sabato 30 ottobre 2021

Giuliotti, Papini e Belloc.

In una lettera di Domenico Giuliotti a Giovanni Papini del Luglio 1927 c'è questa digressione (si parlava di opere ed autori e del giudizio di Giuliotti su di essi):

Mi pare d’averti detto a Campomare, che L’anima cattolica dell’Europa di Belloc (l’unico libro di lui che finora conosco) mi aveva fatto l’impressione d’essere abbastanza pesante, specialmente in confronto a quelli di Chesterton. Qui mantengo questo giudizio; ma non avevo letto, allora, la «Conclusione». In essa è una sintetica ed acutissima diagnosi del male spirituale moderno, che non può essere guarito, secondo lui (e secondo noi) se non dal ritorno ala Fede, cioè alla Chiesa. Ma noi, lo vedremo questo ritorno? O vedremo soltanto il castigo, proporzionato alla colpa, che lo precederà?

L’anima cattolica dell’Europa è, come si intuirà, Europe and Faith, tornato da qualche anno in stampa anche in Italia con la traduzione letterale del suo titolo. Delle sue opere, nonostante questo primitivo giudizio non del tutto positivo, Giuliotti redigerà un elenco nel Dizionario dell’Omo salvatico.


È interessante notare come questi due uomini si influenzassero, giudicassero insieme i fermenti che in quel momento percorrevano l'Europa, il dibattito letterario e culturale e la Chiesa Cattolica, come non avessero giudizi di poco momento, ma mirassero sempre in alto, alla loro medesima vita spirituale. Difatti Papini scrive a Giuliotti nel medesimo Luglio 1927: 


Spero che La polvere dell’esilio sia il tuo grande libro di poeta cristiano: ricordati di quel che ti dissi a Campomare. Ripulisci, svetta, pota, leva tutte le patine e le sbavature dell’enfasi e del sovraccarico. «Il segreto dell’arte è l'omissione» ha detto Stevenson, e me ne accorgo correggendo il mio libro. Meglio un bel pilastro di marmo schietto che una colonnona a tortiglioni impiastricciata di dorature e con un di quei capitelli compositi e mostruosi come facevano i romani della decadenza e poi  secentisti.


Sembrano i suggerimenti dell'agricoltore ad un collega (e conoscendo un po' del loro stile, c'è tutta la loro semplice grandezza), sono bellissimi. Denotano lo sforzo vocazionale con cui questi uomini si misuravano con la loro professione di giornalisti e scrittori. Cercavano all'estero ciò che in Italia non trovavano con facilità, volevano portarvi quella fresca novità dell'Inghilterra e del suo risveglio cattolico, ad esempio. Emilio Cecchi non era lontano da queste idee, anche se aveva un interesse più spiccato per importare anche un certo stile di scrittura e narrazione. D'altro canto i fermenti più veri e sinceri li abbiamo proprio da La Ronda, da Il Frontespizio e da altri slanci simili. Dove sia finito tutto ciò non si sa, però non mi sembra di vedere grandi slanci, anzi. Ma c'è sempre speranza e la nostra piccola Società vuole sostenerli.


Marco Sermarini


Un giovane Hilaire Belloc

Giovanni Papini e Domenico Giuliotti





1 commento:

UmbertaMesina ha detto...

Oh, non è un'impressione solo sua né un giudizio non positivo. Belloc e Chesterton erano due uomini molto diversi che si esprimevano in maniera diversa anche quando dicevano le stesse cose.
Leggere Belloc (e non dico tradurlo...) è come trovarsi sotto un maglio, mentre leggere Chesterton è come volare con l'aliante.
La cosa singolare è che Belloc era - ed è tuttora - considerato un maestro della prosa inglese, mentre di GKC si diceva che scriveva male, forse perché aveva uno stile insolito.