Da Tempi.it
«Solo i cristiani non affrontano il conflitto in Israele religiosamente ma secondo giustizia». Padre Samir si aspetta di più dal prossimo viaggio del Papa che da tutte le conferenze Onu contro il razzismo
di Lorenzo Fazzini
Ha lo sguardo e il pensiero acuto di chi, per identità e missione, è “ponte” tra culture diverse. Egiziano di nascita ma residente in Libano, arabo fino al midollo ma formatosi intellettualmente in Occidente (Francia e Olanda), cristiano immerso in una realtà musulmana, padre Samir Khalil Samir, gesuita 70enne, docente di
Islamistica alla Saint Joseph University di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale a Roma, costituisce la persona giusta per affrontare i temi più scottanti dell’attualità mediorientale alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Giordania e Israele. Padre Samir, infatti, non è solo un grande esperto del mondo islamico, al quale ha dedicato un libro di successo, Cento domande sull’islam (Marietti) e il più recente Islam. Dall’apostasia alla violenza (Cantagalli), ma è uno studioso che ha dedicato una vita intera alla ricerca accademica sui cristiani nei paesi arabi. Non a caso è presidente della International Association for Christian Arabic Studies e dirige la collana “Patrimoine arabe chrétien”, edita al Cairo e Beirut. Per questo ha le carte più che in regola per spiegare a Tempi come mai i cristiani devono restare nella Mezzaluna e quale contributo possono dare perché la violenza non sia l’ultima parola nel confronto tra popoli.
Padre Samir, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha aperto la conferenza sul razzismo di Ginevra (Durban II) denunciando con enfasi il dilagare dell’“islamofobia”. Però non ha speso una parola sul dramma dei cristiani in paesi islamici come l’Iraq, il Sudan, i paesi del Golfo. Cosa ne pensa?
Il discorso di Ban Ki-moon è stato vergognoso e non contribuirà alla pace nel mondo. Bisogna chiarirci sul termine “islamofobia”, parola che circola da una decina di anni. Letteralmente questa espressione vuol dire “paura dell’islam”: è un fenomeno generalizzato e ha un fondamento solido. Gli atti di terrorismo, infatti, negli ultimi dieci anni sono stati rivendicati in buona parte da musulmani che si appoggiano al Corano per giustificare il loro operato. La tesi secondo cui tutto questo non ha niente a che vedere con l’islam è un’ipocrisia. Vorrei dire a chi la sostiene: iniziate a impedire che i terroristi fondino le loro rivendicazioni sull’islam! Ritengo una stupidaggine affermare che l’islamofobia sia qualcosa che ha a che fare con il razzismo: questo termine, islamofobia, sa molto di fabbricazione a tavolino. Forse Ban Ki-moon ha voluto fare una concessione per calmare la situazione del meeting di Ginevra e bilanciare la questione dell’antisemitismo. Invece esiste una forte cristianofobia in Occidente, in particolare un anticattolicesimo, come si è visto in diversi episodi riguardanti il Papa, con la deformazione delle sue parole e del suo operato, ad esempio sul caso Williamson e sulla questione dell’Aids in Africa. Ci sono pressioni fortissime sui cristiani in paesi come Iraq e Palestina. In Arabia Saudita c’è il diniego totale della libertà religiosa per i cristiani: è inammissibile che questo avvenga in uno dei paesi più ricchi del mondo e più “amico” dell’Occidente in Medio Oriente. Chi, a Ginevra, ha detto qualcosa sulla situazione del Darfur? In Medio Oriente c’è l’impressione che l’Occidente usi due pesi e due misure nella sua politica, mentre il mondo islamico strumentalizza politicamente la religione. Personalmente, trovo nella mia tradizione di umanista cristiano i modi per affrontare meglio la situazione rispetto all’approccio dei politici occidentali. Questa conferenza di Durban II non servirà alla pace mondiale e neppure alla lotta contro il razzismo.
Fra una settimana Benedetto XVI si recherà in visita prima in Giordania e poi in Israele. Quale ruolo vede oggi per la Chiesa cattolica in Medio Oriente?
