PAGINE PER CAPIRE IL MONDO
Marco Testi
“Dickens è l’unico anello esistente tra la vecchia e la nuova gentilezza, tra la buona volontà del passato e le opere buone del futuro. Egli ha unito la festa del Primo Maggio al Venerdì Santo, e lo ha fatto praticamente da solo”.
In genere si guarda alla saggistica con il sospetto –talvolta legittimo- di una categoria riservata agli addetti ai lavori, spesso noiosa. Ma ci sono delle eccezioni, che poi sono spesso costituite da saggi di scrittori, come Borges, Eliot, Tolstoj, Manzoni, solo per fare alcuni nomi. Tra questi nomi sarà meglio aggiungere quello di Chesterton, autore spesso misconosciuto –più per motivi di critica che di pubblico- di importanti romanzi e di profondi studi, come questo “Una gioia antica e nuova” (Marietti 1820, 226 pagine), che, come recita il sottotitolo, è una raccolta di saggi su un altro grande inglese del secolo precedente: Charles Dickens.
In realtà queste non sono altro che le introduzioni che il creatore di Padre Brown scrisse per le riedizioni dei romanzi dickensiani nella popolare collana Everyman. Sono però qualcosa di più di una prefazione, di una recensione, o di un saggio, ed è per questo che le presentiamo al lettore, perché vanno oltre la letteratura; non sono un compiaciuto accumulo di citazioni colte, ma hanno a che fare con l’esistenza di tutti i giorni.
Ci sono passaggi fulminanti, che parlano al cuore e alla ragione di ognuno di noi (mai collana ebbe un titolo così azzeccato come Everyman, “ognuno”), senza per questo cessare di essere letteratura: sono in pratica la prova provata che essa può essere, come sosteneva Carlo Bo, anche vita.
Come si sa, Dickens rappresentò la reazione della borghesia illuminata e umanitaria ai guasti della industrializzazione inglese ai primi dell’Ottocento: romanzi come “Oliver Twist” e “David Copperfield” continuano ad indignare i lettori per la loro denuncia dello sfruttamento dei bambini nelle fabbriche, cui fu sottoposto da giovane lo stesso scrittore. Ma Chesterton non si limita a stare nel coro dell’indignazione, fa qualcosa di più: va a scoprire le radici psichiche e culturali della scrittura di Dickens e della borghesia inglese del periodo. Si legga quanto lo scrittore-critico scrive a proposito del romanzo “Tempi difficili”: “Dickens era lì per ricordare alla gente che l’Inghilterra aveva cancellato due parole dal motto della Rivoluzione, ‘uguaglianza’ e ‘fraternità’, lasciando solo la “libertà”. Nel libro Tempi difficili, egli si fa soprattutto paladino dell’uguaglianza. In tutte le sue opere, Dickens difende la fraternità”. È sorprendente come il discorso non solo sia aderente alle profonde contraddizioni politiche della democrazia inglese, ma in grado di cogliere profeticamente l’ambiguità della politica dei nostri tempi, che sbandiera il vessillo della libertà individuale e tollera una abissale diseguaglianza sociale: non si allude solo alle problematiche dell’immigrazione, ma alla situazione economica e di conseguenza sociale complessiva di molta gente che non arriva alla fine del mese e che però ha la “soddisfazione” di sentirsi appuntare sul petto la medaglia di una ben strana libertà: quella di dover accettare i portati di una libertà di mercato, che non è –lo stiamo vivendo oggi- la medesima di quella del cittadino.
Ma, per tornare ai tempi di Dickens, ci si accorge che l’analisi –scorrevole e di facile lettura- di Chesterton, continua a martellare sulla ferita dolente, e cioè l’atteggiamento dell’intellettuale, tutto teorie avanzate, ma incapace di scendere nei gironi dell’inferno del sottoproletariato urbano: “Dickens poteva amare tutti gli uomini, ma rifiutava di amare tutte le opinioni. Il moderno benefattore può amare tutte le opinioni, ma non riesce ad amare tutti gli uomini”. Si può essere più espliciti? Il filantropo intellettuale (Chesterton aveva un occhio polemico sempre rivolto verso George Bernard Shaw) predica bene e però razzola male, perché costruisce grandi teorie astratte, ma quando è il momento di sporcarsi le mani, si ritrae inorridito dalla vicinanza con la miseria e la malattia.
Opera davvero importante questa, fin dalla bellezza del titolo, che però parla forse più di Chesterton che di Dickens: essa sembra la traduzione in teoria della trama di un romanzo come “L’osteria volante” nel quale venivano messi in ridicolo tutti i tic autodistruttivi di una classe colta sempre pronta ad acclamare l’esotico invece di costruire una nuova realtà con i mezzi che la propria vecchia cultura gli aveva messo a disposizione.
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