne perfino, così ha confidato alla platea, ad una società segreta massonica protestante.
Fu imprigionato la prima volta nel 1982 per aver diffuso i morbi del razzismo con i suoi scritti su riviste come “Bulldog”, incitando all’odio xenofobo.
Fu in carcere che, oltre ai testi di Chesterton, gli capitò fra le mani un rosario, il quale gli fece ricordare sua nonna, che era stata una cattolica irlandese; questa toccante e preziosa esperienza – ha raccontato – lo ha scombussolato nel cuore e nella mente, trasformandolo a poco a poco in profondità.
Il rosario gli fece rammentare un gesto sprezzante compiuto da suo padre quando morì la nonna cattolica: il padre gettò via il rosario, quello straordinario strumento di preghiera che ora il giovane Pearce snocciolava, seppur molto timidamente, in quanto non conosceva alcuna preghiera cristiana.
In realtà biascicava qualche parola del “Padre Nostro”: parole che erano affiorate quasi improvvisamente alla sua mente, seppellite per anni dalla trasgressiva e disordinata militanza.
Fu soprattutto la lettura di Chesterton che rischiarò la sua mente e riscaldò il suo cuore, facendogli riconoscere il suo smisurato orgoglio, la troppa pienezza di sé.
“Una persona dev’essere grande per capire quanto è piccolo”: questa è stata la frase con la quale Pearce ha riassunto la sua prima scoperta di G.K.C.
Attraverso Chesterton e la recita periodica del rosario, Pearce sperimentò così quel processo di guarigione e di conversione che lo stava sconvolgendo interiormente.
Fu in cella ancora che partecipò per la prima volta con una comprensibile forte emozione alla Santa Messa.
Da Chesterton, Pearce ha capito come gratitudine ed umiltà, umorismo e acutezza, saggezza e innocenza ( a proposito, “Wisdom and Innocence” è il titolo di un suo saggio), debbano andare di pari passo, congiunte indissolubilmente a tutela del vero uomo, dell’autentico figlio di Dio.
“Chesterton sapeva ridere di se stesso e sapeva tenere insieme fede, ragione e bellezza e comunicarle tutte con gioia, con quella gioia che è caratteristica essenziale cristiana”: così Pearce, non senza un velo di commozione, ha testimoniato la sua fede, la sua ragione e soprattutto la bellezza dell’essere cristiani.
Questa eterna verità era stata fatta brillare con impareggiabile maestria da Chesterton attraverso l’uso del paradosso.
Con una trovata un po’ teatrale, Pearce ha finto di intrattenere un dialogo tra un interlocutore e Chesterton.
Portando un cappellaccio bianco a tesa larga, Pearce ha voluto un po’ imitare il grande giornalista di Beaconsfield, suscitando ilarità e provocando intelligentemente il pubblico, non più abituato alle sapide e divertenti battute dell’autore di Padre Brown.
Per dovere di cronaca, ma forse non solo per questo motivo, Pearce ha voluto infine ricordare suo padre, ora morto, che all’età di 65 anni si convertì alla Chiesa Cattolica (forse la nonna irlandese ha pregato tanto nei cieli e le sue preghiere sono state esaudite).
In conclusione, una delegazione dei Gruppi Chestertoniani Veronesi ha fatto presente al Prof. Pearce ed alla platea tutta la presenza chestertoniana in Italia.
Si è ricordata così la Società Chestertoniana Italiana ed il Chesterton Day di Grottammare (AP) ed anche l’impegno prezioso, attraverso libri, organizzazione di convegni ed altro dei Gruppi Chestertoniani Veronesi.
Dopo aver ringraziato e sorriso apertamente a tutto il pubblico, Pearce si è accomiatato ricordando l’impegno dell’American Chesterton Society e della Chesterton Review, auspicando una più fitta collaborazione con la Società Chestertoniana Italiana.

Fabio Trevisan

lunedì 4 dicembre 2006

Pearce a Milano

Riceviamo una segnalazione da parte di un blog amico, http://riservaindiana.blogspot.com.
Lì troverete la cronaca della serata animata da Roberto Persico organizzata dal Centro Culturale di Milano.

Chesterton anti eugenetico


Cari amici,
Chesterton si distinse da subito per la sua intelligente opzione per la vita. Qui di seguito diamo conto, con un bell'articolo uscito su Il Foglio nel 2005 a firma di Fabio Canessa, di questa sua intelligenza.
Vorremmo spargere nella Rete dei semi di sanezza mentale, visto che in questi giorni sta partendo l'offensiva mediatica pro eutanasia, e questo assolutamente non ci piace. Che facciano tutti i loro scioperi della fame, noi andremo in giro nudi per difendere la vita.



Il Chesterton Anti-Eugenetico
Un libro contro la tirannia dei medici, imposta ovviamente “per il bene di tutti”
ANNO X NUMERO 137 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO © SABATO 11 GIUGNO 2005

