lunedì 4 aprile 2011

Andrea Monda su Greene (e naturalmente Andreone ci mette dentro anche Gilbert...)


Pubblicato su La Bussola Quotidiana di sabato scorso. Racconta anche del successo di pubblico e del disinteresse della critica, e della sua conversione attraverso la lettura delle opere di Chesterton, al quale è accomunato dalla scelta del racconto poliziesco per declinare la propria riconquista della fede cattolica.

Maria Grazia Gotti


Graham Greene, il giallo di uno scrittore ignorato
di Andrea Monda - La Bussola Quotidiana

2 aprile 2011

All'inizio de Il nocciolo della questione, per alcuni critici il suo capolavoro, il romanziere inglese Graham Greene cita una frase del poeta francese Charles Pèguy: “Al cuore stesso della cristianità nessuno è così competente come il peccatore in materia di cristianità. Nessuno se non il santo”.
In effetti questa affermazione insieme alla definizione di Flannery O'Connor per cui ogni romanzo racconta l'opera della Grazia in un territorio occupato prevalentemente dal diavolo potrebbe essere il “manifesto” della poetica di uno scrittore come Graham Greene, grande romanziere e grande peccatore.
La forza della sua narrativa si poggia tutta sulla frizione incandescente che avviene nel cuore dell’uomo tra peccato e santità, e quindi sul mistero della Grazia; in quest’ottica allora è vero che, come osserva la scrittrice americana, il peccato e anche diavolo diventano in qualche modo “una necessità drammatica dello scrittore”, del resto “il mistero dell’esistenza è in parte peccato” e “la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa”. Nei suoi romanzi ricchi di avventura e di esotismo, Greene non ha disdegnato di “impolverarsi” e ha offerto al lettore, con dolente sincerità, il suo sguardo sull’uomo; uno sguardo offerto con il gusto dell’ironia e del paradosso, ma al tempo stesso molto severo e lucido senza per questo annullare un umanissimo (e quindi cristianissimo) senso di pietà e di compassione, perché è verissimo quanto, con estrema sintesi, ha affermato Charles Moeller nella sua grandiosa opera in cinque volumi su Letteratura moderna e Cristianesimo e cioè che l’intera opera dello scrittore inglese è una glossa alla sentenza evangelica “non giudicare”.
Greene non giudica ma è stato giudicato e, nonostante il grande successo di pubblico (grazie anche alla continua trasposizione cinematografica a cui sono stati sottoposti, a volte anche con la sua collaborazione in fase di scrittura, la maggior parte dei suoi romanzi maggiori), è stato condannato dalla critica alla peggiore di tutte le sorti possibili: l'oblio. Di questo destino Greene ne ha sorriso, considerando più interessanti i giudizi dei lettori rispetto a quelli dei critici, ma viene da chiedere, a venti anni esatti di distanza dalla sua morte, avvenuta il 3 aprile 1991 a Corsier-sur-Vevey in Svizzera, il perché di questo destino.
Probabilmente non è solo il cattolicesimo ad aver nuociuto alla fortuna critica di Greene: egli è innanzitutto “colpevole” per aver commesso un peccato imperdonabile, quello cioè di essersi dedicato per lo più a romanzi di avventura e di spionaggio, di aver scelto il giallo, la spy-story e il thriller come canale della sua fantasia e vena poetica (e il successo cinematografico è apparso come condizione aggravante). Imparentato, da parte di madre, con Robert Luis Stevenson, Greene ha ereditato dal grande romanziere scozzese l’idea della letteratura come narrazione, del romanzo con al centro una storia da raccontare; nel secolo di Joyce e Svevo, Greene rivendica l’importanza di autori come Zane Gray (l’oscuro ma popolarissimo scrittore “western” viene citato come modello ispiratore ne Il terzo uomo dal protagonista, alter-ego dell’autore, il romanziere Rollo Martins).
Da questo punto di vista il destino di Greene è molto simile a quello di Chesterton. Oltre al fatto biografico che la lettura delle opere del secondo contribuì alla conversione al cattolicesimo del primo, entrambi scelgono la via insolita del racconto poliziesco per declinare la propria riconquista della fede cattolica, anche se in maniera diversa: se Chesterton sceglie la figura del detective, Greene si concentra sul personaggio della spia; se il primo inventa padre Brown, il prete che scova il criminale per perdonarlo, il secondo si cimenta per lo più con squallidi agenti segreti per raccontare gli abissi della meschinità e della fragilità umana, quel “territorio del diavolo”, ambiente privilegiato dalla Grazia nel suo operare. Se Chesterton sceglierà, nel momento del battesimo cattolico, di chiamarsi Lazzaro, il resuscitato, Greene opterà invece per il nome Tommaso in onore dell’apostolo scettico e incredulo.
Sul binomio fede-incredulità e quello, ad esso collegato, grazia-peccato, si muove tutta la produzione letteraria di Greene, soprattutto quella del periodo migliore, intorno agli anni ’40, che conosce pagine altissime soprattutto nei romanzi così detti “cattolici”: dalla Roccia di Brighton (1938) a La fine dell’avventura (1951) passando per i due capolavori de Il potere e la gloria (1940) e Il nocciolo della questione (1948). Sono molti altri i titoli che si potrebbero citare per un autore prolifico come Greene, da Il terzo uomo a Il fattore umano, da Il nostro agente all'Avana a Un americano tranquillo per non dimenticare i racconti che prossimamente verranno raccolti e pubblicati da Mondadori nella collana de I Meridiani, il giusto tributo ad uno scrittore “colpevole” soltanto di aver regalato infinite ore di felicità ai suoi milioni di lettori.

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