lunedì 28 settembre 2009

Dio, palla e famiglia - Perché il fuorigioco è la prova dell’esistenza di Dio

Da Il Foglio di giovedì scorso - Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro un po' scherzano, un po' no. Citano Mourinho (e su questo si potrebbe discutere molto... ). Citano una società sportiva (la Gagliarda) che è nell'immaginario collettivo degli amanti di Guareschi (quindi anche nostro) e che alcuni amici hanno voluto riprendere, in quel di San Benedetto del Tronto (sì, esiste la Gagliarda Sambenedettese...). Citano anche Chesterton, col suo San Tommaso d'Aquino, e su questo non si discute.

Allora li citiamo noi, a nostra volta.


Rileggere san Tommaso e scoprire che non c’è niente di meglio di Mourinho, Maicon e Milito per capire i Vangeli

Sunteggiata senza tradimenti, la prima delle cinque prove dell’esistenza di Dio che san Tommaso d’Aquino pone al principio della Summa dice così: “Tutto ciò che si muove è mosso da un altro (…). Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito. (…) Dunque è necessario arrivare a un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio”.

Qualcuno provi a citarla in un’aula universitaria o in quella di un seminario, dove la fiera eleganza del sillogismo interessa meno del sudoku, e verrà esiliato in bidelleria. Ragion per cui il tomista del terzo millennio, che è uomo ragionevole e di sani principi morali, saluta e va allo stadio, dove Rahner e i suoi nipotini non arriveranno mai. Paga il biglietto, si piazza al terzo anello e contempla la vena metafisica e deduttiva delle azioni da manuale del calcio. Si incanta al cospetto del mediano che si avvia verso la metà campo e innesca il rinvio del portiere, poi del trequartista che con la sua corsa detta il passaggio del mediano, dell’ala che chiama quello del trequartista, del centravanti suggerisce quello dell’ala. Si incanta e fa benissimo visto che qui, con tutto il rispetto dovuto, entra in campo san Tommaso. Perché i casi sono due. O l’ala ha avuto l’accortezza di arrivare sul fondo e crossare, e allora ci sta anche il gol. Altrimenti, se il centravanti si è mosso in anticipo e si trova da solo davanti al portiere avversario prima che sia partito il passaggio del compagno, l’arbitro fischia il fuorigioco.
Il gol, ma soprattutto il fuorigioco, sono la perfetta applicazione calcistica del ragionamento del Dottore Angelico: “Non si può in tal modo procedere all’infinito. (…) Dunque è necessario arrivare a un primo motore che non sia mosso da altri”. Come in filosofia e in teologia, anche nel calcio l’azione non può continuare senza termine, altrimenti la partita sarebbe un’infinita e inconcludente serie di passaggi. Laddove non intervenga il gol, serve un limite oltre il quale si palesi la finitezza dell’ordinario rapporto tra causa ed effetto, tra scatto e passaggio.

Serve colui che fischia il fuorigioco, splendida metafora contemporanea del tomistico “primo motore che non sia mosso da altri”. Per dare un senso anche alla più amichevole delle partite serve qualcuno che ne stia fuori, un arbitro che fischi quando il limite viene valicato. L’unica differenza tra un’azione che finisce in fuorigioco e l’argomentazione della “prima via” di San Tommaso sta nel fatto che l’arbitro evocato dal Dottore Angelico si scrive con la “A” maiuscola e non ha bisogno della moviola perché non sbaglia mai. Lo sa anche un bambino. Però i bambini, in questo genere di argomenti, sono avvantaggiati. Mettetene uno su un campo, dategli un pallone e lo vedrete riempirsi di gioia. Ma è ancora niente. Se sul campo tracciate delle linee bianche e piantate i pali delle porte, allora lo vedrete veramente felice. Perché nel primo caso gli avrete fatto intuire il fremito della libertà, nel secondo lo avrete fatto sentire parte del grande gioco della creazione, un regalo molto più inebriante.

Basta essere stati almeno una volta su un campetto dell’oratorio con la maglietta della Gagliarda indosso, il pallone di cuoio fra i piedi e le linee bianche tracciate per terra con la calce. Improvvisamente, si entra in un mondo in cui tutto è meraviglioso perché tutto ha un senso, lo stesso senso per tutti: per chi gioca e per chi guarda. Si comprende che cosa significhi nascere, essere tratti dal nulla, pensati da sempre da un Essere indicibilmente buono e potente. Se lo portassero su quel rettangolo verde delimitato dalle righe bianche, anche il più svaccato studente di liceo capirebbe quel passo della Summa in cui Tommaso spiega che il mondo è sapientemente e magnanimamente governato da Dio: “la perfezione ultima di ogni essere consiste nel conseguimento del fine. Perciò, come fu la divina bontà a dare l’esistenza alle cose, così a essa pure spetta il condurle al loro fine. E questo è governare”.