“Come Giove doveva essere nascosto dalle grinfie del Tempo divoratore, come Gesù Bambino da Erode, così il bambino non nato va nascosto dal suo onnisciente oppressore. Lui che non vive ancora, lui e solo lui è ab-
bandonato; e cercano la sua vita per portargliela via”. Così scriveva Gilbert K. Chesterton nel suo saggio contro l’eugenetica, pubblicato nel 1922 dall’editore Cassel con il titolo “Eugenetica e altri mali”. Chesterton cominciò a pensarci nel 1910, quando “l’eugenetica da mania divenne moda” e “lo scherzo si fece serio”. Argomento ideale per uno scrittore che, scherzando, diceva cose serissime. “Visto davanti Chesterton ha la figura di un vescovo,” scrisse Emilio Cecchi, “ma il vesco-
vo si rigira e visto di dietro ha la figura di un clown.” Una descrizione fisica che si sposa perfettamente con l’indole di questo genio singolare, nel quale il vescovo e il clown convivono senza ombra di contraddizione. Il suo pensiero e la sua scrittura sono una perfetta miscela di passione e disincanto, senso del sacro e gusto dell’assurdo, rispetto per la tradizione e sfida alle convenzioni, ironia e speranza, misticismo e logica ferrea, buon senso e amore per il paradosso. Sempre in lotta contro ogni minima traccia di grigiore, routine, banalità o stanchezza, individuò il nemico in colui che, in nome della razionalità e del progresso, priva la vita della sua fragranza. E l’eugenetica, con la sua pretesa di controllare la vita, gli sembrò il prodot-
to disumano di tutto ciò che aveva sempre combattuto: la tirannia della scienza, l’alibi del progresso, l’equivoco della libertà, le trappole del benessere. Certo, l’eugenetica di cui parla Chesterton non è quella dei nostri tempi: non sono in discussione gli embrioni ma gli invalidi, non la fecondazione assistita ma i matrimoni “assistiti”. Eppure le argomentazioni dei sostenitori del progresso scientifico invocavano anche allora la libertà di ricerca e la possibilità di straordinari vantaggi futuri, mentre le obiezioni del “vescovo clown”, convinto che non sia la religione a perseguitare la scienza ma viceversa, assomigliano molto a quelle di certi “atei devoti” di oggi. Anche se Chesterton, devotissimo, credeva in Dio al punto da vedere nell’eugenetica una subdola e melliflua manifestazione del Diavolo. Lo dimostra, a suo parere, perfino la difficoltà di essere definita con
chiarezza, sposata alla pretesa “di essere una nuova etica”. Alla domanda “Che cosa è l’eugenetica?”, Chesterton risponde che “significa cose molto diverse per persone diverse; ma soltanto perché il male trae sempre profitto dall’ambiguità”, che “è esaltata con nobili professioni di idealismo e benevolenza, con una retorica assai eloquente su una maternità più pura e una posterità più felice; ma solo perché il male è sempre adulato”, che “annovera molti seguaci le cui intenzioni sono assolutamente in buona fede... ma solo perché il male vince sempre per la potenza dei suoi magnifici babbei; e c’è stata in tutte le epoche una disastrosa alleanza fra innocenza fuori dal comune e colpa fuori dal comune”. Questi utili idioti vanno giudicati con generosità “per il bene che credono di fare e non per il male che fanno davvero”, ma il verdetto è netto: “In grande o piccola quantità, che arrivi rapidamente o piano piano, spinta da buone o cattive motivazioni, applicata a mille persone o a tre, l’eugenetica in sé è una cosa che non deve essere messa in commercio più che un veleno”.
Per quanto riguarda invece i veri eugenisti, quelli che sanno il fatto loro, Chesterton li divide in varie categorie. La maggioranza è rappresentata dagli Eugenisti Eufemisti, quelli che sono “allarmati dai discorsi brevi e ammaliati dai discorsi lunghi” e risultano “assolutamente incapaci di parafrasare questi ultimi nei primi, per quanto essi abbiano palese-
mente il medesimo significato. Dite loro ‘I poteri persuasivi e anche coercitivi del cittadino potrebbero permettergli di garantire che il peso della longevità nelle generazioni precedenti non diventi sproporzionato e intollerabile, soprattutto per le donne?’; dite questo ed essi dondolano leggermente avanti e indietro come bambini cullati. Dite loro ‘Uccidi tua
madre’ e faranno un salto sulla poltrona. Eppure le due frasi, dal punto di vista freddamente logico, sono perfettamente uguali. Dite loro ‘Non è improbabile che possa arrivare un momento in cui l’angusta distinzione che si usava una volta fra l’uomo antropoide e gli altri animali, che ha subito così tante modificazioni dal punto di vista morale, venga modificata anche in considerazione dell’importante questione dell’allargamento del regime alimentare’, dite questo e un mormorio di meraviglia passerà sui loro volti. Ma dite loro ‘Mangia un uomo!’ e la loro sorpresa sarà sorprendente. Eppure le due frasi
hanno il medesimo significato. Ora, se qualcuno giudica bizzarri questi due esempi, riferirò due casi attuali della discussione eugenetica. Quando Sir Oliver Lodge ha parlato dei metodi ‘della scuderia di allevamento’ umana,
molti eugenisti hanno inveito contro la rozzezza della proposta. Eppure molto prima uno dei migliori beniamini dell’interesse altrui aveva scritto ‘Che assurdità è questa educazione! Chi potrebbe educare un cavallo da corsa o un levriere?’ Affermazione che non significa nient’altro che una scuderia di allevamento umana. O ancora, quando ho parlato di gente ‘che è stata sposata con la forza dalla polizia’, un altro illustre eugenista si è fatto forte della sua sincera assicurazione più tardi ho visto un proclama eugenetico, secondo il quale lo Stato dovrebbe estendere il suo potere in quest’area. Solo lo stato può essere quella corporazione che permette agli uomini di valersi della coercizione: e quest’area può essere solo l’area della sele-
zione sessuale... Sir Oliver non intendeva dire che gli uomini sarebbero legati nelle scuderie e strigliati dagli stallieri. Intendeva dire che subirebbero una perdita di libertà che per gli uomini è anche più infamante”.
I più irritanti sono invece gli Eugenisti Sofisti. Quelli che, a chi protestasse per la “diffusione del cannibalismo nei ristoranti del West End” sono pronti a ribattere “Bene, dopo tutto, quando la regina Eleonora succhiò il sangue dal braccio del marito era cannibale”. Ecco la risposta di Chesterton: “Ti limiti a succhiare il sangue avvelenato dalle braccia della gente? E gloriati pure del titolo di cannibale”. Allo stesso modo, molti giustificavano così l’eugenetica dei matrimoni combinati: “Dopo tutto, quando scoraggiamo un ragazzo dallo sposare una nera con la gobba, noi siamo effettivamente eugenisti”. Ai quali Chesterton risponde: “Limitatevi soltanto a quei ragazzi che sono naturalmente attratti dalle nere gobbe e vantatevi del titolo
di eugenisti, tanto più che quel fenomeno sarà raro. Ma sicuramente il buon senso comune deve suggerire che se l’eugenetica ha a che fare solo con casi così stravaganti, potrebbe chiamarsi appunto buon senso comune e non eugenetica. La razza umana ha escluso tali assurdità da tempi immemorabili e non ha mai usato il nome di eugenetica”.
Sarebbe lo stesso “definire flagellazione colpire sulle spalle un gentiluomo che sta soffocando o definire tortura quando un uomo si scongela le dita al fuoco”. I più superficiali sono gli Eugenisti Autocrati (“pensavo di chiamarli Eugenisti Idealisti, ma
implicherebbe un’umiltà nei confronti del bene disinteressato che essi difficilmente mostrano”), quelli convinti che “ogni riforma moderna ‘lavorerà’ senz’altro bene, perché essi saranno lì a controllare. Dove saranno e per quanto tempo, non lo
spiegano con chiarezza”. Quelli che si dichiarano “responsabili di un intero movimento anche dopo che lo avranno lasciato”.
Invece “non capiscono la natura di una legge più che la natura di un cane. Se lasci libera una legge, farà come fa un cane. Ubbidirà alla sua natura, non alla vostra”. Gli Eugenisti Precedenti hanno poi la pretesa che “si possa consacrare e purificare per sempre qualsiasi campagna, ripetendo i nomi dei valori astratti che sono nelle menti dei migliori promotori di essa. Questa gente dirà ‘Ben lungi dal mirare alla schiavitù, gli eugenisti sono alla ricerca della vera libertà; libertà
dalla malattia e dalla degenerazione, eccetera’. Non è il caso di perdere molto tempo con costoro. Poiché molti di loro sono agnostici o generalmente antipatizzanti della religione ufficiale, basta obiettare: ‘Supponiamo che uno di essi dica ‘La Chiesa d’Inghilterra è piena di ipocrisia.’ Che cosa penserebbe di me se rispondessi: ‘Ti garantisco che l’ipocrisia è condannata da ogni forma di Cristianesimo ed è particolarmente sconfessata dal Libro delle Preghiere’? Supponiamo che sostenga che la Chiesa di Roma si è resa colpevole di gravi crudeltà. Che cosa penserebbe di me se rispondessi ‘La Chiesa di Roma è espressamente tenuta alla mitezza e alla carità e dunque non può essere crudele’?”. E infine ci sono gli Eugenisti Sperimentatori, la razza peggiore. “E’ sufficiente dire che la cosa migliore che l’onesto Sperimentatore potrebbe fare è un onesto sforzo di sapere che cosa sta facendo. Anziché fare qualsiasi cosa finché non lo ha scoperto”.
Quando costoro accusano Chesterton, di individualismo e di opposizione a qualsiasi interferenza dello Stato, egli controbatte di “non negare, ma anzi sostenere con forza il diritto dello Stato di interferire per curare un grande male. Ma in questo caso interferirebbe per produrre un grande male”. L’atmosfera politica nella quale l’eugenetica diventa possibile è infatti quella che Chesterton definisce “l’anarchia dall’alto”, la tendenza del governo inglese a legittimare, in nome di un presunto allargamento della libertà, ogni stravaganza degli scienziati. “Il mondo moderno è come il Niagara. E’ splendido, ma non è forte. E’ debole come l’acqua, come il Niagara. L’obiezione a una cascata non è che è assordante o pericolosa o anche distruttiva, è che non può fermarsi”. Così anche “lo Stato è improvvisamente e tranquillamente impazzito. Dice assurdità e non può fermarsi”. E il sintomo della sua follia “non che una cosa simile non gli era mai passata per il cervello. Eppure pochi giorni è che accetta ciò che è abnorme ma che non può recuperare ciò che è normale”. Ne è una prova che “la definizione di ogni crimine è diventata sempre più vaga e si diffonde come una nube che si spalma e si rarefà su paesaggi sempre più
ampi”. Un’altra prova è che lo Stato si mostra sempre più succube del mito della medicina. Il compito del medico dovrebbe essere quello di “salvarci dalla morte; e, essendo la morte, per riconoscimento generale, un male, egli ha il diritto di somministrare la più strana e sconosciuta pillola che ritiene sia la cura per tali rischi di morte. Non ha il diritto di somministrare la morte come la cura per tutte le malattie umane. E non ha alcuna autorità morale per imporre un nuovo concetto di felicità, così come non ha alcuna autorità morale per imporre un nuovo concetto di sanità”. Brutto
segno quando la medicina parla come la voce della verità, in base a “questa autorità sfuggente ed evanescente che scompare
