La storia del ritrovamento di questo manoscritto (si veda in proposito il commento di Dale Ahlquist caricato nel blog) è a tal punto rocambolesca e piena di coincidenze da parere inverosimile. Eppure, oltre al riscontro calligrafico, l’ironia e l’autoironia che trasudano da tutto il testo, il procedere amabilmente polemico e il gusto per i giochi di parole non lasciano spazio a dubbi di sorta: chi scrive è proprio Chesterton. Si tratta di un breve editoriale di una rivista, mai in realtà pubblicata, che nelle intenzioni doveva raccogliere il pensiero e il lavoro del Detection Club (a proposito del Detection Club si veda anche qui e qui), un gruppo ancora oggi attivo, fondato nel 1930 e composto dai più importanti giallisti dell’epoca, tra cui, ovviamente, lo stesso Gilbert. In esso l’autore invita a riflettere i suoi compagni giallisti su quanto i romanzi polizieschi siano diventati monotoni: tra morte di milionari in case sperdute, maggiordomi che non la raccontano giusta e falsi indizi è ormai difficile accontentare il lettore sempre più esigente. Un problema che per qualcuno potrebbe essere solo di ordine estetico, assume per Chesterton ben altri contorni, perché nel suo modo di vedere le cose il giallo non è un semplice genere di intrattenimento ma “l’unica storia decentemente morale che viene ancora raccontata”, il luogo dove l’uomo si confronta in modo franco e diretto con il bene e con il male, senza infingimenti. Come salvare, dunque, tale tesoro dalla monotonia? Ci vuole “un cambio di scena”: perché anziché in una casa moderna il delitto non può avvenire in un vecchio castello medievale? Chesterton non poteva forse prevedere quanto la sua intuizione si sarebbe rivelata felice, visto che nel corso del Novecento il giallo storico diverrà un vero e proprio sottogenere amato da tanti lettori. Probabilmente lui stesso si sarà dimenticato di queste pagine, una volta che il progetto è naufragato, preso da altre mille incombenze a cui rispondere. O forse invece un giorno saremo così fortunati da leggere di quella volta che Padre Brown, insieme all’inseparabile Flambeau, sventò il famoso complotto ordito contro Riccardo Cuor di Leone…
Giovanni D'Andrea
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Dal momento che in questo periodo mi trovo sfortunatamente impossibilitato a produrre un qualche lavoro degno di questa rivista periodica di epocale importanza (1), mi ritirerò nel rifugio dell’incompetente e tenterò energicamente di scaricare il lavoro su altre persone. Diventerò un grande datore di lavoro, esattamente come tanti altri uomini che non sono abbastanza istruiti per essere lavoratori. Diletterò la mia fantasia col pensiero di camminare avanti e indietro, osservando tutti i miei proletari, il signor Bentley, il signor Berkeley, la signorina Sayers e la signora Christie, affaccendati al lavoro, mentre segano, martellano e posano mattoni per realizzare un progetto partorito interamente dalla mia mente, probabilmente abbastanza incomprensibile, e che potrebbero abbastanza energicamente disapprovare. Questo perché ho un piccolo suggerimento da proporre, magari per un articolo di questa prima edizione, oppure per una attività o una formalità della società ad essa connessa, oppure ancora per una variazione sui molti esperimenti nella pubblicazione dei libri nel Detection Department. Si tratta di un suggerimento davvero piccolo, nulla di straordinario, ma ritengo che intercetti una certa critica che viene spesso avanzata a proposito della monotonia del romanzo poliziesco.
Ovviamente, se diventassi un grande datore di lavoro, potrei immediatamente essere assassinato nel primissimo capitolo, e farei anche il mio primo omaggio alla compagnia come cadavere, ottemperando così alle leggi del romanzo poliziesco, non sempre rispettate, ahimè, nella realtà. In seguito, il mio corpo verrebbe trovato dal mio maggiordomo (assunto appositamente per l’occasione) nella mia biblioteca (che sarebbe costruita in fretta e furia come ampliamento della mia attuale dimora, che di certo non possiede alcuna dependance), e dunque il dottore e il detective osserverebbero i miei lineamenti sottili, forti e piuttosto rapaci. A quel punto il detective chiederebbe se io avessi per caso avuto dei nemici e il dottore risponderebbe piuttosto stancamente (dal momento che lo avrebbe già detto centinaia di volte), “Un uomo non guadagna dodici milioni di sterline al minuto, come in effetti Chesterton guadagnava, senza farsi dei nemici”. Infine, inizierebbero a disquisire a proposito di tutti i rivali che avrei annichilito nel mio spietato cammino verso il successo, e così via. Pochi scrittori di romanzi polizieschi sono riusciti del tutto a evitare questa scena o cerimonia, ed è proprio a proposito di questa scena o cerimonia – o comunque di elementi simili – che la critica avanzata in un recente articolo sul The London Mercury fondamentalmente si basava.
