Dal Foglio del 31 dicembre 2008
Diffidare, diffidare, diffidare degli uomini che si proclamano alleati del femminismo. Anzi, delle “femministe”. Tanto più se si chiamano Emile-Etienne Baulieu e sono gli inventori della pillola abortiva Ru486. Sul Foglio del 19 dicembre Annalena Benini aveva raccontato lo scienziato francese tombeur de femmes, oggi preso dall’idea della conquista farmacologica dell’eterna giovinezza, dopo aver firmato negli anni Ottanta la formula dell’aborto chimico fai-da-te. Che il professore, ottantadue anni, continui a meritare la fama di tombeur de femmes, si capisce anche dall’intervista che gli ha dedicato la Repubblica qualche giorno dopo, introdotta da un baciamano alla cronista. Per nulla insospettita, anzi ammirata, dai “pochissimi capelli bianchi” del luminare.
Ma la qualifica di tombeur de femmes si può attagliare a Baulieu anche in un altro e meno giocoso senso. Basta soffermarsi con un po’ di attenzione sulle circostanze dell’invenzione e della resistibile ascesa della Ru486. Una storia un po’ diversa da quella divulgata con accenti epici dal professore, zeppa di veti coraggiosamente infranti, di libertà conquistate, di rivoluzione per le donne di tutto il mondo, che con la Ru486 possono finalmente “scegliere” di abortire nella più perfetta privacy, a Parigi come a Pechino, a Bangalore come a New York.
Non è precisamente così, ma il professor Baulieu ha comunque buoni motivi per rallegrarsi. La sua pillola l’ha fatta ingoiare a tutto il mondo, o quasi, nonostante qualche intoppo iniziale. Ma ora c’è chi vuole guastargli la festa, magari tirando fuori quelle noiose storie di donne morte per la Ru486 (almeno diciassette in occidente, mentre per Asia e Africa i dati non esistono, per definizione). C’è chi rivanga altre storie di donne che alla morte sono andate vicine, salvate per il rotto della cuffia, mezze dissanguate nel bagno di casa o devastate da dolori placati solo dalla morfina. Sono gli “effetti collaterali” dei famosi aborti in perfetta privacy. Ma Baulieu, l’amico delle femministe – che non risulta ne sappiano niente – ci manda a dire che è deluso dall’Italia, dove si vuole “riaprire un dibattito che altrove non esiste più da decenni”.
E’ vero, nulla è più temibile del dibattito – inteso come studio, valutazione e verifica dei fatti e dei dati – per il mito dell’aborto facile. E, a proposito di femminismo, il professore dimentica che furono proprio tre esponenti del movimento delle donne, docenti al Massachusetts Institute of Technology (Renate Klein, Lynette Dumble e Janice Raymond) a descrivere, nel 1991 – molto prima che la Ru486 sbarcasse negli Stati Uniti – la realtà nascosta dietro la leggenda dell’aborto amichevole. Renate Klein, in particolare, che oggi insegna a Canberra, non ha mai abbandonato il fronte anti Ru486, ed essere una convinta pro choice non le ha impedito di combattere lungamente contro l’introduzione dell’aborto chimico in Australia. Battaglia persa, in teoria: il mifepristone (principio attivo della pillola abortiva) è diventato legale nel 2006, dopo un lungo e laborioso confronto che ha coinvolto politica, associazioni, Parlamento. Ma proprio quel dibattito così vasto ha impedito, a tutt’oggi, che si trovasse una sola compagnia farmaceutica disposta a importare e a distribuire la Ru486. Bisogna ricordarsi sempre che la pillola abortiva teme moltissimo l’attenzione e la vigilanza sui suoi effetti indesiderati.
Sono dunque Klein, Dumble e Raymond (nel libro “Ru486. Misconceptions, Myths and Morals”, 1991) a ricordare come già alla fine degli anni Settanta, quando i medici tedeschi cercarono di far approvare l’aborto con le prostaglandine come metodo per le prime settimane di gravidanza (le prostaglandine fanno tuttora parte del protocollo dell’aborto farmacologico con la Ru486: sono la fase due, quella che induce le contrazioni espulsive dell’embrione), ci fu un’insurrezione delle organizzazioni femministe tedesche e svizzere per la salute della donna. Unanimi nel bocciare quel primo, rudimentale e pericolosissimo sistema di aborto chimico.
