«Bisogna tornare alle cose», diceva Husserl. A modo suo, aveva ragione, c'è una realtà oggettiva a monte del pensiero, c'è un collegamento tra il fenomeno dell'oggetto e l'oggetto pensato (noumeno platonico). E però c'è un modo sbagliato di tornare alle cose. Posso impazzire davanti a uno schermo. L'atomo è anonimo e non lo posso afferrare. Bere troppo fa male. La serata in discoteca si può trasformare in delitto. C'è la luce, ma anche l'accecamento. C'è la musica, ma anche il rumore.
Bisogna tornare alle cose, ma a quelle «antiche e universali», care a Gilbert Keith Chesterton e che Fabio Trevisan, nel libro Quella cara vecchia pipa. Le piccole cose, le canzoni, le favole e la tradizione in Gilbert Keith Chesterton (Fede & Cultura, 2014, pp. 192, euro 16,00) vuole rimettere al loro posto, dopo essere state deposte o seppellite da mani e menti sgraziate. Non solo, ma l'accesso all'oggetto pensato non ha senso alcuno, se è «superbo», se non è veicolato dall'«uomo comune» chestertoniano, se è un pretesto alla «pretesa razionalistica dell'esegeta moderno».
L'ORIGINE E LA CONCLUSIONE La «cosa» di Chesterton e di Trevisan non è la «cosa» di Husserl, non è 'qualsiasi' cosa. È «il coltello», o «il fuoco sul camino», poiché essi danno un continuo rimando al «valore delle cose», alla «sacralità della vita». Le cose che rivelano concretamente «i contorni precisi del pensiero» non sono le lavatrici fatte in serie o i guanti usa e getta: sono invece «le vecchie pipe, i bastoni, gli ombrelli, i vasi di porcellana, i romanzi d'appendice, le canzonette». Ci sono però anche un paio di altri motivi per cui una vecchia pipa è da preferire alla lavatrice. La vecchia pipa ha uno statuto ontologico «universale», così come il formaggio o il pane. La vecchia pipa, inoltre, è «vecchia», poiché proviene «da una umile e divina origine». Anche il formaggio e il pane, benché freschi, sono «vecchi» quanto la pipa. Derivano dalla notte dei tempi e viaggiano verso la consumazione degli anni.
Chesterton, proprio a motivo d'intuizioni così notevoli, scruta e coglie l'intima realtà metafisica del Tutto, secondo le categorie aristoteliche. La «cosa» di Aristotele, infatti, è l'effetto di quattro cause, delle quali le più importanti sono le ultime due: la causa efficiente e la causa finale, l'Origine e la Conclusione. E su queste Chesterton dipana con sapienza la sua metafisica.
Nitidezza, dunque – cose dai «contorni precisi». Con i suoi gessetti, Chesterton disegnava, ma non al modo degli impressionisti. I contorni dei suoi oggetti sono sempre ben delimitati, mai indistinti. Perché? Perché lo scrittore inglese si accorge che tutto il reale è rifinito, intelligibile, nominabile. Egli fa parte di coloro i quali constatano che pure la nebbia è rifinita, nel momento in cui la distinguo e la conosco. Dio dà le cose complete, non le dà circa, non le dà pressappoco. Intuire ciò significa possedere acutezza filosofica, introspezione divina.
"TEOLOGIA DEL DUBBIO" Il Chesterton di Trevisan, allora, torna alle cose, ma ci torna senza fermarsi al fenomeno o, comunque, trattando il fenomeno da porta che si apre, non da cancello che si fa barriera. Vengono recuperate le cose, nella loro verità, rifinite, vecchie (ma per questo nuove come il formaggio fresco), universali (ma aristotelicamente individuate in enti perfettamente definibili).
Non solo sono delineate le essenze, ma la stessa morale cristiana che, per Chesterton, è «fortemente delineata, caratterizzata, vigorosa». È, anzi, possibile raffigurare questa morale, così come le fiabe o le favole raffigurano il male e il bene, ad esempio, con il mostro o l'unicorno. L'uomo moderno – scrive Trevisan – creatore di ben altri mostri (comunismo, totalitarismi), ha ridotto tutto questo bestiario a «travestimento meschino e farsesco, adatto per i balli mascherati». Sotto questa mannaia è caduto, tra altri, il grifone medievale, sintesi sacra del leone di San Marco (incarnazione della «generosità, del valore, della vittoria») e dell'aquila di San Giovanni (incarnazione della «verità, del desiderio, della libertà intellettuale»).