Dopo una partita di calcio, anche il liceale svaccato manderebbe a memoria queste righe e le terrebbe come preghiera quotidiana, perché dentro c’è tutto l’entusiasmo del Bue Muto per il fatto di essere al mondo, qualcosa che somiglia da vicino a quello che Stevenson chiamava il grande teorema della vivibilità della vita. Il rinascimentale “Essere o non essere” non è questione che appassioni il medievale Tommaso poiché, fin dalla prima parola, il problema contiene la soluzione: essere. “Nessuno”, scrive Chesterton nel suo luminoso Tommaso d’Aquino, “inizierà a capire la filosofia tomistica, o in verità la filosofia cattolica, se non si renderà conto che il suo aspetto primario ed essenziale è soprattutto la lode della vita, la lode dell’Essere, la lode di Dio come creatore del mondo”. Parole che paiono scritte a bordo campo, dove anche l’ultima delle riserve comprende che chi ha inventato il calcio e le sue regole poteva essere solo un uomo buono e intelligente. E che, per partecipare della sua bontà e della sua intelligenza, non c’è altro da fare che rispettarne le regole, vale a dire gettarsi nella bizzarra avventura del football, così come, per partecipare della bontà e dell’intelligenza del Creatore, dice San Tommaso, non c’è che da rispettare le regole dell’essere, vale a dire gettarsi nella bizzarra avventura della vita.

E’ chiaro che, nella vita come nel calcio, le regole hanno senso solo a fronte della libertà. “L’uomo” si legge nella Summa “agisce giudicando, non per istinto, ma per confronto di ragioni, considerando il pro e il contro, e con giudizio libero; nelle cose particolari, come per l’intelletto c’è il liberamente opinabile, così per la volontà c’è il liberamente operabile. L’uomo quindi ha il libero arbitrio”. Però bisogna fare attenzione. A lume di libero arbitrio, Mariolino Corso poteva starsene tranquillamente all’ombra delle tribune fino al quarantesimo del secondo tempo, ma poi, con un lancio di cinquanta metri, ti pescava Boninsegna e lo mandava in rete. Corso sapeva benissimo che in campo si può contare su una gran varietà di schemi, ma sapeva anche che poi bisogna segnare: il dovere del gol, fine ultimo del gioco del calcio, come la ricerca della salvezza eterna nella vita, non pertiene al “liberamente opinabile” e al “liberamente operabile”.

Su questo versante, decisivo per il destino eterno delle sue creature, il Buon Dio applica volentieri la marcatura a zona miscelando sapientemente il libero arbitrio degli uomini con la sua Provvidenza. Solo un perfetto agnostico e un sonoro asino in materia calcistica potrebbero vedere un conflitto tra libertà e Provvidenza divina. Leggano San Tommaso: non esiste contrasto poiché la Provvidenza è al di sopra d’ogni giudizio e di ogni libertà umana, e nel Suo agire già ne tiene conto. “Un effetto” spiega il Dottore Angelico “si dirà casuale e fortuito relativamente a una causa particolare, in quanto si sottrae al suo ordinamento, ma rispetto alla causa universale, dal cui ordinamento non può sottrarsi, bisogna dire che è previsto. Come ad esempio l’incontro di due servi, sebbene sia per essi casuale, è tuttavia previsto dal loro padrone, il quale intenzionalmente li ha mandati in un medesimo posto l’uno all’insaputa dell’altro”. In termini calcistici, bisogna immaginare di essere José Mourinho che contempla soddisfatto il cross pennellato da Maicon in mezzo all’area. E’ chiaro che, nella mente di Mou, si deve alzare Milito a colpire di testa e insaccare. Ebbene, il fatto che vada proprio così ha limitato il libero arbitrio del Principe Milito? No, la mente di Mou aveva semplicemente tenuto conto di tutto: dello schema che aveva predisposto e della libertà del Principe. Gol.

L’autogol, invece, è tutt’altro. In se stesso è un colpo riuscito, ma dalla parte sbagliata: in due parole, è male. Una questione di alta teologia che il Bue Muto nella Summa definisce come “mancanza di bene, mancanza di entità, ma non corruzione totale dello stesso soggetto in cui si trova il male, perché allora neppure il male potrebbe esistere”. La prova sta nel fatto che a suo tempo Comunardo Niccolai, il profeta dell’autogol, non risultò annichilito alla prima incornata infilata nella propria porta, ma continuò sino a fine carriera a uccellare bellamente il portiere del suo Cagliari e persino quello della Nazionale. E da ciò si deduce che “il male assoluto, il principio del male non esiste. Esiste invece il Sommo Bene, Il Bene per essenza: Dio”.

Il che è la gran bella conclusione che si trae al termine dei novanta minuti di un gioco creato apposta per l’uomo: non per gli angeli, non per i bruti, ma per questo impasto di anima e corpo cantato da san Tommaso. Per questa straordinaria creatura che, quando smette di essere riottosa, si sente felice di essere in completa balia del Creatore. Perché non c’è nulla da fare, aveva ragione il vecchio Vujadin Boskov e c’è poco da discutere: “Rigore è quando arbitro fischia”.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

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