quando si cerca di precisarla”. Un medico non ha più diritto di chiunque altro di fissare i limiti entro i quali una vita umana può considerarsi accettabile o meno (“tutte le persone rifiuterebbero una simile responsabilità, tranne le peggiori, che la accetterebbero”). Invece il medico si considera “il consulente della salute della comunità” e ha come motto “La prevenzione è meglio della cura”. Finisce così col “trattare i sani da malati”( e se siamo tutti malati, lo è anche “il consulente della salute della comunità”, che dunque non sa come curarsi). Invece “la prevenzione non è meglio della cura. Tagliare la testa di
un uomo non è meglio che curargli il mal di testa e non è neppure meglio che sbagliare la cura”. Anzi, “non solo la prevenzione non è meglio della cura, ma è addirittura peggiore della malattia. Prevenzione significa essere malati a vita, con in più l’angoscia di dover star bene”. La proibizione di bere alcolici non parte dalla considerazione dei danni che un ubriaco potrebbe fare al prossimo, ma da quelli che fa a se stesso, perché “il governo deve salvaguardare la salute della comunità... e dunque necessariamente controllare tutte le abitudini di tutti i cittadini”. Lo scenario è allarmante: “un’élite in grado di avere
una precisa concezione di una nazione sana, come Napoleone aveva una precisa concezione di un esercito”. Non uno stato di anarchia, dunque, ma di tirannia. La tirannia dei medici, con il potere di intromettersi nelle faccende di tutti. Per il bene di tutti. Ma, a differenza dell’anarchia, “la tirannia è realizzabile, plausibile e anche razionale. E’ razionale, ed è sbagliata. E’ sbagliata, oltre al fatto che non si può eleggere un esperto della salute, perché un esperto della salute non può esi-
stere”. Se si cade da un albero e ci si rompe una gamba, bisogna chiamare il medico, che avrà un’ampia conoscenza di questo campo specialistico: “Ci sono solo un certo numero di modi in cui una gamba può essere rotta; io non ne conosco nessuno e lui li conosce tutti. Si può essere specialisti della rottura delle gambe. Non si può essere specialisti delle gambe. Quando non sono rotte, le gambe sono una questione di gusti. Se il medico guarisce la mia gamba, merita una statua gigantesca... ma non ha più diritti su di essa. Non deve venire a insegnarmi come camminare, perché l’abbiamo imparato alla medesima scuola: l’infanzia... Non ci può essere uno specialista universale; lo specialista non può avere alcun tipo di autorità, se non strettamente limitata al suo campo. Non ci può essere qualcosa come un consulente della salute della comunità, perché non ci può essere qualcuno specializzato sull’universo”. Se è difficile definire l’eugenetica, definire la
salute è semplicissimo: “La salute non è una qualità ma una proporzione di qualità”, “salute è natura” e, per un cattolico come Chesterton, “la natura è Dio; e nessun agnostico ha il diritto di vantare la Sua conoscenza. Perché Dio deve essere, fra le altre cose, quel mistico e complesso equilibrio di tutti gli elementi, grazie al quale alla fine noi siamo in grado di alzarci in piedi e tirare avanti; e qualsiasi scienziato che pretenda di avere esaurito questo soggetto di perfetta sanità, lo definirò il più abietto dei fanatici religiosi”. Perché solo “un’istituzione che proclamasse di venire da Dio potrebbe avere una simile autorità, ma questa è l’ultima rivendicazione che gli eugenisti possono fare. Una casta o un ordine professionale che cerca di governare gli uomini in una materia simile è come l’occhio destro di un uomo che pretendesse di governarlo o la gamba sinistra che sfuggisse al suo controllo. E’ follia”. Non è comunque il caso di affidare “tali poteri nelle mani di uomini che possono essersi imbrogliati o possono essere imbroglioni”. Ma gli eugenisti fanno l’esempio di una malattia ereditaria, per esempio la tubercolosi. Anche in questo caso Chesterton sarebbe contrario a un intervento eugenetico? Certamente, perché “la malattia o la sanità di un tubercoloso può essere un fattore chiaro e calcolabile. La felicità o l’infelicità di un tubercoloso è invece un altro fattore, del tutto incalcolabile”. E propone due esempi illustri: John Keats e Robert Louis Stevenson. “Keats è
morto giovane, ma ha goduto più lui in un minuto che un eugenista in un mese. Stevenson era malato ai polmoni e, per quanto ne so, l’occhio eugenetico l’avrebbe saputo con una generazione d’anticipo. Ma chi eseguirebbe l’illecita operazione di eliminare Stevenson?”. E non solo per “il piacere che noi abbiamo provato grazie a lui, ma per quello che ha provato egli stesso. Se fosse morto senza scrivere una riga, avrebbe comunque provato una gioia più viva di quanta è stata concessa alla maggioranza degli uomini”. E con quale criterio ne avrebbero impedito la nascita? Il punto più debole dell’eugenetica sta proprio nel “non poter dichiarare chi controlla chi” e “secondo quale autorità gli eugenisti fanno quello che fanno”. Come la caccia alle streghe nel Medioevo, scandalosa non perché si credeva alle streghe, ma perché si credeva a quelli che sostenevano di poterle riconoscere. Per questo si trasformò in una feroce persecuzione nei confronti delle donne più deboli e “finì con l’essere ciò che l’eugenetica comincia a essere”. Perché, anche in questo caso, il problema è che gli eugenisti non conoscono ciò di cui si occupano. E’ indubbio che esista un fattore ereditario, ma è molto dubbio il suo funzionamento, as-
sai più complesso e articolato di quanto la genetica non ci voglia far credere. Può capitare di “vedere balenare sul volto di
un bambino l’immagine di qualche avo che abbiamo conosciuto”, ma abbiamo solo la possibilità “di vedere un antenato conosciuto fra un milione di antenati sconosciuti”. Inoltre, H. G. Wells, considerato da tutti un paladino dell’eugenetica, ha messo in dubbio l’ereditarietà della salute, che non è una qualità, come il colore dei capelli o la lunghezza delle membra, ma “una relazione, un equilibrio”, diventando, secondo Chesterton, “l’eugenista che ha distrutto l’eugenetica”, perché ha lanciato “una sfida alla quale non si può non rispondere”, ma che è rimasta “senza risposta”. Come un tiranno, la scienza non si preoccupa di rispondere. E “quella che sta tentando di tiranneggiare attraverso il governo è la Scienza. Quella che sta usando il braccio secolare è la Scienza. Il credo che davvero sta imponendo decime e impadronendosi delle scuole, il credo che
davvero è fatto osservare con multe e arresti, il credo che davvero non è proclamato nelle omelie ma nelle leggi, e diffuso non dai pellegrini ma dai poliziotti. Quel credo che è il grande ma controverso sistema di pensiero che è cominciato con l’Evoluzione ed è finito con l’Eugenetica. Il materialismo è davvero la nostra Chiesa nazionale; perché il Governo lo aiuterà davvero a perseguitare i suoi eretici. La vaccinazione, negli ultimi cento anni, è stata messa in discussione all’incirca come il
battesimo negli ultimi duemila. Ma sembra del tutto ovvio ai nostri politici imporre la vaccinazione, mentre sembrerebbe
loro una follia imporre il battesimo”. Almeno l’Inquisizione, che, nel passato, perseguitava gli eretici, lo faceva in nome di una
verità alla quale credeva. Gli esperimenti eugenetici invece tentano di scoprire una verità che è ancora solo un’ipotesi. Gli eugenisti “non sanno che cosa vogliono, tranne che vogliono la tua anima, il tuo corpo e il mio, allo scopo di fare una scoperta”. L’Inquisizione torturava “per un credo che esisteva potentemente nella testa di qualcuno”, l’Eugenetica “per una scoperta che non è ancora arrivata nella testa di nessuno e forse non arriverà mai”. E’ “la prima religione sperimentale anziché dottrinaria. Tutte le altre Chiese nazionali si sono basate sul fondamento della verità. Questa è la prima Chiesa che
si è basata sul fatto di non averla trovata”. I loro adepti ammettono di esserne privi, ma sono in buona fede quando non disperano di trovarla, un giorno o l’altro. Peccato che “non abbiano nessuna idea in testa, ma solo soldi in tasca”. E se è onorevole essere disposti a “subire del male per ciò che io penso o qualcun altro pensa, non sono disposto a subire del male, e neanche ad avere delle noie, per qualsiasi cosa potrebbe essere pensata da qualcuno dopo che mi ha fatto del male”. Vaghi nella teoria, ma molesti nella pratica, gli eugenisti hanno come parola chiave “l’inevitabile”, o, come la chiama Chesterton, “l’impenitenza”. La parola d’ordine è che “non si torna indietro” ed è fondata “sul materialismo e sulla negazione del libero arbitrio”. Succede anche nella politica inglese, dove nessun governo ha il coraggio di abrogare le leggi del precedente e
considera “inevitabile” ereditare e mantenere le leggi che ha trovato, anche quando il proprio partito le aveva duramente attaccate quando erano state promulgate. Segno che la caratteristica del tempo è “nutrire la sciocca idea che ciò che è stato fatto non può essere disfatto”. Un rifiuto che non è “solo una colpa intellettuale, ma anche morale” e rivela “la nostra incapacità mentale di capire l’errore che abbiamo commesso”. E’ perché non crediamo veramente in nessuna cosa che possiamo facilmente accettarle tutte. “Quando i critici moderni dicono che Giulio Cesare non credeva in Giove... trascurano una differenza fondamentale fra quell’epoca e la nostra. Forse Cesare non credeva in Giove, ma neppure era certo della sua inesistenza. Non c’era niente nella sua filosofia, o nella filosofia dell’epoca, che potesse impedirgli di pensare che ci fosse uno spirito particolare e predominante nel mondo. Ma i materialisti moderni non hanno permesso di dubitare, hanno permesso di credere. Perciò, mentre il pagano poteva valersi di presagi, auguri o sogni, senza la certezza che fossero avvertimenti celesti o premonizioni mentali, il cristiano di oggi, diventato pagano, non deve assolutamente prendere in considerazione fatti simili, ma deve rifiutare sia l’oracolo che l’altare. Lo scettico di oggi è stato anestetizzato contro tutto quel che di naturale c’era nel soprannaturale”. Il paradosso consiste nel considerare “stabile la ‘condizione moderna’, sebbene proprio l’aggettivo ‘moderna’ implichi che è effimera, mentre le ‘vecchie idee’ sono considerate inaccettabili, sebbene proprio la loro antichità sia spesso la prova della loro durevolezza”.
Tutto questo in nome di una libertà di pensiero e di azione che non ha alcun fondamento.
“La libertà ha prodotto scetticismo e lo scetticismo ha distrutto la libertà. Gli amanti della libertà pensano di averla resa illimitata, mentre invece l’hanno resa indefinita” e la mentalità moderna si è messa nelle condizioni di “andare verso la legislazione eugenetica e verso ogni concepibile e inconcepibile stravaganza dell’eugenetica”.
Frutto perverso di un’epoca che “ama i problemi e odia le soluzioni”.
Fra gli altri mali che Chesterton prende in esame, insieme all’eugenetica, un posto di rilievo spetta al socialismo, all’illuminismo e al liberismo. Hanno in comune la colpa di aver distrutto le divinità familiari, senza le quali la famiglia ha perduto la sua divinità, quella indissolubile sacralità di “fede mistica e materialità domestica, che generalmente procedono insieme e insieme sono scomparse”. Lasciando i poveri senza alcuna religione con la quale “rendere sacra e dignitosa la loro
povertà”. Ecco che cosa succede quando “si elimina dalle proprie vite tutto ciò che non tende alla completa felicità”.