Si tratta, nel caso delle bestie del mito, della raffigurazione delle virtù, ovvero della parte più nobile della morale. L'unicorno le raccoglie tutte ed è il simbolo del «sublime valore della virtù cristiana nella sua terribile bianchezza». Per l'uomo medievale, la castità – osserva l'autore – è rintracciabile nell'unicorno, come la carità lo è nel pellicano. E a queste figure possenti, reali nella realtà del mito, l'uomo moderno ha sostituito ben poca cosa: «forme sempre più languide e flaccide, a testimonianza di una teologia del dubbio sempre più pervasiva». Laddove la moderna «teologia del dubbio» scaturisce soprattutto dal corpo ecclesiale, indaffarato tra «Cortili dei Gentili» e «cristianesimo adulto».
Chesterton intuì che il suo mondo contemporaneo, prima ancora di essere ateo, era impazzito. Egli scrive, difatti, che «ciò che va perduto in una tale società non è tanto la fede quanto la ragione». Non solo, ma rincara: «Non credevamo che i razionalisti fossero così completamente pazzi fino a quando loro stessi non ce lo hanno chiarito così bene». E intravvede che è solo la fede in grado d'illuminare una ragione tramortita dalle suggestioni del suo (e del nostro) tempo. Per questo Chesterton considera la fede – scrive Trevisan – «un faro nella notte», così come c'insegnano i santi.
CON LA DIFESA DEL TEATRINO SI DIFENDE LA REALTÀ Ma la metafisica chestertoniana va persino oltre queste considerazioni. Se le cose sono rifinite e delimitate, allora nel mistero dell'essere non può non comparire il concetto di «limite». L'arte è «limitata» quando il quadro finisce nella cornice. O quando il teatrino familiare, a lui caro dai tempi dell'infanzia, si riduce al piccolo palcoscenico, racchiuso dal sipario. In altre parole, «sta nel piccolo la radice di ogni cosa grande» – osserva Trevisan. Qua – nel piccolo spazio – si consuma quella che si potrebbe chiamare l'«intuizione immediata dell'essere», che altro non significa se non percepire immediatamente che «una bambola non è un bambino» e che «la statua di un angelo non è un angelo» (nota di Chesterton).
Ancora una volta la modernità stravolge il reale: scompaiono i teatrini e le grandi città si riempiono d'insegne al neon. Il bambino, soprattutto, è sconvolto e nasce in lui uno «spirito inquieto e triste». Si giunge al paradosso: «Il teatro-giocattolo – scrive Chesterton – mostrava al bambino piccole immagini di cose grandi, mentre le insegne delle città oggi gli mostrano grandi immagini di cose piccole». Scompare, in tal modo, la fiaba, il racconto davanti al focolare, la meraviglia tramandata di padre in figlio. E scompare, del pari, l'essenza stessa delle cose.
Con la rottura del «rapporto religioso e mistico con le cose», con la scomparsa della «sacralità domestica» (della casa, come luogo della famiglia), delle cose piccole, universali e antiche, nonché con la sostituzione del «fare» col «produrre», si nega dunque la realtà medesima. La quale realtà, dal momento che non può cessare di esistere, può però venire mal percepita e male utilizzata ed essere causa non di salvezza, ma di dolore per l'uomo, quando non di morte.
Proprio a seguito di questo suo pensiero, Chesterton appoggiò la dottrina economica del Distributismo, a difesa della piccola proprietà privata, allo scopo di realizzare della Dottrina sociale della Chiesa, nata – come disciplina – con la Rerum Novarum di Leone XIII (1891). La proprietà privata domestica, secondo l'Enciclica, doveva essere difesa tanto dalle ideologie socialiste, quanto dal capitalismo disumano e accentratore di ricchezza. Questo voleva Chesterton: difendere la piccola vecchia pipa, l'ombrello, il temperino, perché solo tramite essi – ora lo si capisce – le cose restano cose e la vita resta vita.
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