Una cosa è certa: ci vuole una bella faccia tosta a definire il metodo con la Ru486 come più attento alla privacy, quando richiede dalle tre alle cinque visite in ospedale e in otto-dieci casi su cento (percentuale altissima) non funziona e ha bisogno del raschiamento dell’utero. Ci vuole pure molta faccia tosta a definirlo meno invasivo, quando si sa – se ne è accorta da poco perfino l’Unità, dopo anni di articoli che sostenevano il contrario – che i dolori sono molto più forti (spesso insopportabili) rispetto all’aspirazione o al metodo chirurgico, e quando è altrettanto noto che la donna, dopo la prima pillola di mifepristone e a volte anche dopo quella di prostaglandine, non sa quando l’embrione sarà espulso: se a casa, in ufficio o per strada, se subito, dopo pochi giorni, dopo settimane o mai. Ci vuole moltissima faccia tosta, infine, a parlare della Ru486 come metodo sicuro, viste le conseguenze mortali su almeno diciassette donne occidentali giovani e sane, oltre che in grado di ricevere agevolmente assistenza ospedaliera: rivelatasi inutile, perché nella maggior parte dei casi a ucciderle ci ha pensato un batterio letale e invincibile, il Clostridium sordellii, che a quanto pare ama sinistramente la Ru486.
La verità è che l’aborto farmacologico si è affermato solo dove trovava il favore e l’appoggio dichiarato dei governi e delle corporazioni mediche, disposti a passar sopra a tutto. E, per promuoverlo, non si sono mai scomodate le femministe, in nessuna parte del mondo. Si sono invece molto scomodati un ministro della Sanità francese, il socialista Claude Evin, il presidente americano Bill Clinton, l’intera nomenclatura delle organizzazioni Onu che si occupano di pianificazione familiare. Bandiera sotto la quale Emile-Etienne Baulieu, come rievocano Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella nel loro libro inchiesta sulla Ru486 (“La favola dell’aborto facile”, da cui sono tratte molte delle informazioni contenute in questo articolo), ha sempre militato con entusiasmo.
Giovane endocrinologo di belle speranze e di illustri natali – suo padre, omonimo del politico francese Léon Blum, era stato il primo a trattare il diabete con l’insulina – il giovane Emile-Etienne, diventato Baulieu durante la guerra per sfuggire ai nazisti, fu arruolato alla fine degli anni Sessanta in un network che si occupava di controllo della fertilità. Grazie ai buoni uffici del suo mentore Gregory Pincus, l’inventore della pillola anticoncezionale, per Baulieu arrivarono cospicui finanziamenti, che nel 1970 gli permisero di individuare il recettore del progesterone, l’ormone necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’embrione nell’utero.
Il passo successivo (la sintesi del mifepristone, indicato con il codice Ru38486 poi abbreviato Ru486, cioè della sostanza che blocca la produzione di progesterone e causa la lenta morte in pancia dell’embrione) tocca, dieci anni dopo, al chimico George Teutsch, direttore di ricerca della casa farmaceutica francese Roussel Uclaf. La versione ufficiale è che, mentre si faceva ricerca su un inibitore del cortisolo, casualmente si scoprì che la molecola individuata funzionava anche contro l’ormone della gravidanza. Baulieu, in un sussulto di narcisistica sincerità, ha però voluto in seguito rivendicare la primogenitura: fu lui a suggerire la via della ricerca sull’antiprogesterone come abortivo chimico, anche se la cosa dovette essere mascherata per non incorrere nella censura dei dirigenti della Roussel Uclaf.
I primi test vanno male. Anzi, malissimo, perché da solo il mifepristone fallisce in una percentuale di casi che va dal 54 a 90 per cento, e bisogna troppo spesso ricorrere alla revisione chirurgica dell’utero. Poi, con l’aggiunta della seconda pillola o applicazione vaginale di prostaglandina, nel 1985, si raggiunge una cifra ufficiale (parliamo sempre di piccoli gruppi di donne-cavia) del 94 per cento di “successi”. Abbastanza per convincere la Francia, nel 1987, a avviare l’iter di riconoscimento della Ru486 come sistema abortivo, dopo una sperimentazione più larga. Così, dal primo maggio del 1988 al 30 settembre del 1989, 16.369 donne tra gli undici (avete letto bene, undici) e i quarantotto anni furono ritenute idonee all’aborto chimico. Il tasso finale di efficacia (95,3 per cento dei casi, in ogni caso inferiore al 99 per cento degli altri sistemi) non teneva troppo conto dei molti contrattempi del genere prima descritto (vomito incoercibile, emorragie gravi che almeno per undici donne hanno richiesto trasfusioni, tre collassi, un infarto, perdite ematiche durate fino a due mesi) né della percentuale di donne che ha comunque voluto, dopo l’assunzione delle pillole, l’aborto chirurgico.
