L’arcivescovo di Kirkuk chiede all’Occidente di accogliere e integrare coloro che sono stati costretti a fuggire, ma al tempo stesso di dare un concreto aiuto a quanti hanno deciso di restare. Da AsiaNews.
L’Occidente deve accogliere ed offrire integrazione ai cristiani iracheni che hanno lasciato il loro Paese, ma al tempo stesso deve fare pressioni politiche su Stati Uniti e governo di Baghdad per fare in modo che coloro che decidono di restare in patria possano farlo in sicurezza e rispettati. I cristiani d’Iraq sono infatti una ricchezza della Chiesa universale e non vanno dimenticati, né abbandonati, di fronte al progetto di totale islamizzazione del Paese dei due fiumi, portato avanti dagli estremisti. E’ l’appello che mons. Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, ha lanciato da Friburgo, in Svizzera, nel corso di una conferenza tenuta all’università, della quale proponiamo i passaggi principali.
I cristiani di occidente debbono prendere coscienza della gravità della tragedia dei cristiani iracheni. Essi sono i più antichi abitanti del Paese e parte significativa della sua cultura. Ma spesso sono vittime di violenze che li colpiscono in quanto cristiani.
I cristiani iracheni si sentono soli, isolati e dimenticati. Non hanno fiducia in un avvenire sicuro di fronte al grande silenzio della comunità internazionale e della stessa Chiesa, a parte il Papa ed alcuni vescovi europei. E’ evidente che molti non sanno nulla dei cristiani d’Oriente e dimenticano che sono all’origine della cristianità.
Appena 30 anni fa, eravamo il 5% della popolazione, oggi siamo meno del 3%. La caduta del regime e l’invasione americana hanno creato una situazione molto instabile: il Paese è divenuto terreno d’azione dei terroristi. La classe culturale è dispersa. Dal 2006 la situazione è ancora peggiorata. Gli estremisti – i capi dei quali sono stranieri – hanno evidenziato l’obiettivo finale di creare uno Stato islamico. Chiamano alla Jihad, sostengono e incoraggiano la violenza, la cintura esplosiva è divenuta una via diretta per il Cielo. Gli attacchi contro le chiese, il rapimento di sacerdoti a Baghdad e Mosul, l’uccisione di tre sacerdoti, di due sotto-diaconi e dell’arcivescovo caldeo di Mosul hanno completamente distrutto la fiducia di molti cristiani.
L’esodo dei cristiani si colloca in questo contesto. Ci sono 100mila rifugiati in Siria, 30mila in Giordania, molte migliaia in Libano, Egitto e Turchia. Sanno che il loro soggiorni non può essere che provvisorio e la prospettiva del ritorno a casa sembra un sogno. Sono disperati. Molti altri, soprattutto i più poveri, si rifugiano nella regione curda, a nord, che erano stati costretti ad abbandonare dal regime di Saddam. Il governo curdo, grazie alla preoccupazione del ministro delle Finanza, che è un cristiano, ha ricostruito le loro case nei loro villaggi, ma mancano di strutture sanitarie, scuole e lavoro. Nei villaggi della piana di Ninive vivono 7mila famiglie emigrate da Mosul, Baghdad, Bassora. L’affitto è caro, molti giovani non possono frequentare le scuole o l’università.
Allora, che fare? Mettere in opera con molta pubblicità un piano di accoglienza per i cristiani avrebbe effetti perversi su coloro che vogliono restare. Chi se ne va indebolisce coloro che restano e dà un argomento ulteriore agli islamisti per fare pressioni a lasciare il Paese, perché noi abbiamo un rifugio. Incoraggiare in questo modo l’emigrazione vuol dire svuotare l’Iraq e forse l’Oriente dei suoi cristiani. E’ privare il Paese di questo elemento specifico di spiritualità, di aperture e di capacità di dialogo.
L’aiuto diplomatico e politico dell’Occidente deve concentrarsi sugli Stati Uniti e il governo iracheno ed anche sugli Stati che danno sostegno ala islamizzazione dell’Iraq, per far rispettare la dignità delle persone e le libertà fondamentali e per fermare le persecuzione e la pulizia etnica.
Quanto alle famiglie già emigrate in Europa, c’è il dovere di integrarle e di legalizzare la loro permanenza. Per coloro che sono rifugiati nei Paesi confinanti, andrebbero accolte le famiglie davvero minacciate o quelle che hanno parenti già residenti in Occidente, gli altri andrebbero aiutati ad andare nelle città nelle quali la sicurezza è garantita, per esempio il nord dell’Iraq.