Fabio Canessa

venerdì 1 dicembre 2006

Parlano di noi...



nella foto sopra: Bobo Persico è il signore con la testa rasata e le bretelle, secondo da sinistra, Marco Sermarini è il terzo da sinistra con la camicia bianca. L'immagine si riferisce al 3° Chesterton Day, edizione 2005, una bella gazzarra...

Vi proponiamo un articolo uscito a Giugno sul bel settimanale Tempi, con annessa intervista del presidente della Società Chestertoniana Italiana, l'avv. Marco Sermarini.
E' di Roberto Persico, un carissimo amico, golden chestertonian!!!


Tempi n° 27 del 29/06/2006

'Gli occhi miracolosi' di Chesterton, il genio dimenticato che profetizzò astemie dittature islamiste e mali eugenetici
70 anni fa scompariva l'autore di apdre Brown e dell'uomo che fu giovedì. La sua attualità, il suo realismo e la sua ironia nelle parole del presidente della soceità chestertoniana italiana

di Persico Roberto

In una conferenza tenuta a Toronto nel 1930, su "La cultura e il Pericolo Incombente", Gilbert Keith Chesterton spiegò che il "pericolo incombente" non era il bolscevismo, perché il bolscevismo era stato messo alla prova, e «il miglior sistema di distruggere un'utopia è realizzarla». Non era neppure un'altra guerra mondiale, anche se questa sarebbe scoppiata «quando la Germania farà la stupida sul confine polacco». Il pericolo incombente era «la sovrapproduzione intellettuale, educativa, psicologica, artistica che, insieme alla sovrapproduzione economica, minaccia il benessere della civiltà contemporanea. La gente sarà inondata, accecata, assordata e mentalmente paralizzata da un profluvio di esteriorità, che non le lascerà tempo per il piacere, il pensiero o la creatività».
Contro questo pericolo c'è, sei secoli dopo Dante, un solo rimedio: lo sguardo. «Dammi occhi miracolosi per vedere i miei occhi / questi specchi rotanti che vivono in me / cristallo terribile / più incredibili di tutte le cose che vedono» scrisse GKC in una poesia. Già in un racconto pubblicato sul giornale della scuola aveva narrato di un ragazzo preso per matto dai vicini perché si stupisce di tutto quel che gli altri danno per scontato. La "conversione" del professor Eames, l'intellettuale pessimista di "Manalive", avviene nel momento in cui la luce dell'alba illumina le cose come fosse il primo mattino del mondo: «E sulla piccola città accademica le cime dei vari edifici presero ciascuna una tinta diversa: qui il sole rilevava lo smalto verde d'una guglia, là i tegoli rossi d'un villino, altrove gli ornamenti d'ottone di qualche bel negozio o le ardesie azzurrognole del tetto aguzzo d'una vecchia chiesa. E queste creste variopinte sembravano aver ciascuna un che d'individuale e di stranamente significativo, come cimieri di cavalieri famosi, in un corteggio o sul campo di battaglia: ciascuna attraeva lo sguardo, e specialmente quel disperato sguardo di Eames, errante sullo spettacolo d'un'aurora che per lui doveva essere l'ultima. Il sole cresceva in una gloria che tutti i cieli erano incapaci di contenere; ma la distesa delle acque si dorava, fluiva e pareva sufficiente alla sete degli dei».
Settant'anni fa quegli occhi si chiudevano; ma le tracce di quello sguardo rimaste nei suoi scritti guidano ancora le pupille di molti a guardare il mondo nel suo splendore, e a ringraziare il suo Creatore. Lo abbiamo ricordato insieme a Marco Sermarini, il vulcanico fondatore e presidente della Società Chestertoniana italiana.
Perdoni la curiosità: come le è venuta l'idea di fondare una "Società Chestertoniana"?
Per il desiderio di raccontare a tutti qualcosa di bello, utile, affascinante e costruttivo per la vita. Nulla di intellettuale. Alcuni amici e io avevamo in comune la lettura delle opere di questo grande - grande in tutti i sensi - e abbiamo deciso che bisognava cercare di comunicare a tutti il tesoro di questo inglese bizzarro, pieno di... carne e paradossi, che ci ha reso l'inestimabile servigio di renderci più chiara, ragionevole e lieta la vita.
Com'è nata la sua passione per Chesterton?
È stato come un fiume carsico, che scompare e quando non te l'aspetti ricompare. Avevo cinque o sei anni, vedevo in tv le storie di un pretino piccolo e arguto, che mirava a far convertire piuttosto che condannare i rei. Era il 1970-71, il pretino era padre Brown interpretato da Renato Rascel. Sei puntate memorabili, con qualcosa di vero, oltre la trama in sé, che non capivo ma forse presentivo. Poi finirono, e quel pretino simpatico cadde apparentemente nel dimenticatoio. Non avevo la più pallida idea di chi fosse Chesterton, ma un bel giorno - decenni dopo - trovai allegato a un settimanale L'Uomo che fu Giovedì. Iniziai a leggere, capii che meritava, volevo trovare altro. Andai in libreria, chiesi, e scoprii che era l'autore dei Racconti di Padre Brown della mia infanzia! Dopo anni mi sembrò di riabbracciare un caro vecchio amico. Scoprii pure che Chesterton si era convertito al cattolicesimo dopo averne cantato la ragionevolezza per decenni. Capii l'Origine di quel fascino. Oggi, cerco di avere tutto quello che c'è in giro su di lui, e mi rendo conto, putroppo, che è stato praticamente dimenticato.
Perché?
Incomprensibile. È uno dei pochi scrittori cattolici del 900 che sia riuscito a dare corpo, con giudizi ragionevolmente fondati e artisticamente interessanti, alla razionalità della fede, scrivendo gialli ma anche saggi e opere di critica letteraria ancora validissimi. Per decenni è stato tradotto in decine di lingue, esistono sue edizioni italiane già dagli anni Dieci. Borges disse di aver passato ore felicissime leggendolo...
Il motivo dunque dell'oblio?
Mah! Qualcuno dice: non era né filo capitalista né tanto meno marxista (fu uno degli inventori delle teorie distributiste con Belloc e padre McNabb), e nel mondo della Guerra fredda non sapevano dove metterlo. Forse, più semplicemente, era un cattolico vero, senza sensi di colpa e non andava più di moda...
Cosa fa dunque la Società Chestertoniana?
Vogliamo ridare lustro a questo nome facendolo circolare il più possibile. Da quattro anni organizziamo il "Chesterton Day", in cui ne celebriamo il genio e la simpatia con incontri, musica, buon cibo e buon vino (GKC amava tutto questo). Qualche trasmissione radiofonica. Un bollettino on-line che inviamo gratuitamente a chi ne fa richiesta.
Ma vale ancora la pena leggere GKC oggi?
Alcuni suoi scritti sono a dir poco profetici. L'Osteria volante immagina un'Inghilterra in cui si instaura un governo filoislamico che vieta l'uso degli alcolici; in Eugenics and other evils intravide quasi cento anni fa tutti i problemi di eutanasia, eugenetica e leggi 40 varie con cui combattiamo oggi. Chesterton poi scrisse che sarebbe arrivato un giorno in cui avremmo dovuto difenderci con le armi per affermare che due più due fa ancora quattro: non le pare questo il momento?