Quando parla di fede e di spiritualità, il Papa viene ascoltato dai musulmani. Se invece mette al centro la dignità della persona, l’Occidente “laico” è d’accordo con lui. Ma queste due dimensioni – quella spirituale e quella antropologica – vanno tenute insieme. Se i cristiani spariscono o rinunciano alla loro testimonianza in Medio Oriente, le società di questi paesi andranno verso lo scontro. Il Medio Oriente è paralizzato da sessant’anni dal conflitto israelo-palestinese. Finché si trattava di un problema giuridico-politico, lo si poteva risolvere, ma ora sia gli israeliani che i palestinesi vi hanno inserito la dimensione religiosa. Lo dicono esempi concreti: gli ebrei sono solidali al cento per cento con il governo di Israele, gli ebrei americani mantengono economicamente lo Stato di Israele; i musulmani, da parte loro, si offrono da tutto il mondo per difendere militarmente la Palestina. In questa situazione i cristiani sono gli unici che, insieme agli ebrei e agli islamici “laici”, possono proporre un programma di pace perché non vogliono affrontare la questione religiosamente ma secondo giustizia e legalità. La Santa Sede e i diversi Papi hanno sempre insistito che si deve arrivare ad una trattativa, che non c’è altra via percorribile oltre al diritto e alla giustizia. Se i palestinesi non riconoscono Israele come Stato indipendente e Israele non fa lo stesso nei confronti della Palestina, non si arriverà mai alla pace. Basta guardare a quanto successo con gli Stati confinanti, Giordania ed Egitto, che hanno riconosciuto Israele e ora vivono in pace. Certo, c’è voluto un visionario come Sadat per arrivare a tanto al Cairo, un visionario che poi è stato ucciso; mentre re Hussein di Giordania ha dovuto affrontare il “settembre nero” per far pace con Israele, espellendo centinaia di migliaia di palestinesi dal suo paese.
Nel suo saggio Ruolo culturale dei cristiani nel mondo arabo (Edizioni Orientalia Christiana) lei scrive: «I cristiani sono spesso stati il motore di svariate rinascite culturali attraverso le epoche: è questo il loro più grande onore. Ma questa elaborazione è stata possibile solo grazie all’esistenza di regimi musulmani aperti a questa dimensione del nuovo, a questa alterità». Secondo lei questa “santa alleanza” culturale tra cristiani e musulmani è ancora possibile, oggi, nei paesi arabi?
Faccio un esempio: la Nahdah, il “rinascimento” arabo che si è verificato tra l’Ottocento e la prima parte del Novecento, è essenzialmente frutto dei cristiani. Di nuovo, oggi, un secolo dopo, sta succedendo lo stesso, sebbene i cristiani siano in minoranza nei paesi arabi. Oggi il “nuovo” nel pensiero arabo arriva dal Libano, dove l’interazione tra cristiani e musulmani è più viva: qui ci sono cinque università cattoliche, oltre a quelle islamiche e quelle statali. Funzionano radio, televisioni, giornali e riviste di matrice cristiana, sulle quali scrivono tutti, musulmani, “laici”, cristiani. Oggi l’impatto culturale dei cristiani in Medio Oriente avviene tramite i mezzi di comunicazione: il Libano è diventato il primo centro di pubblicazione di libri di tutto il mondo arabo, vengono stampati libri sauditi, marocchini… Anche i musulmani capiscono che i cristiani sono i gruppi più attivi e gli elementi culturalmente più dinamici, come spesso avviene per le minoranze. I cristiani libanesi o degli altri paesi mediorientali hanno poi legami e contatti con l’Occidente, e per questo il loro ruolo culturale è fondamentale. Molti musulmani, anche autorevoli leader, sia in Libano che in Giordania, ma anche in Arabia Saudita, lo hanno dichiarato pubblicamente: non vogliamo che i cristiani se ne vadano via dai nostri paesi perché sono una parte essenziale delle nostre società.
Venendo alle questioni più “culturali”: sia in Francia che in Italia ha suscitato scalpore il libro di Sylvain Gouguenheim, Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e islam salvarono il pensiero greco (Rizzoli). L’opera ha sollevato non poche polemiche perché “riduce” il ruolo attribuito di solito ai pensatori musulmani, li descrive come semplici tramite tra il pensiero greco classico e i medievali. Da specialista della cultura cristiana araba, come risponde?
