martedì 1 settembre 2009

MEETING 2009: LA BALLATA DEL CAVALLO BIANCO - «DIMMI, HAI FEDE SENZA UNA SPERANZA?»

Questo è l'intervento di Annalisa Teggi alla presentazione del volume La Ballata del Cavallo Bianco al Meeting di Rimini. I chestertoniani presenti l'hanno trovato tutti estremamente interessante, per tanto lo riproponiamo integralmente alla vostra attenzione.

Per gentile concessione dell'autrice.


di Annalisa Teggi

La pubblicazione de La ballata del cavallo bianco è stata un viaggio, che ho fatto con tre amici: l’editore Walter Raffaelli, Gianfranco Lauretano, direttore della Collana Nera e Marco Antonellini, che dall’inizio alla fine (e passo dopo passo) mi ha accompagnato e guidato nel lavoro. Il mio ruolo nella pubblicazione di questo testo è stato quello di traduttrice e il traduttore, fondamentalmente, vive a tu per tu col testo che traduce. Dunque, questo è quello che vorrei fare oggi, senza tanti preamboli o premesse: vorrei mettere anche voi a tu per tu con il testo.
Seguo il consiglio di Baudelaire, quando affermava che la critica onesta per fornire un giudizio generale su un qualsiasi argomento non deve mai "generalizzare", ma deve partire da un particolare: un particolare che possa spalancare un orizzonte complessivo su quello di cui si sta parlando. E quindi anche io vorrei partire da un particolare, mettendovi nel mezzo ad una scena del poema, e spero che così facendo ne emerga un'ipotesi di lettura complessiva.
Come introduzione è solo necessario che in modo telegrafico vi dia qualche informazione, giusto per capire di cosa stiamo parlando.
Siamo in Inghilterra nell’anno 878. Il protagonista di questa avventura (perché Chesterton definisce così la storia che scrive: “l'avventura di un grande eroe che tiene il suo fortino su un’ isola in mezzo ad un fiume”) è Alfred re del Wessex, regno e che si trovava nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, prima della nascita di uno stato unitario,.
Il regno di Alfred è in pericolo: tutta l’Inghilterra, infatti, è preda da tempo dell’invasione del popolo dei Danesi. Quando la storia inizia, Alfred ha già combattuto più volte contro gli invasori, con esiti alterni, ma ora il destino dell’Inghilterra è nel momento più cupo, perché il dilagare dei Danesi sotto la guida di re Guthrum è diventato come «un’enorme ondata di alta marea», che ha sommerso quasi tutto il paese. Alfred è barricato nella sua fortezza ad Athelney e sa che lo attende una nuova guerra e sa anche che sarà una guerra impari: il nemico è forte e numeroso, il contingente di Alfred è, invece, indebolito e scarso.
Alfred, allora, decide di mettersi in viaggio alla ricerca non di semplici alleati, ma di amici «ancora vivi e disposti a morire».
Dopo questa necessaria introduzione, “tuffiamoci” nel testo.
Siamo all'inizio del secondo libro del poema: il primo amico da cui Alfred si reca è Eldred, un signore affrancato, un contadino Sassone, grande lavoratore della terra.

Su vaste distese ventose e oltre
Alfred attraversò la boscaglia,
sferzato dalla gioia dei giganti
quella gioia senza un motivo.


Il re andava cercando uomini del Wessex,
come si separa un chicco dalla paglia,
i pochi ancora vivi e disposti a morire,
che ridono, come teschi sparsi sulla terra,
sconfitti in battaglia e rivolti al cielo
con il loro riso eterno.

Un corvo gracchiava cupo verso la via di casa,
gli spazi dell’ovest erano tersi e miti,
il fumo del cibo e del quieto riposo serale
si alzava come una fronda blu tra gli alberi,
quando egli giunse alla tenuta di Eldred.

Di traverso stavano i pezzi della fattoria di Eldred,
storti come le ossa di un vecchio zoppo;
rosso di ruggine ogni attrezzo di Eldred,
muffe verdastre incrostate sul suo pozzo,
e cardi violacei avevano attecchito a macchia
spaccando le pietre della cucina.

Eppure il fumo di un conviviale ritrovo
continuava ad alzarsi intenso
e la porta di Eldred stava spalancata
per il piede dell’indolente e per il carretto del facchino
e il cuore grande e ingenuo di Eldred
stava spalancato come la sua porta.