giovedì 23 novembre 2006

Banfi, i tolleranti oscuratori e CulturaCattolica

La vicenda di Banfi e culturacattolica.it

L'amico Alfredo Errico di CulturaCattolica ci informa che il sito è per ora migrato limitatamente e temporalmente su http://www.culturacattolica.ilcannocchiale.it/ ove potete trovare anche i commenti finora giunti.

Continuiamo a sostenere questi amici, anzi facciamo insieme questa piccola battaglia. E' in queste scaramucce quotidiane che si gioca la nostra vita. Non credo che verremo chiamati ad una nuova Lepanto, ma la nostra Lepanto è quotidiana...

L'Uomo Vivo

Chestertoniani, tutti a Torino!!!

il Nostro Gilbert beato?


Dall'Avvenire di Sabato 18 Novembre 2006
Noi abbiamo non abbiamo mai avuto dubbi...
Anche la Società Chestertoniana Italiana intende fare un passo simile a quello dell'Americana.
Pearce sta effettuando una sorta di tournee in Italia. La Società in particolare è orgogliosa di comunicare di essere coorganizzatrice dell'incontro di Torino, che si svolgerà martedì 28 Novembre 2006 alle ore 21.00 a cura degli amici del Centro Culturale Pier Giorgio Frassati.

IL CASO
Chiesto al vescovo di Northampton, in Gran Bretagna, di avviare un'indagine sulle virtù cristiane dello scrittore

Chesterton beato?

Parla Joseph Pearce, biografo di G.K.C.: «Odiò le eresie, ma amò gli eretici» «I suoi libri sono continuamente ripubblicati. È in atto un revival della sua produzione, soprattutto religiosa»

Di Lorenzo Fazzini

Chissà che un giorno anche i giallisti non abbiano anch'essi un santo protettore in Cielo. Già, perché c'è chi si augura che uno dei più grandi scrittori di romanzi investigativi possa essere elevato agli onori degli altari. E non per meriti letterari, naturalmente, ma per la sua testimonianza di fede e vita cristiana: infatti, per alcuni suoi ammiratori Gilbert Keith Chesterton - di cui quest'anno ricorrono i 60 anni dalla morte - è fortemente indiziato di santità. Tanto che Dale Ahlquist, presidente dell'American Society a lui dedicata, con sede a Minneapolis, si è già attivato presso il vescovo di Northampton, in Gran Bretagna, per avviare un'indagine preliminare per accertare la pratica delle virtù cristiane del creatore di padre Brown. Della santità di G.K.C. - come il prolifico scrittore e polemista si firmava sui quotidiani del tempo - non ha dubbi Joseph Pearce, uno dei maggiori conoscitori di Chesterton: «Credo che lui sia davvero in Paradiso e sarei oltremodo contento che una causa di beatificazione per lui avesse buon esito». Pearce è autore di una sontuosa monografia sull'autore di Un uomo chiamato Giovedì, intitolata Wisdom and Innocence, edita nel 1996, considerata da Aidan Mackey, dell'autorevole Chesterton Study Centre, «la più bella biografia» dedicata all'autore londinese da quando, nel 1944, venne pubblicato il lavoro di Maisie Ward. E di G.K.C. Pearce esalta non solo il profondo cattolicesimo di cui sono intrise le sue prove narrative o apologetiche, bensì un particolare tratto esistenziale: «Nella sua vita ha incarnato il comandamento del Signore di amare non solo i nostri vicini, ma anche i nostri nemici. Chesterton spese tutta la sua vita discutendo con i suoi "avversari" culturali, come H. G. Wells e George Bernard Shaw, ma senza diventare nemico di nessuno: con loro si confrontò sempre, ma non litigò mai. Anzi, proprio questi due intellettuali lo considerarono sempre un amico particolarmente apprezzato».
In pr atica, annota Pearce, nelle quotidiane battaglie tutte culturali che ingaggiò con Shaw, Wells e compagni, il baffuto scrittore esercitò ante litteram quella prassi che sarebbe stata così esplicitata da papa Giovanni XIII: «Condannare il peccato ma amare il peccatore». «Chesterton lo fece da vero santo», argomenta Pearce, «odiando l'eresia ma amando l'eretico. Per me egli è un esempio di santità, che cerco di imitare nella mia vita di ogni giorno». Del resto, fu proprio l'autore di Ortodossia a colpire il ventenne Pearce, allora neofascista e antipapista incallito, incarcerato per ben due volte per i suoi articoli in qualità di appartenente al movimento di estrema destra British National Front. «Mi innamorai della personalità e dello spirito di Chesterton» riconosce Pearce, oggi docente all'Ave Maria University di Naples, Florida. E da lui fu idealmente condotto ad abbracciare la fede cattolica, nel 1989: «Mi guarì in dieci anni grazie alla sua filosofia della gratitudine».
Ma anche da un punto di vista culturale l'opera e il pensiero del giallista che influenzò J.R.R. Tolkien, Evelin Waugh e C.S. Lewis, sostiene Pearce, sono da riprendere in mano: «I romanzi di Chesterton mantengono ancor oggi tutta la loro attualità rispetto alla cultura odierna. In racconti come L'uomo che si chiamava Giovedì e La sfera e la croce rivaluta l'importanza della filosofia e della teologia e, al tempo stesso, espone le conseguenze distruttive del relativismo, in tutte le forme in cui esso si presenti. In Il Napoleone di Notting Hill affronta il tema del Grande Governo e loda, per contro, il patriottismo e l'amministrazione locale. Non è un'esagerazione vedere questo libro come la parabola dei pericoli del laicismo dittatoriale di istituzioni quali l'Unione europea». Vi è una nota profetica che riguarda anche il sorgente fondamentalismo islamico: «Nel romanzo L'osteria volante c'è un'allusione al pericolo dell'influenza musulman a sulla cultura occidentale, mentre nella sua ballata Lepanto vi è un avvertimento sui pericoli dell'islamismo militante».
Del resto, secondo Pearce, la produzione di Chesterton sta godendo in questi ultimi anni una riscoperta notevole: «L'American Society a lui intitolata è quanto mai dinamica e l'annuale conferenza che essa organizza rappresenta uno dei più grandi ed appassionanti eventi letterari dedicati ad un singolo autore che ci siano al mondo. Vi è anche una serie televisiva consacrata ai personaggi di Chesterton, mentre le sue opere vengono continuamente pubblicati in nuove edizioni, ricevendo un'attenzione sempre maggiore da parte dei media. Si può dire che oggi G.K.C. sia letto più di ogni altro periodo da 70 anni in qua».
In particolare, annota lo studioso inglese, è soprattutto la produzione religiosa di Chesterton ad essere indagata più in profondità: «Ortodossia e L'uomo eterno, così come le sue stupende biografie di San Tommaso d'Aquino e San Francesco, vengono studiate con sempre maggior frequenza; anche tra i teologi e i filosofi si assiste ad un certo revival di interesse sulla sua opera. Si potrebbe quasi dire che Chesterton è risorto dai morti».

mercoledì 22 novembre 2006

Banfi e l'intolleranza dei cosiddetti tolleranti... (fantastici, non si smentiscono mai!)

