mercoledì 6 luglio 2016

L'eredità di Chesterton secondo Umberta Mesina

Quello che io trattengo dell'eredità di Chesterton è la sua capacità di fare compagnia. 

Bella forza, dirà qualcuno, se uno scrittore non fa compagnia, è uno che ha sbagliato mestiere. Questo è vero e non è vero. Non dipende solo dallo scrittore. 

Quando ho saputo il tema del Chesterton Day di quest'anno, mi è capitato di pensarci un intero pomeriggio, mentre facevo le solite faccende. Pensavo soprattutto alla parola "eredità", perché sono fissata con le parole e con l'esperienza che ci sta dietro, non pensavo all'eredità di Chesterton in particolare; e all'improvviso mi sono accorta di un elemento che è presente in ogni eredità, al punto che forse tendiamo a darlo per scontato. 

C'è un elemento immancabile quando si parla di eredità, di qualunque eredità, materiale o immateriale, spirituale, letteraria eccetera, e non è la presenza di un morto: è la presenza di un vivo. Non esiste eredità se non esistono eredi. Anche la parola "eredità" viene da "erede", non è il contrario. 

L'erede è così importante che, se uno ti lascia un'eredità, tu puoi anche non accettarla. È vero per i beni materiali e per quelli immateriali. Ed è vero anche per quello che ha lasciato Chesterton. 

Ovviamente l'eredità di uno scrittore, in quanto scrittore, è quello che ha lasciato scritto. 

Se l'erede è importante, però, non si tratta solo di quello che Chesterton ha lasciato scritto; si tratta anche di quel che ne facciamo noi che lo leggiamo, di quel che ne faccio io, ma vale per ogni io che apre un libro di Chesterton e comincia a leggerlo. 

Il mio mestiere fino a qualche hanno fa era correggere libri, ero un editor di testi accademici: facevo sia la parte del lettore sia quella del critico. Nel tempo ho imparato, ma molto prima di lavorare da editor, che fondamentalmente esistono due modi di leggere. Uno è utilitaristico: cerco nozioni, emozioni, consolazioni, rassicurazioni, conferme per ciò che penso... ho un buco da tappare e cerco di riempirlo. L'altro modo è relazionale: leggendo cerco una relazione con chi ha scritto, una compagnia per fare il mio cammino nella vita di tutti i giorni. 

Questi due modi, utilitaristico e relazionale, valgono per ogni scritto – anche per le enciclopedie e i manuali degli elettrodomestici – e valgono anche per ciò che ascoltiamo o vediamo: discorsi, musica, film. 

Possono anche essere presenti nello stesso lettore, in momenti diversi. Non è sbagliato in sé cercare conferme alle proprie intuizioni o ai propri pensieri, così come non è sbagliato leggere un romanzo per rilassarsi mezz'ora. Quel che è sbagliato, perché è inadeguato a ciò che siamo, è fare sempre soltanto questo. A volte va bene farlo, a volte non è adeguato. E bisogna scegliere ogni volta, anche con fatica, perché il modo utilitaristico è il modo più immediato per noi oggi.

Ai miei tempi prevaleva anche quando facevamo gli esami all'università e io me lo sentivo stretto. Rimasi elettrizzata quando trovai l'altro modo descritto in un libro, perché era proprio quel che desideravo e provavo anche a fare con certi autori, però mi sentivo un po' sola. 

Non si legge mai lealmente se, in qualche modo, l'autore dello scritto non è presente e tu, leggendo, è come se gli domandassi: "Cosa vuoi dire? che ragioni hai?". Non è mai viva lettura se non è potenziale dialogo.

