dell'amico Paolo Pegoraro
Gilbert Keith Chesterton aveva 48 anni quando si convertì alla Chiesa di Roma. Il fratello Cecil e alcuni amici erano approdati al cattolicesimo parecchi anni prima; e qualcuno, proprio grazie alle opere di Gilbert. Cosa, allora, lo trattenne così a lungo? Fu, in buona parte, per il debito di gratitudine verso la moglie Frances. Chesterton, racconterà nella sua Autobiografia, si formò in un contesto di rispettabilità atea. Anche i genitori, nonostante l'adesione al culto unitariano, erano scettici nei confronti del soprannaturale. Non che questo potesse impedire al ventenne Gilbert di sperimentare "la solidità oggettiva del peccato": attacchi depressivi, un'ossessione morbosa per l'iconografia del male, compagni di college che negavano la distinzione tra giusto e sbagliato, la deriva spiritistica e l'impiego per alcuni mesi in una casa editrice specializzata in occultismo andavano formando in lui una concezione della vita tutt'altro che attraente. Il biennio 1894-95 fu particolarmente cupo. Chesterton cercò di arginare questa "congestione dell'immaginazione" con la sua peculiare dottrina del ringraziamento, secondo la quale qualsiasi cosa era migliore del nulla. Ai suoi occhi era, però, una palese compensazione: "Chiamavo me stesso ottimista, perché mi trovavo così orribilmente vicino ad essere pessimista".
L'aiuto più solido e duraturo per uscire da quella situazione di stallo gli venne dall'esterno: nell'autunno 1896 conobbe la sua futura moglie, Frances Blogg. Fu amore a prima vista. Frances era una fervente anglocattolica e Gilbert le fu eternamente grato per averlo traghettato dall'unitarianesimo alla Chiesa d'Inghilterra. Scoprì così che la sua rabberciata "filosofia del ringraziamento" era già stata sistematizzata in secoli di cristianesimo. Fu grazie a padre John O'Connor, però, che Gilbert conobbe la peculiarità della Chiesa cattolica: era l'unica religione che osasse scendere con lui fino al fondo di se stesso.
Il cattolicesimo ne sapeva più di lui non solo intorno al bene, ma perfino intorno al male. E quando, dopo la conversione, gli verrà chiesto perché fosse passato alla Chiesa di Roma, Chesterton risponderà che "non v'è nessun altro sistema religioso che dichiari "veramente" di liberare la gente dai peccati".
Il confronto con la Chiesa cattolica si fece più serrato intorno al 1910: Gilbert cominciava a manifestare il desiderio di entrarvi formalmente e suo fratello Cecil compì il passo un paio di anni dopo. A trattenere Gilbert fino al 1922, come egli confidò, fu proprio il timore di ferire profondamente Frances, pregiudicando ai suoi occhi l'anglocattolicesimo come "qualcosa d'insufficiente". D'altra parte, Chesterton covava ancora incertezze dottrinali. Il suo atteggiamento nei confronti della fede era una simpatia prevalentemente sentimentale, come notò Hilaire Belloc. La conversione di una mente prodigiosa come la sua doveva infilarsi in una strettoia necessaria, la consapevolezza di non vivere tra credi tutti uguali in un cosmo indifferente: "Il punto non è davvero cosa un uomo sia costretto a credere, bensì che cosa debba credere; che cosa non può fare a meno di credere".
Acquisire sempre maggiore chiarezza gli richiese tempo e studio. Si tuffò negli scritti di John Henry Newman e di san Tommaso d'Aquino. Sulle sue labbra non fu uno slogan affermare che "diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo". Fu una vera fatica intellettuale, che paragonò allo studio di teoremi matematici; quando ne riemerse - sempre secondo Belloc - era "un architetto della certezza". Nel 1922, infine, lacerato tra l'obbligo morale a riconoscere la verità e l'amore per la moglie, Chesterton chiese a padre O'Connor di sondare il terreno. Saputo che Frances ne sarebbe stata sollevata si fece battezzare quattro giorni dopo. Frances lo avrebbe seguito il primo novembre 1926. L'anno seguente sarebbero comparsi The Catholic Church and Conversion e il quarto volume del ciclo di padre Brown, dedicato proprio a padre O'Connor, dove più nettamente il protagonista compare per quello che è: un sacerdote cattolico.
La prima opera nella quale Chesterton racconta le ragioni della sua svolta, torna ora nelle mani del lettore italiano - per la prima volta con una traduzione integrale - con il titolo La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento (Torino, Lindau, 2010, pagine 128, euro 13) e una bella prefazione di Marco Sermarini, presidente della Società chestertoniana italiana. Particolarmente interessanti le pagine nelle quali Chesterton descrive le grandi "stagioni esistenziali" della conversione. Dopo aver messo in dubbio i luoghi comuni disseminati da secoli di propaganda e aver constatato sulla base dell'esperienza la verità del cattolicesimo, cominciò per Gilbert la fase "più vera e terribile", quella in cui cercò di sottrarsi alla conversione. In quell'ultimo periodo tutto appariva ristretto, visto come attraverso una feritoia. Eppure, una volta entratovi, Chesterton constatò che "la Chiesa è molto più grande dentro che fuori", niente meno che "un continente" con dentro "tutto, persino le cose che si rivoltano contro".