Eldred non è un guerriero. Eldred è un contadino, un uomo che ha a cuore i suoi maiali e i raccolti del campo. Eldred, però, è stato anche un guerriero, ma lo è stato non per aggredire, bensì per difendere la sua fattoria dall'aggressione dei Danesi. E in guerra egli ha perso amici e parenti: ne è uscito distrutto fisicamente e nel cuore. Quando Alfred arriva da lui, la sua fattoria cade a pezzi esattamente come il suo cuore: la distruzione portata dalla guerra ha fatto cadere Eldred in uno stato di sonno, nell’inerzia data dalla disperazione e dalla disillusione. Eppure nonostante la casa di Eldred sia cadente e malandata (e lui sia sconfortato), la sua porta è aperta e il suo cuore resta aperto.
E alla porta di quest’uomo a pezzi e ferito si presenta il Re e lo chiama una volta di più ad andare in guerra. Un’ipotesi per lui certo non allettante, ma Eldred accoglie in casa il Re.
Questa è un’immagine di ospitalità e io l’ho scelta perché il mestiere del traduttore, per me, ha principalmente a che fare con la parola ospitalità. Il passaggio che vi ho letto descrive bene come io ho vissuto la traduzione di questo poema: quando ho iniziato ad avvicinarmi a questo testo, mi sono sentita come Eldred, un contadino con la casa malandata che deve accogliere un Re.
Perché parlo di casa malandata riferendomi a me? Perché tradurre la poesia mette, senza mezzi termini, di fronte ad una sproporzione, al vuoto inevitabile che c'è tra il testo di partenza e quello di arrivo. Mentre traduci, senti le parole come strumenti arrugginiti (che comunicano qualcosa, eppure non dicono mai fino in fondo quello che vorresti esprimere): sono mura un po’ vacillanti, inadeguate ad accogliere un Re, una figura che autorevole e imponente. Tradurre poesia non significa: “trovare l’equivalente linguistico corretto, parola per parola”. La poesia è un atomo in cui il significato non è la somma delle parole, ma quella particolarissima relazione e interazione che c'è tra parole-silenzi-ritmo-rime: è un corpo inseparabile e una volta rotto è rotto. E il traduttore deve per forza romperlo. Quello che poi ricostruisce in un'altra lingua è “diverso” (e non bisogna essere scandalizzati nel dirlo): se il traduttore non parte dall'accettare con umiltà questa certezza di perdita, allora c'è il rischio che fraintenda completamente il proprio lavoro.
Ma la chiarezza di sapere che non c’è un’equivalenza perfetta tra arrivo e partenza non porta (almeno per me non è stato così) alla “rassegnazione”, al contrario: l’unico spunto per mettersi concretamente a tradurre un testo poetico è sentire questo vuoto e tremore.
Ci si mette al lavoro e si lotta con le parole, ma proprio questa battaglia continua, fa sì che nulla sia più scontato (non è scontato neppure il significato di parole che normalmente si usano con tranquillità), e dunque questa battaglia diventa una strada preferenziale per ascoltare davvero il testo.
Andare in crisi di fronte alle parole è il privilegio che spetta al traduttore e io mi sono accorta, come Eldred, che c’era della ruggine e della muffa sui miei attrezzi: c’era un uso indolente e scontato della lingua. Il testo che avevo di fronte era come un Re che ti risveglia dal sonno e ti chiede di prepararti alla battaglia.

Eldred accoglie in casa Alfred, lo ascolta e alla fine decide di seguirlo in guerra. Così faranno anche altri due amici, il Romano Mark e il Celto Colan. Non sono un gruppo di alleati politici, ma un gruppo di amici «ancora vivi e disposti a morire».
Ma perché accettare di affrontare una battaglia il cui esito non solo è incerto, ma verisimilmente sarà una sconfitta?
Anche se su un livello diverso, questa domanda, che si pongono gli amici di Alfred, era la stessa che io mi ponevo come traduttrice.
Alfred li convince ad andare in battaglia non con la promessa di ottenere qualcosa, ma con la certezza di avere qualcosa da difendere e questo “qualcosa” ha a che fare con le parole SPERANZA e IGNORANZA (che nel testo ritornano incessantemente). Queste due parole sono la battaglia che Chesterton ha fatto combattere anche a me come traduttrice: avevo molta ruggine su queste parole e, quando sono arrivata alla fine del lavoro, “speranza" e “ignoranza” non erano più le parole che conoscevo all’inizio.
L’intera avventura di Alfred è la storia di un uomo che vive con speranza e con ignoranza.