I primi musulmani sono partiti dal deserto dell’Arabia e sono arrivati a Gerusalemme, Damasco, Il Cairo e hanno trovato al 99 per cento cristiani e qualche ebreo, nessun pagano. Hanno ammirato le loro opere d’arte, la medicina, l’astronomia, la filosofia e le altre arti. I califfi hanno chiesto alla gente del luogo di iniziare a trasmettere loro questa cultura greca, iniziando dalla medicina e dalla farmacologia, e i cristiani hanno tradotto questa scienza dalla loro lingua, il siriaco, all’arabo, idioma catalogato nel 781. Poi è stata la volta della filosofia, tradotta a sua volta dal siriaco all’arabo, visto che la vicinanza tra queste due lingue è molto stretta (il 50 per cento del lessico è comune). Tradurre non significa solo rendere in un’altra lingua, vuol dire anche presentare e commentare: così vennero tradotti Aristotele, Platone e Plotino. Il grande patriarca di Alessandria Fozio, che nel IX secolo scrive un libro, deve andare a Baghdad per trovare i manoscritti che gli servono, non più ad Atene: questo per dare un’idea di come il centro della cultura del tempo si fosse spostato dalla Grecia in un contesto arabo. Quando Aristotele viene tradotto in arabo, egli diventa il punto di riferimento della cultura: tutto aveva fondamento nella sua logica, il dialogo tra le religioni, tra cristiani siriaci e musulmani, poteva avvenire secondo una cultura comune, che era appunto questo filosofo classico. Questa è stata la grandezza di quel tempo, i secoli IX e X sono stati il “rinascimento” e l’“illuminismo” del mondo arabo. Oggi purtroppo non è più così, perché l’i-slam parla solo di verità rivelata, giudica la filosofia, la letteratura e tutta la cultura in base al Corano, e non viceversa, nel senso di operare un’interpretazione. Questa operazione di integrazione tra filosofia e teologia nell’islam si è protratta fino al 1100, poi si è bloccata. Averroè è morto alla fine del XII secolo, ma i suoi libri sono stati bruciati, le sue opere non sono mai arrivate in Oriente. E la spiegazione di questo cambiamento è prettamente demografica: gli storici ritengono che intorno al Mille sia avvenuto lo spostamento per cui i musulmani sono diventati la maggioranza rispetto ai cristiani. In pratica, fino a quando vi era una classe dirigente politica musulmana e una società mista islamo-cristiana, vi era ancora un fecondo dialogo culturale. Quando invece la società diventa monolitica, in questo caso solamente islamica, anche in campo intellettuale si passa alla monocultura.
«Solo i cristiani non affrontano il conflitto in Israele religiosamente ma secondo giustizia». Padre Samir si aspetta di più dal prossimo viaggio del Papa che da tutte le conferenze Onu contro il razzismo
di Lorenzo Fazzini
Ha lo sguardo e il pensiero acuto di chi, per identità e missione, è “ponte” tra culture diverse. Egiziano di nascita ma residente in Libano, arabo fino al midollo ma formatosi intellettualmente in Occidente (Francia e Olanda), cristiano immerso in una realtà musulmana, padre Samir Khalil Samir, gesuita 70enne, docente di
Islamistica alla Saint Joseph University di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale a Roma, costituisce la persona giusta per affrontare i temi più scottanti dell’attualità mediorientale alla vigilia del viaggio di Benedetto XVI in Giordania e Israele. Padre Samir, infatti, non è solo un grande esperto del mondo islamico, al quale ha dedicato un libro di successo, Cento domande sull’islam (Marietti) e il più recente Islam. Dall’apostasia alla violenza (Cantagalli), ma è uno studioso che ha dedicato una vita intera alla ricerca accademica sui cristiani nei paesi arabi. Non a caso è presidente della International Association for Christian Arabic Studies e dirige la collana “Patrimoine arabe chrétien”, edita al Cairo e Beirut. Per questo ha le carte più che in regola per spiegare a Tempi come mai i cristiani devono restare nella Mezzaluna e quale contributo possono dare perché la violenza non sia l’ultima parola nel confronto tra popoli.
Padre Samir, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha aperto la conferenza sul razzismo di Ginevra (Durban II) denunciando con enfasi il dilagare dell’“islamofobia”. Però non ha speso una parola sul dramma dei cristiani in paesi islamici come l’Iraq, il Sudan, i paesi del Golfo. Cosa ne pensa?