Nella Chiesa di Roma lo scrittore inglese riconobbe l'interezza, opposta a questo o quel singolo dogma cavalcato fino allo sfinimento, e la lungimirante sapienza, che permette all'uomo di sottrarsi a mode intellettuali che si danno il cambio ogni 30 o 40 anni, e si rivelano essere solo vecchi errori. In confronto alla Chiesa di Roma niente gli appariva altrettanto ampio, niente così nuovo e familiare: era come "se un uomo trovasse il suo salotto e il suo focolare nel cuore della Grande Piramide". Dove andrei ora - si chiede infine Chesterton - se abbandonassi la Chiesa cattolica? L'unica alternativa sarebbe stata tornare al paganesimo: fuggire nei boschi gridando "che quella particolare vetta alpina o albero in fiore è sacro e va venerato". Una fatica inutile, insomma. Sarebbe equivalso soltanto a ricominciare tutto daccapo, come redarguisce l’antico adagio popolare: tutte le strade, prima o poi, conducono a Roma.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 aprile 2010)
Il cattolicesimo ne sapeva più di lui non solo intorno al bene, ma perfino intorno al male. E quando, dopo la conversione, gli verrà chiesto perché fosse passato alla Chiesa di Roma, Chesterton risponderà che "non v'è nessun altro sistema religioso che dichiari "veramente" di liberare la gente dai peccati".
Il confronto con la Chiesa cattolica si fece più serrato intorno al 1910: Gilbert cominciava a manifestare il desiderio di entrarvi formalmente e suo fratello Cecil compì il passo un paio di anni dopo. A trattenere Gilbert fino al 1922, come egli confidò, fu proprio il timore di ferire profondamente Frances, pregiudicando ai suoi occhi l'anglocattolicesimo come "qualcosa d'insufficiente". D'altra parte, Chesterton covava ancora incertezze dottrinali. Il suo atteggiamento nei confronti della fede era una simpatia prevalentemente sentimentale, come notò Hilaire Belloc. La conversione di una mente prodigiosa come la sua doveva infilarsi in una strettoia necessaria, la consapevolezza di non vivere tra credi tutti uguali in un cosmo indifferente: "Il punto non è davvero cosa un uomo sia costretto a credere, bensì che cosa debba credere; che cosa non può fare a meno di credere".
Acquisire sempre maggiore chiarezza gli richiese tempo e studio. Si tuffò negli scritti di John Henry Newman e di san Tommaso d'Aquino. Sulle sue labbra non fu uno slogan affermare che "diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo". Fu una vera fatica intellettuale, che paragonò allo studio di teoremi matematici; quando ne riemerse - sempre secondo Belloc - era "un architetto della certezza". Nel 1922, infine, lacerato tra l'obbligo morale a riconoscere la verità e l'amore per la moglie, Chesterton chiese a padre O'Connor di sondare il terreno. Saputo che Frances ne sarebbe stata sollevata si fece battezzare quattro giorni dopo. Frances lo avrebbe seguito il primo novembre 1926. L'anno seguente sarebbero comparsi The Catholic Church and Conversion e il quarto volume del ciclo di padre Brown, dedicato proprio a padre O'Connor, dove più nettamente il protagonista compare per quello che è: un sacerdote cattolico.
La prima opera nella quale Chesterton racconta le ragioni della sua svolta, torna ora nelle mani del lettore italiano - per la prima volta con una traduzione integrale - con il titolo La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento (Torino, Lindau, 2010, pagine 128, euro 13) e una bella prefazione di Marco Sermarini, presidente della Società chestertoniana italiana. Particolarmente interessanti le pagine nelle quali Chesterton descrive le grandi "stagioni esistenziali" della conversione. Dopo aver messo in dubbio i luoghi comuni disseminati da secoli di propaganda e aver constatato sulla base dell'esperienza la verità del cattolicesimo, cominciò per Gilbert la fase "più vera e terribile", quella in cui cercò di sottrarsi alla conversione. In quell'ultimo periodo tutto appariva ristretto, visto come attraverso una feritoia. Eppure, una volta entratovi, Chesterton constatò che "la Chiesa è molto più grande dentro che fuori", niente meno che "un continente" con dentro "tutto, persino le cose che si rivoltano contro".
Nella Chiesa di Roma lo scrittore inglese riconobbe l'interezza, opposta a questo o quel singolo dogma cavalcato fino allo sfinimento, e la lungimirante sapienza, che permette all'uomo di sottrarsi a mode intellettuali che si danno il cambio ogni 30 o 40 anni, e si rivelano essere solo vecchi errori. In confronto alla Chiesa di Roma niente gli appariva altrettanto ampio, niente così nuovo e familiare: era come "se un uomo trovasse il suo salotto e il suo focolare nel cuore della Grande Piramide". Dove andrei ora - si chiede infine Chesterton - se abbandonassi la Chiesa cattolica? L'unica alternativa sarebbe stata tornare al paganesimo: fuggire nei boschi gridando "che quella particolare vetta alpina o albero in fiore è sacro e va venerato". Una fatica inutile, insomma. Sarebbe equivalso soltanto a ricominciare tutto daccapo, come redarguisce l’antico adagio popolare: tutte le strade, prima o poi, conducono a Roma.
(©L'Osservatore Romano - 12-13 aprile 2010)
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