- SPERANZA e IGNORANZA

“Speranza” è una parola paradossale e nel testo chi ce lo dice è il personaggio di Guthrum, il re dei Danesi e avversario diretto di Alfred. Prima della battaglia (che è al centro del poema), lo scontro tra Guthrum e Alfred avviene a parole: si trovano attorno ad un fuoco e ciascuno propone all’altro la propria visione del mondo. La conclusione del pensiero di Guthrum è sintetizzata dal verso:

E, dunque, l’uomo spera perché è ignorante.

Dicendo questo Guthrum conclude un ragionamento apparentemente lineare: noi uomini non sappiamo forse che, fin dalla nascita, la nostra vita comincia portando già in dote la morte, una dote che non può essere barattata o tolta? Allora in che misura possiamo sperare?
Noi speriamo solo perché siamo ignoranti (dice Guthrum), cioè: visto che noi non possiamo conoscere il futuro, nel breve e nel lungo termine, l'essere ignari ci lascia il margine di poter costruire qualche illusione positiva sulle nostre aspettative. Guthrum, però, è onesto con la ragione e capisce che questo comportamento è vano e illusorio. L’uomo, che tratta la speranza nel modo appena descritto, è un ipocrita: può solo far finta di essere contento, cullandosi nell’illusione e sapendo, invece, benissimo che non c’è lieto fine, perché l'ultima parola è (comunque e sempre) quella della morte.
Se la speranza è rivolta all’esito futuro delle vicende umane ed è il margine di attesa che ci costruiamo su quello che vorremmo accadesse, allora Guthrum ha ragione: allora, speranza è sinonimo di “illusione” e, meglio, di “illusione tremenda”, perché non è altro che un fragile paravento di fronte al potere assoluto della morte.
Alfred risponde a Guthrum capovolgendo il significato della parola speranza, e può farlo solo perché all’inizio della sua avventura anche lui non aveva le idee chiare sulla parola speranza. Alfred ha cambiato idea sulla speranza ed è stata la Madonna a fargli cambiare idea. Il poema inizia, come dicevamo, in un momento di cupa sconfitta per Alfred: è sconfitto, debole e accerchiato da nemici furenti e più forti di lui.
In quel momento la Madonna appare ad Alfred e, trovandosi di fronte a Maria, egli fa quello che tutti avremmo fatto: è in difficoltà e, dunque, le chiede aiuto. L’aiuto che Alfred vorrebbe da lei è quello di sapere: «Come andrà a finire?», «Potrò di nuovo avere la mia casa?». Anche Alfred, in questo caso, sta trattando la speranza come un’aspettativa sul futuro e la Madonna risponde a tono, per metterlo di fronte al suo errore.

Non dico nulla per il tuo conforto,
e neppure per il tuo desiderio, dico solo:
il cielo si fa già più scuro
ed il mare si fa sempre più grosso.

La notte sarà tre volte più buia su di te
e il cielo diventerà un manto d’acciaio.
Sai provar gioia senza un motivo,
dimmi, hai fede senza una speranza?

Parafrasando il discorso di Maria: se ciò che ti interessa sapere è “come andrà a finire questa faccenda?”, te lo dico: andrà peggio di quello che ti aspetti («il cielo si fa già più scuro, la notte sarà tre volte più buia su di te»).
La Madonna mette Alfred di fronte a questa evidenza: la tua gioia, la tua speranza sono legate al sapere che vincerai UNA battaglia?
Se questa è la prospettiva, allora non c’è via d’uscita.
Il motivo per cui la Madonna è vicino ad Alfred in un momento così tragico è per ricordargli che la speranza è sempre accanto al cristiano e non riguarda in nessuno modo l’esito futuro delle singole circostanze.
Ecco infatti il messaggio della Madonna ad Alfred.

Gli uomini dell’Est scrutano le stelle,
per segnare gli eventi e i trionfi,
ma gli uomini segnati dalla croce di Cristo
vanno lieti nel buio.

Ma tu e tutta la stirpe di Cristo
siete ignoranti e coraggiosi,
e avete guerre che a stento vincete
e anime che a stento salvate.