—L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, cap. 5 par. 2 (pagg. 351-352 ed. BUR 1996) 

Anche Chesterton leggeva così. Me ne sono accorta quando ho tradotto il saggio su Robert Browning e questo me lo ha fatto sentire ancora più compagno. Browning era totalmente frainteso a quei tempi; oggi si possono trovare articoli su di lui che hanno lo stesso approccio di Chesterton, anche se magari non nascono dal suo saggio, ma allora no. A quel tempo Browning era considerato semplicemente un poeta incomprensibile. C'è un aneddoto nel libro, che riguarda un letterato che legge un libro di Browning: [lo riporto direttamente dal libro, anche se ancora non è uscito; si trova nella prima pagina del secondo capitolo]

Si stava rimettendo da una malattia e, avendo ottenuto per la prima volta il permesso di leggere un po' durante il giorno, pescò un libro dalla pila accanto al letto e cominciò Sordello. Pochi istanti dopo, pallido come un cencio, mise giù il libro ed esclamò: "Mio Dio! Sono diventato idiota. La salute è tornata ma ho perduto il cervello. Non riesco a comprendere due versi in fila di un poema in inglese". Convocò poi i familiari e senza dir niente diede loro il libro, chiedendo il loro parere sul poema; e mentre l'ombra della perplessità si stendeva sui loro volti, tirò un sospiro di sollievo e si accinse a dormire.—Robert Browning, cap. II

Ecco, Browning lo consideravano tutti così, come uno che non si faceva capire. Chesterton dice che è il contrario: dice che per Browning era talmente chiaro quel che voleva dire che, se uno in qualche modo non ci entrava in dialogo, di sicuro non poteva capirlo. 

Se uno decide di leggere Chesterton entrandoci in dialogo, scopre che Chesterton, rispetto ad altri, ha una capacità incomparabile di fare compagnia. 

Per quel che vedo io, la maggiore eredità di Chesterton è questa: la sua capacità di fare compagnia in un mondo sempre più squilibrato, moralista, serioso e piagnone. Se uno lo legge non in maniera utilitaristica e basta, comincia ad accorgersi che Chesterton è veramente un compagno e un amico con cui fare il viaggio su questa terra evitando di diventare squilibrati, moralisti, seriosi e piagnoni, cioè evitando di farsi trascinare dalle correnti dominanti. 

Spero che non sembri patetico perché non lo è. Tutti abbiamo bisogno di compagnia, perché siamo creature relazionali, e deve essere una compagnia concreta, materiale, di persone e cose; ma ci vuole anche qualcuno e qualcosa che ci tiri fuori da noi stessi, altrimenti rischiamo di guardare la compagnia che abbiamo vicino come qualcosa di scontato, che non fa più meraviglia, qualcosa di cui appropriamo e che non ci interessa più. Questo genere di compagnia lo può fare anche uno scrittore. 

Chesterton era capace di far compagnia in vita e resta capace di farlo anche ora perché aveva una grandissimo amore per l'uomo, per ogni uomo, che gli fosse vicino o no, conosciuto di persona o no. 

Io questa cosa l'avrei chiamata tenerezza; anche sotto quel giudizio durissimo sui suicidi (in Ortodossia), in fondo c'è un materasso di tenerezza. Qualche giorno fa, però ho scoperto un saggio che Belloc scrisse nel 1940 sul posto di Gilbert Chesterton nella cultura inglese e lui ha dato ha questa cosa un nome e un cognome precisi: la chiama la virtù della carità cristiana. 

Il saggio ha un'introduzione e sei punti, l'ultimo è proprio questo della carità come virtù dominante di GKC. Chesterton aveva un così grande amore per le persone che l'aveva fatto diventare una virtù; perché le virtù non sono qualcosa con cui nasci, le virtù si coltivano. La virtù dominante di Chesterton, dice Belloc, era la carità cristiana. Tutti lo consideravano un amico, perché percepivano questo. Addirittura racconta di quando in America un uomo gli disse che, appena saputo della morte di GKC, aveva provato un colpo come quando perdi una persona che conosci bene e che frequenti ogni giorno; eppure era uno che sicuramente non l'aveva mai incontrato di persona.  