Il discorso di Ban Ki-moon è stato vergognoso e non contribuirà alla pace nel mondo. Bisogna chiarirci sul termine “islamofobia”, parola che circola da una decina di anni. Letteralmente questa espressione vuol dire “paura dell’islam”: è un fenomeno generalizzato e ha un fondamento solido. Gli atti di terrorismo, infatti, negli ultimi dieci anni sono stati rivendicati in buona parte da musulmani che si appoggiano al Corano per giustificare il loro operato. La tesi secondo cui tutto questo non ha niente a che vedere con l’islam è un’ipocrisia. Vorrei dire a chi la sostiene: iniziate a impedire che i terroristi fondino le loro rivendicazioni sull’islam! Ritengo una stupidaggine affermare che l’islamofobia sia qualcosa che ha a che fare con il razzismo: questo termine, islamofobia, sa molto di fabbricazione a tavolino. Forse Ban Ki-moon ha voluto fare una concessione per calmare la situazione del meeting di Ginevra e bilanciare la questione dell’antisemitismo. Invece esiste una forte cristianofobia in Occidente, in particolare un anticattolicesimo, come si è visto in diversi episodi riguardanti il Papa, con la deformazione delle sue parole e del suo operato, ad esempio sul caso Williamson e sulla questione dell’Aids in Africa. Ci sono pressioni fortissime sui cristiani in paesi come Iraq e Palestina. In Arabia Saudita c’è il diniego totale della libertà religiosa per i cristiani: è inammissibile che questo avvenga in uno dei paesi più ricchi del mondo e più “amico” dell’Occidente in Medio Oriente. Chi, a Ginevra, ha detto qualcosa sulla situazione del Darfur? In Medio Oriente c’è l’impressione che l’Occidente usi due pesi e due misure nella sua politica, mentre il mondo islamico strumentalizza politicamente la religione. Personalmente, trovo nella mia tradizione di umanista cristiano i modi per affrontare meglio la situazione rispetto all’approccio dei politici occidentali. Questa conferenza di Durban II non servirà alla pace mondiale e neppure alla lotta contro il razzismo.
Fra una settimana Benedetto XVI si recherà in visita prima in Giordania e poi in Israele. Quale ruolo vede oggi per la Chiesa cattolica in Medio Oriente?
Quando parla di fede e di spiritualità, il Papa viene ascoltato dai musulmani. Se invece mette al centro la dignità della persona, l’Occidente “laico” è d’accordo con lui. Ma queste due dimensioni – quella spirituale e quella antropologica – vanno tenute insieme. Se i cristiani spariscono o rinunciano alla loro testimonianza in Medio Oriente, le società di questi paesi andranno verso lo scontro. Il Medio Oriente è paralizzato da sessant’anni dal conflitto israelo-palestinese. Finché si trattava di un problema giuridico-politico, lo si poteva risolvere, ma ora sia gli israeliani che i palestinesi vi hanno inserito la dimensione religiosa. Lo dicono esempi concreti: gli ebrei sono solidali al cento per cento con il governo di Israele, gli ebrei americani mantengono economicamente lo Stato di Israele; i musulmani, da parte loro, si offrono da tutto il mondo per difendere militarmente la Palestina. In questa situazione i cristiani sono gli unici che, insieme agli ebrei e agli islamici “laici”, possono proporre un programma di pace perché non vogliono affrontare la questione religiosamente ma secondo giustizia e legalità. La Santa Sede e i diversi Papi hanno sempre insistito che si deve arrivare ad una trattativa, che non c’è altra via percorribile oltre al diritto e alla giustizia. Se i palestinesi non riconoscono Israele come Stato indipendente e Israele non fa lo stesso nei confronti della Palestina, non si arriverà mai alla pace. Basta guardare a quanto successo con gli Stati confinanti, Giordania ed Egitto, che hanno riconosciuto Israele e ora vivono in pace. Certo, c’è voluto un visionario come Sadat per arrivare a tanto al Cairo, un visionario che poi è stato ucciso; mentre re Hussein di Giordania ha dovuto affrontare il “settembre nero” per far pace con Israele, espellendo centinaia di migliaia di palestinesi dal suo paese.
Nel suo saggio Ruolo culturale dei cristiani nel mondo arabo (Edizioni Orientalia Christiana) lei scrive: «I cristiani sono spesso stati il motore di svariate rinascite culturali attraverso le epoche: è questo il loro più grande onore. Ma questa elaborazione è stata possibile solo grazie all’esistenza di regimi musulmani aperti a questa dimensione del nuovo, a questa alterità». Secondo lei questa “santa alleanza” culturale tra cristiani e musulmani è ancora possibile, oggi, nei paesi arabi?