Ecco che “speranza” e “ignoranza” cambiano significato.
Guthrum aveva affermato: «E l’uomo, dunque, spera perché è ignorante». La Madonna rassicura Alfred dicendogli la stessa cosa, ma con significato opposto:
La speranza non è l’illusione generata dall’essere ignoranti (ignari) sul futuro. La speranza è una certezza che libera l’uomo dalla preoccupazione sul futuro: lo rende ignorante e coraggioso. “Ignorante” significa, dunque: libero di affrontare il rischio della vita, non basando le proprie azioni sull’attesa che ogni circostanza finisca a proprio vantaggio. Cosa permette all’uomo di essere ignorante, nel modo in cui la Madonna usa questo termine?
La Madonna è accanto ad Alfred nel momento tragico che vive, perché lei è il segno della Speranza, il segno che il sigillo della vita (e non della morte) è stato impresso sul mondo. Maria non appare ad Alfred per dargli “delle speranze”, come lui si aspettava, perché lei È il segno che la Speranza è già entrata nel mondo e definitivamente.

In un Meeting che mette a tema la conoscenza non è fuori luogo che in questo contesto si parli di ignoranza, perché l’ignoranza di cui parla Chesterton è sinonimo di «libertà» e «gioia».
Anche in questo caso, molta ruggine che si è tolta dalle mie parole: in questo poema il vero “ignorante” è l’uomo LIETO, l’uomo la cui unità di misura sulla vita non è frutto di illusioni o premonizioni. Egli spera, cioè è certo che l’ultima parola sul mondo è la vita (non la morte): sa che tutte le variabili sul futuro sono possibili e possono pure essere cupe, ma non scalfiscono la certezza che la Speranza è entrata nel mondo definitivamente.

Ecco l’ipotesi con cui inizia l’avventura di Alfred e dei suoi amici. Egli li convince ad andare in battaglia non con la promessa di ottenere risultati politici o militari, neppure li illude di avere speranze di vittoria. Alfred ricorda loro che sono uomini DISPOSTI A MORIRE perché HANNO LA SPERANZA SULLA VITA. Dunque, combattendo essi correranno il rischio di difendere la vita, incuranti della morte.
E qui è necessaria l’ultima precisazione. Ripeto: sono uomini incuranti della morte, ma non sono assolutamente incuranti della vita. L’ignoranza di cui parla Chesterton, infatti, non è incuranza delle vicende che accadono.
Leggendo questo testo voi vedrete uomini che si sporcano le mani fino in fondo con la vita, che si curano di tutto ciò che accade (pur non preoccupandosi di come i singoli eventi andranno a finire) e su questo aspetto entra in gioco la figura del cavallo bianco.

- IL CAVALLO BIANCO

Cos’è il Cavallo Bianco? È una grandissima incisione (lunga 110 metri) che compare nelle colline inglesi nella zona del Berkshire: da tempo immemorabile nel verde di alcune colline qualcuno tratteggiò la figura di questo cavallo, strappando l’erba. Questa figura risulta bianca perché la roccia sottostante è composta prevalentemente di gesso. Difficile datarlo, Chesterton afferma ironicamente che, probabilmente, fu scolpito ancora prima che l’Inghilterra fosse un’isola (in un’era geologica remotissima) e dice questo perché egli non ha un interesse archeologico nei confronti di questa figura. E, infatti, per spiegare cosa rappresenti per lui il cavallo bianco, Chesterton racconta un aneddoto che vorrei brevemente riportarvi. Nel capitolo 34 di Alarms and Discursions, Chesterton racconta di aver visitato i luoghi in cui si svolse la battaglia di Ethandune (lo scontro decisivo tra Alfred e Guthrum); nel corso di quella giornata l’autista, che lo accompagnava, non aprì bocca se non quando passarono, dopo aver visitato la Valle del Cavallo Bianco, accanto ad un’altra valle completamente verde. L’autista si lasciò scappare la frase: «Questo sarebbe stato un bel posto!» e Chesterton comprese che la conclusione non detta di quella affermazione era: «per disegnare un cavallo bianco». Osservando il comportamento dell’autista Chesterton concluse:

