mercoledì 15 febbraio 2023

I pastori antimoderni di Chesterton | di Nicola Costa Lucco.

C’era una volta l’Arcadia, una terra verde e rigogliosa racchiusa fra le montagne selvagge della Grecia. Vi regnava il dio Pan, per metà uomo e per metà caprone, sempre accompagnato dal suo corteo di satiri e driadi. In questo immenso giardino non esistevano preoccupazioni: i frutti della terra crescevano spontanei e abbondanti, le greggi e gli armenti pascolavano in tranquillità donando il proprio latte ai pacifici pastori. Nelle acque placide e cristalline dei fiumi nuotavano le naiadi, ninfe delle acque: nude, libere, bellissime. L’Arcadia era un luogo perfetto, un idillio incantato dove ogni essere vivente abitava in perfetta armonia. L’uomo, gli animali, le divinità, gli spiriti delle foreste erano un tutt’uno con la natura. Questo mondo di pace e tranquillità è stato per secoli l’ispirazione di innumerevoli opere letterarie, dalla poesia ellenistica di Teocrito alle Bucoliche di Virgilio, dal poema di Jacopo Sannazaro fino ai lavori di John Keats. Grazie allo straordinario successo di questi e di altri capolavori, si è imposto nell’immaginario collettivo il modello di un pastore idealizzato, umile di fronte alla bellezza che si schiude davanti ai suoi occhi, felice di poterla celebrare con la musica del flauto. La vita dei campi viene individuata come via maestra per la felicità.

Oggi si è perso qualunque tipo di curiosità per questa rappresentazione. L’Arcadia non affascina più e ha smesso di essere la protagonista dei componimenti poetici. Di tale disinnamoramento ha parlato anche G.K. Chesterton, giornalista, romanziere e saggista prolifico, uno dei più acuti e pungenti critici della modernità, tanto da meritarsi il titolo di “principe del paradosso”. In un breve scritto intitolato “In difesa delle pastorelle di ceramica”, l’autore lamenta la scomparsa dell’entusiasmo per la vita arcadica, che è “oggi esposto al dileggio del realismo”.

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