venerdì 15 febbraio 2008

La moratoria sull'aborto l'ha inventata Chesterton


Noi è dall'inizio che lo diciamo...

Dal quotidiano Libero di oggi 15 Febbraio 2008 (cliccando il titolo si va all'indirizzo dove c'è l'immagine della pagina).


di Martino Cervo

Gilbert Keith Chesterton era una specie di nottola di Minerva al contrario. La civetta di Hegel spiccava il volo al crepuscolo, a guardare il tramonto di una giornata e di una realtà ormai compiute; lui vedeva una cosa in atto, ma già ne coglieva le ombre sul futuro. Quell'orribile forza - così l'avrebbe chiamata qualche decennio dopo Clive Staples Lewis nell'omonimo grande romanzo - l'ha scorta prima della Grande guerra, l'ha descritta, poi l'ha vista inabissarsi sotto la tragedia delle armi. "Eugenics" era pronto per essere pubblicato, ma finì in un cassetto: c'era altro di cui occuparsi, e contro cui protestare e per cui combattere.
Nove anni dopo lo scrittore riaprì quel cassetto, perché la forza era di nuovo scatenata: progetti di legge per limitare il numero dei malati di mente, congressi in cui si metteva a tema il "miglioramento" necessario della popolazione, correnti scientifiche che propugnavano la selezione naturale prematrimoniale, grandi scrittori (George Bernard Shaw su tutti) pronti a benedire la causa. Così scriveva agli inizi del Ventesimo secolo l'autore del Pygmalion: «Sono d'accordo con quanto esposto, e non esito a dire che ormai non c'è scusa ragionevole per disconoscere il fatto che nulla se non una religione eugenica può salvare la nostra civiltà dalla sorte toccata a tutte le civiltà precedenti».
Tutto questo è «chiamato per comodità eugenetica», annota con quella che tutti chiamano ironia, ma che sembra di più una voglia matta di far parlare la realtà. In Italia il cassetto lo riapre Cantagalli, traducendo per la prima volta gli scritti di Chesterton ("Eugenetica e altri malanni", pp. 344, euro 22, prefazione del capogruppo Udc alla Camera Luca Volontè, che ha un ruolo di primo piano nel reperimento del testo).
E l'eugenetica prende piede - altra espressione perfetta - grazie all'«alleanza disastrosa tra abnorme ingenuità e abnorme peccato». Ha una base morale, secondo cui «il bambino per il quale noi siamo principalmente e direttamente responsabili è il bambino che deve ancora nascere». La furia con cui il grande scrittore decritta l'ideologia eugenista fa sorridere solo alla prima lettura, poi è una lama di inquietudine. Come quando racconta dell'adepto che nobilmente è chiamato a rifiutare di sposare la fidanzata caduta dalla bicicletta, con «un'arcana semplicità da far gelare il sangue» che ricorda quella con cui oggi si sceglie chi far nascere, e chi no.
Chesterton è irresistibile mentre seziona gli espedienti con cui l'ideologia che oggi chiameremmo scientista si fa strada. Tra le pagine appaiono in controluce i volti di Umberto Veronesi e Monica Bellucci, i testiomonial del sì alla legge 40. Ci sono i trucchi linguistici («le parole lunghe tranquillizzano», e l'interruzione-di-gravidanza era là da venire), buone volontà rapite da promesse di progressismo, un clima culturale dove «l'inettitudine a ogni sorta di pensiero è considerata arte di governo» e in cui diventa impossibile pensare che «uomini in cappello e cappotto stiano preparando una rivoluzione». Una rivoluzione silenziosamente e deliberatamente anarchica, perché «l'anarchia è la condizione d'animo di chi non si può fermare».
Il disegno di legge sui deboli di mente fatto circolare dalla "Eugenics Review" che aveva fatto sobbalzare lo scrittore nasce dalla follia di togliere la responsabilità del padre sul figlio, e dell'uomo su se stesso: «L'eugenista deve trattare ognuno, se stesso incluso, come un'eccezione a una regola che non c'è». Da qui la pretesa che qualcuno o qualcosa giudichi gli uomini con la stessa superiorità con cui gli uomini giudicano i matti, ma senza dire con quale autorità. Questa autorità, pervicacemente occultata, è ciò che GKC chiama «tirannia medica» della «casta» fatta di «esperti della salute»: un dispotismo antico e senza dogmi, che armonizza «l'indurimento del cuore col rammollimento della testa», che sogna di porsi sopra l'uomo in materia di fondamentali diritti umani, realizzando una guerra contro i deboli, «ciò che l'eugenetica è fin dal principio».
L'accetta di Chesterton cala pesantissima: «Chi tenta davvero di tiranneggiare tramite il governo è la Scienza. (…) Non ho paura della parola "persecuzione" quando è attribuita alle chiese, e non è minimamente come termine di biasimo che la attribuisco agli uomini di scienza. È un termine di realtà legale. Se esso significa l'imposizione mediante la polizia di una teoria ampiamente contestata e indimostrabile in via definitiva, oggi a perseguitare non sono i nostri preti ma i nostri dottori. L'imposizione di dogmi simili costituisce una Chiesa di Stato: in un senso più antico e più forte di quello riferibile oggi a qualsiasi Chiesa soprannaturale (…) L'inquisitore imponeva violentemente il suo credo perché esso era immutabile. Il savant lo impone violentemente perché domani forse lo cambierà (…): è la prima Chiesa che si basa sul non aver trovato la verità».
Una Chiesa ufficiale del Dubbio, come la chiamerà, senza ragioni ma piena di moventi, che si nutre di impenitente inevitabilità e di negazione del libero arbitrio, e sfocia in una legislazione che «proibisce la carità umana» imponendo lo Stato fin dentro le cose più intime della carne, fino a rendere assurdo che il matrimonio e la maternità non debbano essere disciplinati da commi e decreti.
L'analisi dello scrittore si fa anche politica e culturale: l'ideologia eugenista si insinua nel tentativo - alla Bobbio ante litteram - di collegare liberalismo e socialismo. Ma il ponte si spezza, spalancandosi in un abisso di anarchia che Chesterton ci fa intravvedere con l'impressionante racconto finale della piccola Eugenette, micidiale profezia del destino oscuro dell'uomo perfetto. Lo scrittore scolora a tratti in una posizione confusamente anticapitalista: si scaglia contro l'«impulso plutocratico che sta dietro a tutta l'eugenetica: nessuno pensa di applicarla alle classi preminenti. Nessuno pensa di applicarla dove sarebbe più facile». Oggi, forse, il cassetto sarebbe da riaprire di nuovo, perché su questo non aveva visto giusto.
Eppure c'è un antidoto, che non è appena un trito attaccamento ai valori andati, né una ripulsa della scienza come tale. È la difesa di un'esperienza più personale, che la tradizione affida al mistero della libertà di ciascuno. Una semplice, immane sfida per cui «la fondazione di una famiglia è l'avventura personale di un uomo libero», per cui un'autorità implica una ragione anziché farla a pezzi.. Per cui la responsabilità è verso la vita che c'è, e non verso quella che potrebbe esserci.

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