«Lui, come me, non sapeva perché era stato disegnato; ma faceva parte di quella impensabile tradizione preistorica, perché lui “voleva disegnarlo”. La sua sensibilità divenne così acuta, che non poteva tollerare di passare vicino ad una qualsiasi vasta collina ventosa in cui non c’era un cavallo bianco. A stento riusciva a trattenersi dal mettere le mani sull’erba della collina. A stento riusciva a trattenersi dal lasciar sola ogni zolla d’erba. Dunque, smisi di chiedermi perché gli uomini avessero disegnato così tanti cavalli bianchi. Smisi di preoccuparmi del motivo per cui l’eterno uomo comune avesse cercato di scalfire e lasciare segni sulle colline. Ero soddisfatto di sapere che l’uomo aveva voluto farlo; perché io avevo visto un uomo che voleva farlo».

Il cavallo bianco è per Chesterton immagine dell’uomo che non vuole lasciare “sola” nessuna zolla di terra; è immagine dell’uomo che sente, esistendo, di non essere semplice spettatore del mondo, ma attore. L’uomo partecipa del mondo.
Dio creò il mondo e attribuì a questa sua creazione l'aggettivo “buona” e l’uomo non ha bisogno di capire questo mettendosi a studiare trattati teologici; come la Madonna dice ad Alfred, è sufficiente che un contadino stia in silenzio nei campi durante il tramonto, per accorgersi della bellezza del mondo.
Ma questa bellezza e bontà del creato, che in certi rari momenti ci balena davanti agli occhi, è più comunemente nascosta non solo dal clamore della malvagità, ma più banalmente da una vista pigra e indolente sulla vita.

Il Cavallo Bianco è, dunque, il segno operoso di un’ ininterrotta tradizione umana che non solo guarda la terra e si accorge della sua bellezza e bontà, ma che, soprattutto, lavora e fatica per dimenticarsene il meno possibile. Perché, se la terra viene lasciata sola, se il Cavallo Bianco fosse stato lasciato solo, le erbacce lo avrebbero ben presto ricoperto e avrebbero cancellato la sua figura. E, invece, il cavallo bianco è ancora visibile e chiaro.
La battaglia decisiva che Alfred combatte si svolge nella Valle del Cavallo Bianco, come a dire che nella vita ci sono le variabili imprevedibile, tremolanti come una massa di uomini in lotta, ma poi c'è la terra, cioè la sostanza della vita e la speranza che la sorregge. Quest’ultime restano, ma possono essere nascoste se non le si cura, giorno per giorno.
Leggendo la storia di Alfred, dunque, voi incontrerete un re guerriero e impavido, ma incontrerete, soprattutto, un uomo «ignorante e coraggioso». Un uomo, che le circostanze della vita hanno messo in mezzo ad una battaglia ed è una battaglia che egli combatte non come evento importante in sé, ma importante perché parte del rischio imprevedibile della vita. Questa posizione umana che Alfred incarna, e per cui “imprevedibilità della vita” significa “occasione opportuna”, si traduce nel testo di Chesterton in una espressione linguistica che ritorna più volte e con cui concludo. Siamo nel momento cruciale della battaglia, quello in cui le tecniche militari non hanno più ragion d’essere, quello in cui il re vede tra i suoi uomini poca gente viva e tantissimi morti. È il momento in cui il guerriero si butta alla cieca: l’ultima carica. Quando Chesterton inquadra Alfred, che sta per buttarsi nell'ultimo cieco attacco (quello del tutto per tutto), dice di lui che “ricominciò la sua vita”: Alfred non è l’uomo che va incontro alla morte; è l’uomo che di fronte ad ogni eventualità, anche tragica, "ricomincia la vita". E Chesterton aggiunge un dettaglio fondamentale per inquadrare meglio questa posizione umana: si può, infatti, ricominciare la vita in molti modi ("ancora", oppure "di nuovo", oppure "da capo"). Invece, Chesterton usa un'espressione che non lascia adito a fraintendimenti e scrive “once more”: Alfred ricomincia la sua vita una volta di più.

Perché nella foresta densa di paure,
come una strana folata che giunge dal mare,
lo sospinse quella antica innocenza
che è molto più della destrezza.

E come un bambino i cui mattoni crollano
si mette a sistemarli ancora e ancora,
vennero crolli e scrosci infuocati,
col tempo, che gira come una ruota,
e accovacciatosi tra le ginestre e le felci
egli cominciò la sua vita una volta di più.

Buona lettura a tutti!

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