lunedì 9 dicembre 2013

Il diritto all'obiezione e i danni di una legge, di Renzo Puccetti (da Zenit)

Il diritto all'obiezione e i danni di una legge
Non basta l'obiezione di coscienza per poter limitare la soppressione dei più deboli
Di Renzo Puccetti
ROMA, 08 Dicembre 2013 (Zenit.org) - “Io sono cattolico. Obiettore. Ma penso che la legge vada applicata. Punto. E nel miglior modo possibile”. Con queste parole il ginecologo Nicola Surico, già presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, ha esplicitato la propria posizione nei riguardi della legge 194 che 35 anni fa ha legalizzato l’aborto, in un’intervista ad un quotidiano romano dello scorso 22 ottobre. Le parole del professor Surico possono essere un valido punto di partenza per una riflessione più ampia.
Partiamo dal fatto incontrovertibile che quella legge che per il ginecologo cattolico è da applicarsi, a tutto il 2012 ha consentito la pratica di 5.435.678 aborti il cui costo economico e sociale è devastante. È significativo che lo stesso professore riconosca che con l’aborto “si tratta pur sempre di interrompere una vita”, affermazione che non solo i pro-life sottoscrivono. In molti condividiamo con l’illustre ginecologo la scelta di obiezione di coscienza a quella stessa legge. È a questo punto che però sorge un punto di divergenza. Se la legge 194 ha consentito milioni di aborti, è sufficiente che ci rifiutiamo di interrompere quelle vite in prima persona?Perché mai non si dovrebbe far rispettare il diritto all’obiezione?
Certo, la legge sull’aborto è una legge dello Stato, è una legge largamente costruita attorno ad un pronunciamento precedente della Corte Costituzionale, è una legge che ha persino ricevuto l’approvazione da parte della ampia maggioranza degli elettori nel 1981 attraverso la consultazione referendaria; è indubbio che quella legge soddisfi tutti i criteri di legalità. Se ogni legge è giusta per il solo fatto di essere legge, allora ha ragione il professor Surico a reputare un dovere la sua ferrea applicazione.
Gia nel XIV secolo Guglielmo di Ockam sostenendo in opposizione a san Tommaso l’impotenza della ragione umana nel distinguere il bene dal male proponeva la soluzione legalistica: “bonum quia iussum, malum quia prohibitum” (è bene perché è permesso, è male perché è proibito). Il maestro del positivismo giuridico Hans Kelsen attraverso la teoria pura del diritto (reine Rechtslehre) ha insegnato infatti a liberare la scienza della legge da elementi estranei, siano essi politici, sociologici, o morali.
È questa visione che separa la legge dall’etica e afferma che la legge non ha alcuna connessione necessaria con la giustizia a materializzare nel diritto la separazione filosofica tra essere e dovere essere introdotta da David Hume. Eppure quando nel 1787 il giovane deputato del partito conservatore inglese William Wilberforce annunciò alla Camera dei Comuni la proposta di abolizione del commercio degli schiavi non pensò nemmeno per un attimo che la legge contro cui avrebbe combattuto per tutta la vita fosse una legge da applicare.
Quando dopo 20 anni di lotte la tratta degli schiavi fu abolita dal parlamento inglese, William Wilberforce non si fermò, per altri 25 anni continuò a lottare per la totale abolizione della schiavitù fino a raggiungere la meta e spegnersi tre giorni dopo. Wilberforce lottò contro le leggi schiaviste, non ne perorò l’applicazione. Fu con parole simili che le coscienze di tanti tedeschi furono tacitate dal 1933 al 1945.
Lo storicismo insegnato da Friedrich Carl von Savigny e Gustav Hugo aveva contribuito a preparare il terreno per rendere rispettabili le legislazioni del tempo. Ci volle Norimberga ed il principio lì stabilito che esiste “il dovere di disobbedire alle leggi chiaramente riconoscibili come in violazione di principi morali superiori” per ribaltare quella prospettiva, e prima ancora sangue, morti e rovina.
Anche il filosofo del diritto Gustav Radbruch prima della guerra pensava come Kelsen e gli altri positivisti che le leggi non traessero validità dal loro contenuto, ma dalla loro emanazione da parte della legittima autorità, anch’egli riteneva che leggi validamente promulgate dallo Stato, anche se immorali, non devono essere disobbedite o invalidate. A guerra conclusa però egli cominciò a riflettere ed a rendersi conto che la dottrina secondo cui è legge qualsiasi cosa dicano le norme aveva reso la giustizia tedesca impotente di fronte alla crudeltà e all’ingiustizia, una volta che queste avevano assunto le vesti di regolamento.
La riflessione di Radbruch giunse a considerare l’esistenza di leggi “intollerabilmente ingiuste” cristallizzatasi in una formula che influenzerà per generazioni il diritto: “Quando nel porre il diritto positivo viene di proposito negata quell’uguaglianza che costituisce il nucleo della giustizia, allora la legge non è soltanto diritto ingiusto, piuttosto non è affatto diritto”. Giorgio Perlasca salvò migliaia di vite umane di ebrei ungheresi anticipando sul campo quello che Radbruch avrebbe poi teorizzato, egli non solo ritenne doveroso non applicare la legge, ma fece carte false per disattenderla.
Sembra poco prudente e esageratamente pericoloso dichiararsi cattolici e pronunciarsi favorevolmente su un atto legislativo le cui conseguenze sono stati così dolorose e cattive. C’è una contraddizione di fondo nel dirsi cattolico e poi accettare che non si pratichi la carità per il più indifeso degli esseri umani.Non è assurdo che in nome di un diritto presunto alla scelta, si accetti di sopprimere la vita di un  innocente bisognoso di accoglienza e di amore?
Quando, nell’omelia mattutina a Santa Marta, Papa Francesco ha detto: “Pensate che oggi non si facciano, i sacrifici umani? Se ne fanno tanti, tanti! E ci sono delle leggi che li proteggono”, a cosa si riferiva se non all’uccisione dell’innocente che si realizza specialmente con la pratica delle interruzioni volontarie di gravidanza? Quella del Papa è un’affermazione che non lascia via di fuga. Il Santo Padre porge la sua parola ad ogni uomo, soprattutto a chi si professa cattolico.
Il tentativo di giustificare certi comportamenti con una concezione relativistica della coscienza è triste e pericoloso. Come scriveva il beato Newman al duca di Norfolk, “La coscienza ha dei diritti perché prima ha dei doveri”. La coscienza parla con una voce che è in noi, ma non viene da noi, che è più alta della nostra parte più alta, se silenziamo la convenienza, il conformismo, la pavidità la sentiremo dirci: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29).

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