Il critico, prendendo le mosse da un magnifico articolo della signorina Dorothy Sayers, nella stessa rivista, voleva mostrare come il romanzo poliziesco tenda per sua natura a fossilizzarsi in alcune forme convenzionali: in particolare in questa faccenda della morte di un milionario, ma anche nell’inossidabile abitudine del milionario di farsi assassinare nella sua piccola dimora di campagna. Lo scrittore sosteneva, in un certo senso abbastanza assennatamente, che lo spirito divino dell’uomo provi un più intenso piacere nell’uccidere un uomo ricco rispetto a un uomo povero e che una casa di campagna sia una tra i pochi spazi sufficientemente isolati e chiusi per accogliere le poche dramatis personae direttamente implicate nel dramma.
Mi pare un’esagerazione affermare che ciò debba sempre avvenire, e ancor più un’esagerazione suggerire che ciò debba sempre essere monotono. Accade, esattamente nello stesso modo qui descritto, con inimitabile freschezza e vigore in Trent’s Last Case di E. C. Bentley, ma è eccessivo dichiarare che un omicidio possa avvenire solamente durante una festa privata in una casa di campagna. Ci sono altre forme di catastrofe, desolazione e isolamento disumano oltre a quella di passare il fine settimana nella casa di un milionario in compagnia di persone intelligenti. C’è una barca, c’è un’isola deserta, c’è un gruppo d.i alpinisti ricoperti di neve in un rifugio di montagna (di chi sono le tracce invertite sulla neve?), c’è il cortile interno di un college con gli studenti riuniti a un certa ora (urla disumane dalle stanze del professore di Teologia Morale) e chiunque tra i miei più brillanti compagni potrebbe suggerirne cinquanta ancora; molto più racchiusi nella struttura, o regolari, rispetto alla natura labirintica e contorta di Gobblegrave Grange, banalmente bucherellata da nascondigli per preti e grotte di contrabbandieri (2). Ho io stesso commesso non meno di cinquantadue omicidi, in senso distaccato e poetico, e credo che solo circa tre di essi fossero omicidi di un milionario e difficilmente qualcuno di essi era ambientato in ordinarie case di campagne.
Eppure, anche se ritengo che il critico ingigantisca il destino ferreo e inevitabile che spinge noi tutti a tali orribili soluzioni, ammetto che c’è qualcosa di vero in quello che dice, almeno in questo senso: che è molto complicato evitare la ripetizione, o meglio l’assenza di originalità, per quanto riguarda i dettagli della morte di un uomo moderno, che sia o no un milionario, perlomeno se è abbastanza importane da mettere in moto l’intero apparato moderno: la routine di autopsia, indagine, polizia locale e intervento di Scotland Yard. Mi limiterei solo a suggerire un modo possibile per procedere senza questo apparato, preservando comunque la moralità vivace del romanzo poliziesco.
Perché il romanzo poliziesco è quasi l’unica storia decentemente morale che viene ancora raccontata. Solo in racconti di sangue e di tuono vi è qualcosa di tanto cristiano come il sangue che grida giustizia al tuono del giudizio; ma ora, dunque, il romanzo poliziesco che dovrebbe essere sensazionale è ormai l’unico romanzo che non sorprende più (3).
Secondo me dovremmo tentare un po’ di più la strada di quello che potrebbe essere chiamato il romanzo poliziesco storico. Il gioco di maschere e facce e il misterioso cuore dell’uomo rimarrebbero esattamente gli stessi, ma potremmo adoperare centinaia di variazioni e ottenere qualche libertà, intervenendo sugli aspetti secondari dell’azione. Quando venne messo in scena Amleto in abiti del tutto moderni, non c’è dubbio che si fece fatica a immaginarselo in altro modo che come un uomo abituato a portare una spada, dal momento che, in molti dei suoi gesti impulsivi, sguainare una spada è tanto naturale quanto muovere un dito. Concediamoci la stravaganza di immaginare che, invece che Amleto vestito in abiti moderni, siano i personaggi di Trent’s Last Case, adììììììììììììììììììììììì vestiti in abiti elisabettiani. Una lotta tra uomini abituati a tal punto alla spada e al pugnale da esserne noncuranti che si conclude in un omicidio non davvero premeditato o colposo sarebbe molto più semplice da immaginare. Non sto suggerendo che si dovrebbe cambiare in questo caso specifico: sarebbe complicato eliminare l’episodio del telefono e temo che sarebbe difficile anche mantenere il magnifico episodio del dente falso. Ma la moralità del rapporto tra Marlowe e Manderson (4) avrebbe potuto benissimo essere la stessa del rapporto tra un qualche giovane poeta e il suo protettore durante il Rinascimento. Ipocrisia e segretezza sono il mantello e la maschera di quel ballo in maschera che è il romanzo poliziesco, ma il mantello può essere di diversi tagli e stili, e non c’è carenza di ipocriti nella storia.