Il responsabile del sito www.culturacattolica.it, di cui condividiamo il lavoro e a cui collabora la cara amica chestertoniana Nerella Buggio, ci ha mandato questo comunicato sulla fiction di Lino Banfi (mi spiace tantissimo che si sia prestato all'operazione, mi è molto simpatico), che ha scatenato una guerra attorno al sito di culturacattolica.it.
Ne condividiamo il contenuto e esprimiamo solidarietà e partecipazione diffondendo il comunicato e invitando chi legge a fare altrettanto.
Agli oscuratori del sito: vi si è oscurato il cervello, accendete la Luce...
A Nerella: molti nemici...

Società Chestertoniana Italiana

Mi permetto di scrivervi (sono il responsabile del sito
www.culturacattolica.it) per farvi conoscere quanto ci sta accadendo
in questi momenti: la nostra collaboratrice Nerella Buggio ha fatto un
articolo sulla fiction di Lino Banfi, chiedendo, tra altre
considerazioni, di spostare il programma in seconda serata. La
Repubblica ha messo la notizia in prima pagina sul suo sito web,
dicendo che «i cattolici della rete contro Banfi» chiedono di
«oscurare la fiction omosessuale».

L´esito di questo è stato un attacco verbale e informatico contro il
nostro sito, per cui ora non è più visibile, nonostante i tentativi
dei responsabili del servizio di riparare la situazione. Abbiamo anche
preparato un comunicato stampa che invio.

Grazie della vostra cortese attenzione.

P.S.: vi copio qui sotto l´articolo della bagarre perché - a meno di
risoluzione del problema - non lo potrete trovare sul sito «oscurato».

Nonno Libero diventa "il padre delle spose"
Lino Banfi, interprete di Nonno Libero, nella fiction televisiva "un medico in famiglia", ci ha
lentamente abituati con la sua aria sorniona, alle famiglie "aperte e
allegre", dove regna l´allegria, la mancanza della mamma è surrogata
da nonni e tate premurose, dove il padre si sposa la zia e insieme
spariscono per lunghi mesi, lasciando la famiglia nelle mani di questo
instancabile nonno, che denigra la scuola libera, inneggia al
sindacato come risolutore di tutti i mali e si sposa la consuocera
borghese per redimerla.

Ora nonno Libero, si lancia in un´altra operazione di "marketing
culturale", con la prossima fiction in onda su RAI UNO, il 20
novembre, in prima serata, dal titolo "Il padre delle spose", racconta
la storia di un padre, pugliese, vedovo, che dopo molti anni che non
vede la figlia che vive in Spagna, decide di andare a Barcellona a
trovarla e la trova, sposata con un´altra donna.

Dopo il rifiuto iniziale del padre tradizionalista, gli autori
garantiscono il lieto fine, ci mancherebbe altro, del resto sempre di
un matrimonio si tratta, o no?

No.

Due donne sono una coppia che vive insieme, non basta che una legge
dica che anche se dello stesso sesso possono dirsi "sposate", il
matrimonio è un´altra cosa, spiacente, ma le parole hanno un peso e
gli impegni che si prendono sono differenti.

Lo so, le accuse di razzismo e di grettezza mentale, sono assicurate,
persino un vecchio patriarca pugliese si arrende e finisce per
accogliere le due donne come figlie e voi vorrete protestare?

Beh, io sì. Una cosa è accogliere la figlia lesbica e un´altra è dire
che il matrimonio tra due omosessuali e due eterosessuali è la
medesima cosa.

Io voglio protestare, perché questo continuo far passare in
televisione l´idea, che tutte le unioni possono essere equiparate, è
una forzatura innaturale.

Non sospenderanno certo la fiction per le nostre proteste, ma far
sentire la nostra voce, chiedere lo spostamento in seconda serata e
magari disdire il canone RAI potrebbe essere utile.

giovedì 16 novembre 2006

Illustrissimi...


Chesterton e Albino Luciani

Il compianto Papa Giovanni Paolo I scrisse un volumetto di lettere immaginarie a personaggi famosi. Una la dedicò al nostro Gilbert. Per gentile concessione dell'editrice Messaggero di Padova eccone il testo.
Merita.

A Gilbert K. Chesterton

In che razza di mondo...