Secondo Belloc, dal punto di vista letterario e secolare questa carità aveva diminuito la fama e l'influenza che Chesterton avrebbe potuto avere; addirittura ipotizzava che potesse comprometterne la sopravvivenza su carta, cioè nella lettura. A quel tempo forse non aveva neanche tutti i torti; però è stato disposto altrimenti, a quanto pare. 

Dal punto di vista della battaglia culturale nella società di allora, diceva Belloc, tanta carità era un po' un ostacolo: Chesterton era così caritatevole che non aveva nemici e non odiava nessuno, il che era ottimo per la vita eterna (a cui entrambi comunque tenevano più che ad ogni altra cosa) ma non lasciava ai lettori armi e adrenalina per combattere, come invece facevano scrittori più satirici o ironici. 

Oggi sembra che la battaglia sia la stessa. In un certo senso lo è; per certi versi noi europei siamo fermi spiritualmente da un secolo e mezzo. 

Oggi però le armi devono cambiare. Perché, anche se siamo fermi spiritualmente, tecnicamente siamo tutti più scaltriti  di allora. Quello che cento o duecento anni fa poteva essere un attacco tagliente o anche feroce in termini linguistici o comunicativi, oggi è diventato o la normalità o comunque qualcosa di già conosciuto. Siamo sempre più meccanici e astratti, però siamo sempre più scaltriti. 

Questo lascia spazio a una cosa sola: se ci fate caso, il 95% delle volte che c'è uno scambio di opinioni, un botta-e-risposta, è per far polemica, nel senso cattivo del termine: ti attacco perché tu sei nell'errore e voglio distruggere te insieme al tuo errore. Non so voi, ma io di polemica ne ho fino a qui; e anche tanta altra gente. È giusto dire che un errore è un errore, ma non bisogna mai attaccare la persona che sbaglia, solo l'errore che commette, come diceva sant'Agostino: "Odio il peccato e amo il peccatore".  

Ebbene, Chesterton è un compagno impareggiabile in questo, perché odiava il peccato (o l'errore) e amava il peccatore e si vede. 

In più affrontava problemi spiritualmente simili ai nostri, anche se tecnicamente diversi. Pensate solo all'efficientismo di oggi e all'articolo in cui Chesterton fa l'elogio dello starsene a poltrire a letto; paradossalmente forse, io poltrisco di meno dopo averlo letto, ma poltrisco meglio e non mi vergogno di passare dieci minuti a osservare una nuvola bellissima e di chiamare qualcuno perché venga a vederla con me. Prima sì. Il mio cambiamento non è solo merito di Chesterton, però lui c'entra parecchio. 

La sua carità cristiana la riversava in ciò che scriveva, per questo ognuno lo sentiva amico. Non feriva nessuno e non offriva armi per farlo, d'accordo; ma oggi sentiamo innanzitutto il bisogno di carità, di essere guardati con carità e quindi, per quel che mi è dato di capire,  la carità diventa più attraente rispetto, per esempio, all'iper-assertività di Belloc o alla bellicosità di altri. 

Molti combattono perché lo ritengono necessario; ma a nessuno, temo, pare possibile combattere con carità, nel senso di combattere ed essere caritatevoli nello stesso tempo. Abbiamo un po' l'idea che per vincere, o anche solo per combattere, bisogna "metterla giù dura". Poi però leggiamo Chesterton e capiamo che invece è proprio possibile combattere ed essere caritatevoli al punto da non aver nemici – cosa che in qualunque altro caso sarebbe un pessimo segnale, mentre nel caso di Gilbert è il segno di un dono particolare. 

E pian piano, anche leggendo solo due pagine al giorno, ma leggendole in dialogo, uno può cominciare a imparare quel modo caritatevole di guardare e trattare le persone che incontra. Questa non sarà forse la sola ma è la maggiore eredità che io vedo e che trattengo. 


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