Per certi versi, ciò ribalterebbe l’argomentazione del critico del Mercury contro di lui. Un vecchio castello sarebbe, ancor più che una casa di campagna, un ambiente chiuso e compatto e la malvagità dell’uomo ricco in tempi più semplici era nient’affatto più malvagia ma senza dubbio meno monotona. Non voglio dire, ovviamente, che dovremmo convertire tutti i nostri racconti polizieschi in spettacoli di costume; dico solamente che se ogni tanto lo facessimo, tanto per cambiare, ci imbatteremo in alcune nuove libertà e in alcune nuove limitazioni. Se mi è concesso un altro po’ di egocentrismo, potrei ricordare che una volta ho scritto un breve racconto chiamato All'insegna della spada spezzata: è estremamente melodrammatico e inverosimile per essere un episodio militare moderno per il semplice motivo che originariamente avevo ipotizzato una trama sulla base di qualche schermaglia medievale, con lance e asce da battaglia, e solo in seguito l’avevo adattata alla vita moderna, con l’obiettivo di renderla contemporanea a quel Padre Brown che, se non ricordo male, la signora Helen Parry Eden aveva definito molto sinceramente come un “piccolo fannullone ficcanaso”.
Credo che un tentativo possa essere fatto, ad esempio, con qualcuno dei misteri davvero accaduti, come quelli che sono diventati oggetto di studio da parte di Andrew Lang (5).
Supponiamo di prendere un episodio sconcertante e ancora enigmatico, come il Campden Wonder (6) o la Gowrie Conspiracy (7), e, dopo un’introduzione in cui si dichiarano i fatti noti, proporre, a turno, una soluzione dello storico enigma, nella forma di un breve romanzo storico. Ciò offrirebbe allo stanco detective quello che viene sempre consigliato dal dottore: un cambio di scena. Lo scrittore non si sentirebbe come l’assassino, ritornando non solo sulla sua scena del crimine ma sulla scena di centinaia di crimini esattamente simili. Non proverebbe la terribile sensazione di lasciare in eterno le proprie tracce e di sfogliare un documento troppo familiare ricoperto dalla sue impronte. Sarebbe allietato e ravvivato dal poter utilizzare nuovi strumenti, anche se fossero strumenti di tortura. Troverebbe qualsiasi tipo di novità tra le antichità.
Prendiamo, per esempio, la questione di cui si è parlato prima: l’antica usanza di portare una spada. Supponiamo di avere scelto lo strano caso della morte di Sir Edmund Godfrey, all’inizio della questione del Complotto Papista (8). Si tratta di qualcosa di identico a un racconto poliziesco dal momento che vi sono tre verosimili ipotesi di omicidio e una di suicidio.
Ma ciò che mi interessa ora è questo: il fatto che Godfrey venne ritrovato in un fosso ad Hyde Park, se non sbaglio, con segni di strangolamento da corda ma anche con la sua spada conficcata nel corpo. Per il detective si tratta di una classica complicazione, o contraddizione, da risolvere. Ma ciò che importa è che presenta, in una forma inusuale e pittoresca, qualcosa che ci ha tutti un po’ stancato nella sua forma familiare e moderna. Non abbiamo forse un po’ troppo spesso letto che Sir Gorlias Guttlebury che all’inizio sembrava essere stato pugnalato, alla fine venne scoperto essere stato avvelenato? Non leggiamo forse, in modo abbastanza meccanico, di come la polizia ha provato a rintracciare il pugnale e di come i dottori hanno intuito l’avvelenamento prima del coroner? In questo caso invece non c’è necessità di rintracciare l’arma, poiché è l’arma stessa del morto, e non c’è bisogno di strani veleni orientali, perché l’omicidio può essere eseguito con qualsiasi vecchia corda. Ma perché è stato fatto? Perché vennero utilizzati due metodi? Quale dei due per primo?
Lascio questo caso tra i tanti possibili, più che altro come esempio o esperimento, ai miei compagni del Detection Club. Potremmo pubblicare un libro o una serie di libri con sette diverse spiegazioni per la morte di Sir Edmund Berry Godfrey?
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Note