Caro Chesterton,

sul video della televisione italiana è apparso nei passati mesi Padre Brown, imprevedibile prete-poliziotto, creatura tipicamente tua. Peccato che non siano anche apparsi il professor Lucifero e il monaco Michele. Li avrei visti volentieri, come tu li hai descritti ne "La sfera e la croce", viaggianti in aeroplano, seduti l'uno di fronte all'altro, Quaresima davanti a Carnevale.
Quando l'aereo è sopra la cattedrale di Londra, il professore scaglia una bestemmia all'indirizzo della Croce.
- Sto pensando se questa bestemmia ti giovi - gli dice il monaco. - Senti questa storia: io ho conosciuto un uomo come te; anche lui odiava il crocifisso; lo bandì da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri; diceva che era brutto, simbolo di barbarie, contrario alla gioia e alla vita. Diventò più furioso ancora: un giorno s'arrampicò sul campanile di una chiesa, ne strappò la croce e la scagliò dall'alto.
Andò a finire che questo odio si trasformò in delirio prima e poi in furiosa pazzia. Una sera d'estate s'era fermato, fumando la pipa, davanti ad una lunghissima palizzata; non brillava una luce, non si muoveva una foglia, ma egli credette di vedere la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci, legate l'una all'altra su per la collina, giù per la valle. Allora, roteando il bastone, mosse contro la palizzata, come contro una schiera di nemici; per quanto era lunga la strada, strappò, spezzò, sradicò tutti i pali che incontrava. Odiava la croce ed ogni palo era per lui una croce. Arrivato a casa, continuò a veder croci dappertutto, pestò i mobili, appiccò il fuoco e l'indomani lo trovano cadavere nel fiume.
A questo punto, il professore Lucifero guarda il vecchio monaco mordendosi le labbra e dice: "Questa storia te la sei inventata!". "Sì, risponde Michele, l'ho inventata adesso; ma essa esprime bene quello che state facendo tu ed i tuoi amici increduli. Voi cominciate con lo spezzare la croce e finite col distruggere il mondo abitabile.
La conclusione del monaco, che è poi la tua, caro Chesterton, è giusta. Togliete Dio, cosa resta, cosa diventano gli uomini? in che razza di mondo ci riduciamo a vivere? - Ma è il mondo del progresso, sento dire, il mondo del benessere! - Sì, ma questo famoso progresso non è tutto quel che si sperava: esso porta con sé anche i missili, le armi batteriologiche e atomiche, l'attuale processo di inquinamento, tutte cose che - se non si provvede in tempo - minacciano di portare l'umanità intera a una catastrofe.
In altre parole il progresso con uomini che si amino, ritenendosi fratelli e figli dell'unico Padre Dio, può essere una cosa magnifica. Il progresso con uomini che non riconoscono in Dio un unico Padre, diventa un pericolo continuo: senza un parallelo processo morale, interiore e personale, esso - quel progresso - sviluppa, infatti, i più selvaggi fondacci dell’uomo, fa di lui una macchina posseduta da macchine, un numero maneggiatore di numeri, “un barbaro in delirio - direbbe Papini - che invece della clava può servirsi delle immense forze della natura e della meccanica per soddisfare i suoi istinti predaci, distruttori ed orgiastici”.
Lo so: molti pensano a rovescio di te e di me. Pensano che la Religione sia un sogno consolatore: l’avrebbero inventata gli oppressi, immaginando un altro mondo inesistente, dove trovare più tardi ciò che oggi rubano loro gli oppressori; l’avrebbero organizzata, tutta a loro favore, gli oppressori, per tenere ancora sottom i piedi gli oppressi e addormentare in essi quell’istinto di classe, che, senza la Religione, li spingerebbe alla lotta.
Inutile ricordare che proprio la Religione cristiana ha favorito il risveglio della coscienza proletaria, esaltando i poveri e annunciando una giustizia futura. - Sì, rispondono, il Cristianesimo risveglia la coscienza dei poveri, ma poi la paralizza, predicando la pazienza e sostituendo alla lotta classista la fiducia in Dio e le riforme graduali della società!
Molti pensano anche che Dio e la Religione. incanalando speranze e sforzi verso un paradiso futuro e lontano, alienino l’uomo, lo distolgano dall’impegnarsi per un paradiso vicino, da realizzare qui in terra.
Inutile ricordar loro che, secondo il recente Concilio, un cristiano, proprio perché cristiano, deve sentirsi più che mai impegnato nel favorire un progresso, che è bene per tutti e una promozione sociale, che sia di tutti. - Resta, dicono, che voi pensate al progresso per un mondo transitorio, in attesa di un paradiso definitivo, che non verrà. Noi, il paradiso lo vogliamo qui, sbocco di tutte le nostre lotte. Di esso già intravediamo il sorgere, mentre il vostro Dio dai teologi della secolarizzazione viene chiamato “morto”. Noi siamo con Heine, che scrisse: “Senti la campanella? In ginocchio! Portano gli ultimi sacramenti a Dio che muore”!
Caro Chesterton, tu ed io ci mettiamo bensì in ginocchio, ma davanti a un Dio più attuale che mai. Lui solo, infatti, può dare una risposta soddisfacente a questi tre problemi, che sono per tutti i più importanti: - Chi sono io? Donde vengo? Dove vado?
Quanto al paradiso, che si godrà sulla terra e sulla terra soltanto, e in un futuro prossimo a conclusione delle famose “lotte”, vorrei fosse sentito uno che è più bravo di me e - senza offuscare i tuoi meriti - anche di te: Dostoevskij.
Tu ricordi il dostoevskijano Ivan Karamazov. E’ un ateo, pur amico del diavolo. Ebbene, egli protesta, con tutta la sua veemenza di ateo, contro un paradiso ottenuto mercé gli sforzi, le fatiche, i patimenti, il martirio d’innumerevoli generazioni. I nostri posteri felici grazie all’infelicità dei loro antecessori! Questi antecessori che “lottano” senza ricevere il loro acconto di gioia, senza, spesso, neppure il conforto d’intravedere il paradiso uscito dall’inferno che attraversano! Sterminate moltitudini di piagati, di sacrificati che sono, semplicemente, il terriccio che serve a far crescere i futuri albero della vita! E’ impossibile!, dice Ivan, sarebbe un’ingiustizia spietata e mostruosa.
Ed ha ragione.
Il senso di giustizia che è in ogni uomo, di qualunque fede, esige che il bene fatto, il male sofferto siano premiati, che la fame di vita in tutti insita sia soddisfatta. Dove e come, se non in un’altra vita? E da chi se non da Dio? E da quale Dio, se non da quello, di cui Francesco di Sales scriveva: “Non temete punto Dio, che non vuole farvi del male, ma amatelo molto, perché vi vuol fare molto bene”?
Quello che molti combattono non è il vero Dio, ma la falsa idea che di Dio si sono fatta: un Dio che protegga i ricchi, che solo chieda e pretenda, che sia invidioso del nostro avanzamento nel benessere, che dall’altro spii continuamente i nostri peccati per procurarsi il piacere di castigarli!
Caro Chesterton, tu lo sai, Dio non è così: ma giusto e buono insieme; padre anche dei figli prodighi, che vuole non meschini e miseri, ma grandi, liberi, creatori del proprio destino. Il nostro Dio è talmente poco rivale dell’uomo che l’ha voluto suo amico, chiamandolo a partecipare alla propria natura divina e alla propria eterna felicità. E non è vero che Egli pretenda da noi esageratamente: si contenta invece di poco, perché sa bene che non abbiamo molto.
Caro Chesterton, io sono convinto con te: questo Dio si farà conoscere e amare sempre più, da tutti, compresi coloro che oggi lo respingono non perché siano cattivi (forse sono buoni più di noi due!), ma perché lo guardano da un punto di vista sbagliato! Essi continuano a non credere in Lui? E Lui risponde: - Sono ben io che credo in voi!
Giugno 1971

(tratto da Albino Luciani, Illustrissimi, Edizioni Messaggero Padova, 1978,
pubblicato per gentile concessione della Casa Editrice)

Su Hilaire Belloc, finalmente



Proponiamo un articolo da G.K.C.'S, periodico della nostra Società Chestertoniana Italiana, a firma del presidente Marco Sermarini sul grande alter ego di Chesterton, Hilaire Belloc, per colmare una grave lacuna nel web e nel panorama culturale italiano.