Le Chiesa di Occidente ci debbono aiutare, credo che attualmente solo la Chiesa può fare qualche cosa, aiutandoci non solo a parole, ma concretamente per restare nel nostro Paese. La priorità va data all’apertura di scuole e istituti professionali, anche di infermieri, alla messa in opera di piccoli progetti agricoli e di organizzazioni economiche e sanitarie. Ciò produrrà sicuramente lavoro, perché possano nutrire la speranza di poter restare.
I cristiani di occidente debbono prendere coscienza della gravità della tragedia dei cristiani iracheni. Essi sono i più antichi abitanti del Paese e parte significativa della sua cultura. Ma spesso sono vittime di violenze che li colpiscono in quanto cristiani.
I cristiani iracheni si sentono soli, isolati e dimenticati. Non hanno fiducia in un avvenire sicuro di fronte al grande silenzio della comunità internazionale e della stessa Chiesa, a parte il Papa ed alcuni vescovi europei. E’ evidente che molti non sanno nulla dei cristiani d’Oriente e dimenticano che sono all’origine della cristianità.
Appena 30 anni fa, eravamo il 5% della popolazione, oggi siamo meno del 3%. La caduta del regime e l’invasione americana hanno creato una situazione molto instabile: il Paese è divenuto terreno d’azione dei terroristi. La classe culturale è dispersa. Dal 2006 la situazione è ancora peggiorata. Gli estremisti – i capi dei quali sono stranieri – hanno evidenziato l’obiettivo finale di creare uno Stato islamico. Chiamano alla Jihad, sostengono e incoraggiano la violenza, la cintura esplosiva è divenuta una via diretta per il Cielo. Gli attacchi contro le chiese, il rapimento di sacerdoti a Baghdad e Mosul, l’uccisione di tre sacerdoti, di due sotto-diaconi e dell’arcivescovo caldeo di Mosul hanno completamente distrutto la fiducia di molti cristiani.
L’esodo dei cristiani si colloca in questo contesto. Ci sono 100mila rifugiati in Siria, 30mila in Giordania, molte migliaia in Libano, Egitto e Turchia. Sanno che il loro soggiorni non può essere che provvisorio e la prospettiva del ritorno a casa sembra un sogno. Sono disperati. Molti altri, soprattutto i più poveri, si rifugiano nella regione curda, a nord, che erano stati costretti ad abbandonare dal regime di Saddam. Il governo curdo, grazie alla preoccupazione del ministro delle Finanza, che è un cristiano, ha ricostruito le loro case nei loro villaggi, ma mancano di strutture sanitarie, scuole e lavoro. Nei villaggi della piana di Ninive vivono 7mila famiglie emigrate da Mosul, Baghdad, Bassora. L’affitto è caro, molti giovani non possono frequentare le scuole o l’università.
Allora, che fare? Mettere in opera con molta pubblicità un piano di accoglienza per i cristiani avrebbe effetti perversi su coloro che vogliono restare. Chi se ne va indebolisce coloro che restano e dà un argomento ulteriore agli islamisti per fare pressioni a lasciare il Paese, perché noi abbiamo un rifugio. Incoraggiare in questo modo l’emigrazione vuol dire svuotare l’Iraq e forse l’Oriente dei suoi cristiani. E’ privare il Paese di questo elemento specifico di spiritualità, di aperture e di capacità di dialogo.
L’aiuto diplomatico e politico dell’Occidente deve concentrarsi sugli Stati Uniti e il governo iracheno ed anche sugli Stati che danno sostegno ala islamizzazione dell’Iraq, per far rispettare la dignità delle persone e le libertà fondamentali e per fermare le persecuzione e la pulizia etnica.
Quanto alle famiglie già emigrate in Europa, c’è il dovere di integrarle e di legalizzare la loro permanenza. Per coloro che sono rifugiati nei Paesi confinanti, andrebbero accolte le famiglie davvero minacciate o quelle che hanno parenti già residenti in Occidente, gli altri andrebbero aiutati ad andare nelle città nelle quali la sicurezza è garantita, per esempio il nord dell’Iraq.
Le Chiesa di Occidente ci debbono aiutare, credo che attualmente solo la Chiesa può fare qualche cosa, aiutandoci non solo a parole, ma concretamente per restare nel nostro Paese. La priorità va data all’apertura di scuole e istituti professionali, anche di infermieri, alla messa in opera di piccoli progetti agricoli e di organizzazioni economiche e sanitarie. Ciò produrrà sicuramente lavoro, perché possano nutrire la speranza di poter restare.
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