domenica 15 ottobre 2017

San Francesco borghese? - di Fabio Trevisan (da Riscossa Cristiana)

“E’ improbabile che qualcuno definisca S. Francesco un uomo d’affari, ma era certamente un uomo d’azione”.
Ultimamente sono apparse alcune controversie sull’interpretazione di S. Francesco d’Assisi (http://www.vitanuovatrieste.it/vatican-insider-falsifica-san-francesco-dassisi/). L’amico Roberto Prisco, co-fondatore con il sottoscritto dei Gruppi Chestertoniani Veronesi, ha espresso alcune considerazioni molto stimolanti sul S. Francesco di Chesterton, specificando sin dall’inizio di non trattarsi di un’interpretazione globale del Santo ma soltanto di riflessioni sugli aspetti sociali della sua esperienza riportati da Chesterton (http://www.chesterton.it/gkc/SFra.htm). Premetto che, quando Chesterton pubblicò nel 1923 il saggio sul Santo d’Assisi, analizzò il problema di S. Francesco cercando di far luce su quanto Ernst Renan (1823-1892), critico e scrittore francese, e Matthew Arnold (1822-1888), critico e poeta inglese, autori di studi sul Santo, avevano lasciato nel buio: “Proviamo a vedere se, con l’aiuto di quanto si è capito, riusciamo a capire queste altre cose che ora ci sembrano doppiamente oscure per la loro intrinseca mancanza di chiarezza e per il loro ironico contrasto”. 
Quali erano “queste altre cose” per Chesterton? Eccole elencate qualche riga dopo: “Perché questo poeta che rendeva grazie al sole suo Signore, si nascondesse spesso in una buia caverna, perché il santo che era così gentile con Frate Lupo fosse tanto duro con Frate Asino (soprannome che aveva dato a se stesso), perché il trovatore che diceva che l’amore gli metteva il fuoco in cuore si tenesse lontano dalle donne, perché il cantore che godeva della forza e della gaiezza del fuoco scegliesse di rotolarsi nella neve…”.Partendo quindi da ciò che pensava Chesterton su S. Francesco, Roberto Prisco ha giustamente sottolineato, citando il grande scrittore inglese, come S. Francesco divenne il diffusore di ciò che S. Benedetto aveva accumulato. La parola “culto”, che proviene dal latino “colere”, che significava l’onorare e servire gli Dei nel tempio, nella propria vita e nel lavoro dei campi rimandava all’adorazione divina, così come le parole “cultura” e “coltivazione” riguardavano gli altri aspetti indicati dal latino “colere”.
Il feudalesimo, ossia l’epoca in cui visse S. Benedetto, che si era costituito sulle ceneri dell’impero romano, era fondato sul principio del dovere: del feudatario verso il re, dei servi e degli armigeri verso il feudatario, dei contadini (servi della gleba). Quest’epoca feudale fu riscattata da S. Benedetto, che sostituì il “vertice re” con il “vertice Dio”. Qualcosa di simile fece S. Francesco d’Assisi in un’epoca cambiata: già intorno all’anno 1000 si erano formate infatti le libere città comunali che portarono all’avvio della società borghese, società basata sulla sostituzione del principio del dovere con quello del diritto (da qui l’esplicito riferimento all’affermarsi delle Università degli studi). Questo era il mondo in cui nacque e visse S. Francesco ed è opportuno tenerne conto, come ha giustamente sollevato Roberto Prisco. Qual era, in questo contesto, il vero pericolo alla santità? S. Francesco ravvisò, secondo Prisco, che il pericolo alla santità era nella struttura della società borghese, cioè nel diritto dell’uomo sulle cose al punto da far giungere il borghese alla convinzione della propria autosufficienza. Il Santo poteva insistere così sulla povertà come espressione sia del principio di creazione, sia del comando evangelico: “Date a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio”. S. Francesco d’Assisi quindi, ha osservato Prisco sulla scorta della lettura di Chesterton, diffuse ciò che S. Benedetto aveva costruito, tenendo presente che S. Benedetto non negò la società feudale ma la rese e orientò al servizio di Dio. Allo stesso modo S. Francesco non negò l’attivismo borghese ma lo indirizzò al servizio di Dio.
L’ordine francescano quindi, secondo le osservazioni stimolanti di Roberto Prisco, fu un ordine borghese che cercò di salvare la borghesia dalla sua perversione, evitando che la società divenisse atea o che la carità divenisse filantropia. Il “borghese” Chesterton lodava in S. Francesco la praticità, l’attivismo, la fiducia in sé, l’indipendenza dell’uomo, cercando di ricomporre tutte queste attitudini in un quadro sopranaturale. La sua faticosa conversione al cattolicesimo (avvenuta ufficialmente nel 1922) era anche, ma non solo, dovuta a questa “lettura” del Santo d’Assisi, che con S. Tommaso d’Aquino rappresentava il cosiddetto “paradosso dei Santi: “Ogni generazione è convertita dal Santo che maggiormente la contraddice”.
Le osservazioni di Roberto Prisco possono quindi aiutare ad approfondire la conoscenza e la ricchezza del pensiero di Gilbert Keith Chesterton e non solo in merito alla giusta considerazione del Santo.

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