Faccio un esempio: la Nahdah, il “rinascimento” arabo che si è verificato tra l’Ottocento e la prima parte del Novecento, è essenzialmente frutto dei cristiani. Di nuovo, oggi, un secolo dopo, sta succedendo lo stesso, sebbene i cristiani siano in minoranza nei paesi arabi. Oggi il “nuovo” nel pensiero arabo arriva dal Libano, dove l’interazione tra cristiani e musulmani è più viva: qui ci sono cinque università cattoliche, oltre a quelle islamiche e quelle statali. Funzionano radio, televisioni, giornali e riviste di matrice cristiana, sulle quali scrivono tutti, musulmani, “laici”, cristiani. Oggi l’impatto culturale dei cristiani in Medio Oriente avviene tramite i mezzi di comunicazione: il Libano è diventato il primo centro di pubblicazione di libri di tutto il mondo arabo, vengono stampati libri sauditi, marocchini… Anche i musulmani capiscono che i cristiani sono i gruppi più attivi e gli elementi culturalmente più dinamici, come spesso avviene per le minoranze. I cristiani libanesi o degli altri paesi mediorientali hanno poi legami e contatti con l’Occidente, e per questo il loro ruolo culturale è fondamentale. Molti musulmani, anche autorevoli leader, sia in Libano che in Giordania, ma anche in Arabia Saudita, lo hanno dichiarato pubblicamente: non vogliamo che i cristiani se ne vadano via dai nostri paesi perché sono una parte essenziale delle nostre società.
Venendo alle questioni più “culturali”: sia in Francia che in Italia ha suscitato scalpore il libro di Sylvain Gouguenheim, Aristotele contro Averroè. Come cristianesimo e islam salvarono il pensiero greco (Rizzoli). L’opera ha sollevato non poche polemiche perché “riduce” il ruolo attribuito di solito ai pensatori musulmani, li descrive come semplici tramite tra il pensiero greco classico e i medievali. Da specialista della cultura cristiana araba, come risponde?
I primi musulmani sono partiti dal deserto dell’Arabia e sono arrivati a Gerusalemme, Damasco, Il Cairo e hanno trovato al 99 per cento cristiani e qualche ebreo, nessun pagano. Hanno ammirato le loro opere d’arte, la medicina, l’astronomia, la filosofia e le altre arti. I califfi hanno chiesto alla gente del luogo di iniziare a trasmettere loro questa cultura greca, iniziando dalla medicina e dalla farmacologia, e i cristiani hanno tradotto questa scienza dalla loro lingua, il siriaco, all’arabo, idioma catalogato nel 781. Poi è stata la volta della filosofia, tradotta a sua volta dal siriaco all’arabo, visto che la vicinanza tra queste due lingue è molto stretta (il 50 per cento del lessico è comune). Tradurre non significa solo rendere in un’altra lingua, vuol dire anche presentare e commentare: così vennero tradotti Aristotele, Platone e Plotino. Il grande patriarca di Alessandria Fozio, che nel IX secolo scrive un libro, deve andare a Baghdad per trovare i manoscritti che gli servono, non più ad Atene: questo per dare un’idea di come il centro della cultura del tempo si fosse spostato dalla Grecia in un contesto arabo. Quando Aristotele viene tradotto in arabo, egli diventa il punto di riferimento della cultura: tutto aveva fondamento nella sua logica, il dialogo tra le religioni, tra cristiani siriaci e musulmani, poteva avvenire secondo una cultura comune, che era appunto questo filosofo classico. Questa è stata la grandezza di quel tempo, i secoli IX e X sono stati il “rinascimento” e l’“illuminismo” del mondo arabo. Oggi purtroppo non è più così, perché l’i-slam parla solo di verità rivelata, giudica la filosofia, la letteratura e tutta la cultura in base al Corano, e non viceversa, nel senso di operare un’interpretazione. Questa operazione di integrazione tra filosofia e teologia nell’islam si è protratta fino al 1100, poi si è bloccata. Averroè è morto alla fine del XII secolo, ma i suoi libri sono stati bruciati, le sue opere non sono mai arrivate in Oriente. E la spiegazione di questo cambiamento è prettamente demografica: gli storici ritengono che intorno al Mille sia avvenuto lo spostamento per cui i musulmani sono diventati la maggioranza rispetto ai cristiani. In pratica, fino a quando vi era una classe dirigente politica musulmana e una società mista islamo-cristiana, vi era ancora un fecondo dialogo culturale. Quando invece la società diventa monolitica, in questo caso solamente islamica, anche in campo intellettuale si passa alla monocultura.
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