HILAIRE BELLOC,

AL SERVIZIO DELLA VERITA’
E DELL’AMICIZIA CRISTIANA
= brevi note biografiche =

Una figura purtroppo misconosciuta in Italia, ancor più dimenticata del suo caro, inseparabile, quasi alter ego, amico Gilbert Keith Chesterton. Gli ha reso giustizia l’amico benemerito Paolo Gulisano, ritraendolo dalle nebbie dell’oblio con il volume “Chesterton e Belloc. Apologia e profezia” edito dall’Ancora (onore al merito dell’autore e dell’editrice, in un tempo in cui il “rosa stupid shocking” va più forte delle cose sane). Peraltro aveva avuto un minimo di notorietà all’inizio del XX secolo quando il grande Emilio Cecchi gli chiese di collaborare con La Ronda. Di lui in Italia ha parlato con un bellissimo saggio il già nominato Emilio Cecchi, nel suo Scrittori Inglesi e Americani.
Eppure senza di lui non sarebbe esistito Chesterton, questo Chesterton, o forse il caro amico sarebbe sprofondato nelle fumisterie e nello strano fine a sé stesso. Gilbert gli fu debitore per tutta la vita. Forse uno dei primi baluginii della sua fede cattolica lo intravide negli occhi di quest’uomo solido come una roccia, più simile nell’aspetto ad un semplice contadino inglese che ad un sottile intellettuale (perché tale fu Hilaire).
Figlio di Louis Belloc, un avvocato francese, Hilaire Joseph Pierre Belloc nascque a La Celle, Saint-Cloud, vicino Parigi nel 1870. Sua madre era Elizabeth Rayner Parkes, figlia del radicale di Birmingham Joseph Parkes e nipote di Joseph Priestley. Sebbene converitita dal protestantesimo unitariano al cattolicesimo, rimase sempre una radicale e fu una forte sostenitrice dei diritti delle donne. I Belloc si trasferirono in Inghilterra quando Hilaire aveva due anni. Dopo essere stato educato nella scuola degli Padri Oratoriani a Birmingham (per intenderci l’oratorio del Cardinale John Henry Newman, il pastore anglicano convertitosi al cattolicesimo e divenuto cardinale di Santa Romana Chiesa per volontà di papa Leone XIII; il cardinale lume della piccola schiera di convertiti inglesi al cattolicesimo a cavallo di ‘800 e ‘900) si arruolò nell’Esercito Francese. Tornò in Inghilterra nel 1892 e si iscrisse al Balliol College di Oxford dove studiò storia. Si laureò nel 1895 col massimo dei voti, ma si dispiacque per via del fatto che non gli fu offerto un posto in università. Questo fu un cruccio che gli rimase per tutta la vita. Persuaso che la sua esclusione dipendesse dal suo credo cattolico, parti per gli Stati Uniti per un ciclo di conferenze. Belloc era un uomo dalla forte personalità, solido e deciso nelle sue scelte. Mezzo francese e cattolico intero, disse Emilio Cecchi. “Fisicamente, con una corazza sul petto, si potrebbe scambiarlo per il più agguerrito centurione d’Augusto. Con un cencio rosso sulle spalle tutti lo piglierebbero per il cardinale più giovane ma più in voce d’essere fatto papa. Vestito borghesemente di scuro, tarchiato, autoritario, sembra solo Hilaire Belloc; ch’è quanto dire, come stimava Rupert Brooke, il più forte prosatore inglese tra i viventi...”1 . Chesterton dice che, pur con il cognome francese, aveva il classico aspetto del John Bull, il personaggio o meglio la quintessenza, l’idea fisica dell’inglese vero; egli racconta nell’Autobiografia (nella quale dedica al suo compagno un intero capitolo intitolato significativamente appunto “Ritratto di un amico”) un curioso aneddoto, secondo il quale un barista ad Horsham, quando una volta Chesterton accennò all’amico anche a lui noto (evidentemente frequentavano l’osteria assieme...!) ma quella volta assente, disse (precisa Chesterton che “evidentemente non aveva mai sentito parlare di libri o di simili sciocchezze”): “Lavora un po’ la terra, vero?” e Chesterton subito aggiunge per il lettori: “ed io pensai quanto adulato sarebbe rimasto Belloc per questa osservazione”2
Nel 1896 si sposa con Elodie Hogan, una giovane donna americana di origini irlandesi, che conoscerà in Inghilterra al ritorno della donna da un pellegrinaggio a Roma. L’interesse di Hilaire per questa donna sarà tale che lo spingerà a ricercarla in America, recandovisi con mezzi di fortuna (per la precisione, si dice che Hilaire avesse solamente i soldi per il viaggio in nave all’andata, e che proseguì attraversando l’America, visto che la signorina abitava in California, pagandosi il viaggio tenendo dotte conferenze di storia e letteratura inglese alternate con clamorose partite a carte...). Ricevuto un secco no, visto che la Hogan aveva in animo di farsi monaca di clausura (pensate il poveraccio! aveva attraversato il West praticamente per niente!), riparte per l’Inghilterra. Mesi dopo riceverà una lettera nella quale Elodie diceva che in monastero non l’avevano voluta e quindi... Il matrimonio avvenne in America, e da esso nacquero quattro figli. La povera Elodie morì piuttosto giovane, nel 1914, di malattia, lasciando nella vita di Hilaire un grande dolore e un vuoto pressoché incolmabile. Tanto era l’amore che egli provava per lei. E la vita del nostro Belloc, uomo solidissimo e dalla solidissima fede che pervadeva ogni aspetto della sua vita, fu contristata dalla morte del figlio Louis, partito per la I Guerra Mondiale come membro dei Royal Flying Corps e ucciso durante un bombardamento di una colonna trasportata tedesca nell’Agosto 1918, ufficialmente disperso. Dovette ricordare anche la morte dell’altro figlio Peter nel 1941 durante la II Guerra Mondiale.
Hilaire scriverà il suo primo volume, A Bad Child’s Book of Beasts, nel 1896 e nello stesso anno Verses and Sonnets. Nel 1902 prese la cittadinanza inglese, e scrisse il bellissimo volume The Path to Rome (La strada per Roma), racconto di un suo pellegrinaggio a piedi a Roma, e ne 1906 comprò casa e terreno dalla cosiddetta King’s Land, a Shipley nel Sussex: casa, cinque acri di terra e Slindon Mill. Novecento sterline. Si affezionò moltissimo a questo luogo.
Nello stesso anno si presentò nel Partito Liberale alle elezioni generali. Gli assegnarono un collegio difficilissimo, quello di South Salford, con una decisa presenza di conservatori e pochissimi cattolici. A chi (prete del luogo compreso) gli consigliava nei comizi di tacere la propria origine cattolica, o meglio, il proprio papismo (così i cattolici vengono ancora apostrofati in Inghilterra dai protestanti più radicali...), egli rispose tenendo un famoso discorso che grosso modo esprimeva questi concetti: sono un cattolico romano, vado quanto più posso a messa e quanto più posso faccio la comunione, e recito ogni giorno il Rosario (e dicendo questo mostrò la corona, sventolandola come uno stendardo...). Ecco, se questo per qualcuno di voi è un problema, allora sarà meglio che non mi voti... Dopo un attimo di silenzio imbarazzatissimo e di ghiaccio, partì uno scroscio clamoroso di applausi! Hilaire fu eletto deputato alla Camera dei Comuni. Fu rieletto nel 1910 nello stesso collegio, che perse nello stesso anno a causa di nuove elezioni. Si gettò nuovamente nel giornalismo militante, avendo trovato che la politica non facesse propriamente per lui, ed avendo sviluppato delle posizioni piuttosto critiche nei confronti nel sistema politico inglese, che confluiranno in parte nello storico volume Lo Stato Servile (una delle sue poche opere tradotte in italiano), nel volume The party system (1911) e in numerosi articoli su The Eye Witness e The New Witness, i giornali su cui conduceva le sue battaglie assieme a Cecil Chesterton, fratello di Gilbert, oltre che con lo stesso Gilbert. Fu coinvolto con Cecil (quest’ultimo forse ne pagò il prezzo più alto) nella vicenda giornalistica dello Scandalo Marconi.
Scrisse moltissimo di storia: La rivoluzione francese (1911) e La storia d’Inghilterra (1915) sono due esempi fra i tanti suoi scritti di natura storica. Possiamo dire con certezza che Gilbert ricevette da lui il giudizio storico che profonde in alcune sue opere, anzi imparò proprio da lui.
Nel 1920 scrive L’Europa e la fede (tradotto magistralmente dal nostro Paolo Gulisano ed edito da Il Cerchio di Rimini), bellissimo volume che illustra come le vere radici dell’Europa siano cristiane (libro profetico, se pensiamo alla battaglia che ancora adesso massoni e loro accoliti hanno deciso di fare pur di tacere una delle più chiare evidenze storiche...). Scrive poi una serie di biografie di personaggi storici quali Oliver Cromwell, Giacomo II, Richelieu, Wolsey, Cranmer, Napoleone, Carlo II.
Fu definito da Lord Birkenhead (famoso politico inglese, che tenne il tallone britannico per anni sulla testa degli irlandesi, e morì ammazzato per ordine di Michael Collins) “indubitabilmente un grande oratore” (il che non è poco).
E’ tutto chiaro e null’altro occorre dire circa la sua fede: essa improntava ogni minimo aspetto della sua vita, ogni particolare piccolo o grande, importante o meno. Ogni passo era mosso da essa, sempre nella più grande buona fede e senza timore di sbagliare, gettando il cuore prima di ogni altra cosa dietro qualunque ostacolo.
Una delle caratteristiche salienti della sua vita fu il rapporto stretto con Chesterton, anzi con i Chesterton. Conobbe Gilbert durante la campagna pro-boera (gli inglesi stavano conducendo una guerra imperialista contro il giusto diritto dei contadini boeri dell’attuale Sud Africa di darsi propri stati e proprie istituzioni), avendone apprezzato le doti di polemista e giornalista, oltre che la posizione politica (scusate, ma due inglesi che definiscono ingiusta e imperialista una guerra fatta dal proprio stato nei confronti di un popolo e di istituzioni statali cui loro non appartenevano sono proprio coraggiosi, conoscendo gli inglesi e lo sciovinismo imperialista che li muoveva in quel periodo...). Diventano così amici anzi amicissimi, e Gilbert sente parlare di cattolicesimo per la prima volta da Belloc, col quale andrà a messa la notte di Natale del 1901. Belloc seppe attenderlo sulla soglia della Chiesa per oltre venti anni, vista la conversione di Gilbert del 1922. Un rapporto così stretto che spinse il solitamente poco faceto George Bernard Shaw a definirli come un mostro fantastico, il già nominato Chesterbelloc.
Un sodalizio mai incrinatosi, un’amicizia che condivise gioie e dolori, schiaffi (a volte non solo metaforici, ma anche fisici, come quella volta che li presero durante un loro comizio pro-boero...) e allegre bevute. Un’amicizia cattolica che aspetta suoi emuli in questo tempo in cui è ora di ricominciare a gridare dai tetti che il cattolicesimo è gioia di vivere, è “di più” e non “di meno”, è arguzia e acume e non chiusa ottusità. Migliori esempi di questi due grandi amici credo sia difficile trovarli, maggiore attualità delle loro posizioni di fondo rispetto alla vita, alla politica, al mondo e alle sue sfide credo sia difficile. A noi il compito di seguirne i passi oggi.

Marco Sermarini