La decisione era già stata presa: la Ru486 doveva diventare un’alternativa autorizzata, diffusa e praticabile. Solleva i medici e le strutture opedaliere e consegna la donna alla sua solitaria responsabilità. Peggio per lei se qualcosa va storto. Per gli stessi motivi, la vogliono fortemente anche le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni non governative da esse sostenute. Non è un caso, se a firmare il primo studio scientifico che sdogana l’aborto chimico c’è anche Claude J. Aguillaume, componente del comitato scientifico della Planned Parenthood Federation americana, la più grande Ong che opera nel settore della “salute riproduttiva” e tra i principali partner dell’Unpfa, l’agenzia Onu per la popolazione (anche se meglio sarebbe dire “contro la popolazione”).
Finora, come si vede, di sommosse femministe in favore della Ru486 non se ne registrano. Si registra invece, nel fatale 1989, il nulla osta del ministero della Sanità francese alla distribuzione del prodotto. Ma la Roussel Uclaf fa subito marcia indietro, non solo a causa delle proteste dei pro life. L’azionista di maggioranza della casa farmaceutica è infatti la tedesca Hoechst, per nulla entusiasta all’idea di essere associata all’abortivo chimico. Come scrivono Morresi e Roccella, “la Hoechst ha un motivo storico di imbarazzo sulle questioni etiche: è nata dalla soppressione della I.G. Farben, nota per aver brevettato e prodotto lo Zyklon B, il gas dei campi di sterminio definito il pesticida umano”.
La Roussel Uclaf decide quindi di sospendere la distribuzione del mifepristone. Il 26 ottobre, quando la notizia si diffonde, diecimila fra medici e ricercatori sono riuniti a Rio de Janeiro per un congresso mondiale di ginecologia e ostetricia. C’è pure Baulieu, che sale subito sulle barricate in difesa della sua mostruosa creatura. Duemila medici sottoscrivono la sua petizione in favore della Ru486, e dopo due giorni Claude Evin, ministro della Sanità nel governo Rocard, convoca i vertici della Roussel Uclaf – che appartiene per il 36 per cento allo stato francese – per farli tornare indietro. In quell’occasione, Evin pronuncia una frase degna del più ributtante cinismo politico: “La Ru486 è diventata proprietà morale delle donne”. Lo garantisce il governo francese, che salva la Ru486 con un vero colpo di mano. Come avrebbe in seguito riconosciuto lo stesso Baulieu, Evin doveva in teoria ottenere anche l’approvazione del ministero dell’Industria e affidare la decisione finale a una commissione.
Non sarà così, e la Ru486 sarà rimessa in commercio seduta stante, nella soddisfazione generale: della Roussel Uclaf, rassicurata dalla granitica sponsorizzazione governativa; e del governo-azionista della Ru486, pronto a tutto per promuoverla. E’ anche per questo che la Francia, in occidente, detiene il record mondiale (circa il trenta per cento) degli aborti fatti con la Ru486, che altrove continua a essere poco usata, anche se autorizzata. Il vero business, però, è nei paesi terzi, soprattutto l’India, dove la pillola abortiva non ha restrizioni.
Da allora in poi, la formula sarà sempre la stessa. L’azienda produttrice del mifepristone, che attraverso vari passaggi diventerà l’attuale Exelgyn, non chiederà mai, in nessun paese, la registrazione diretta del prodotto. Saranno invece i governi – nel 1991 quello britannico, nel 1992 quello svedese – a chiedere all’azienda di commercializzare la Ru486 nei rispettivi paesi. Tant’è che in qualche caso, quando la casa farmaceutica non considererà attendibili le garanzie governative – in Cina, per esempio – sarà lei a negare la commercializzazione. La pillola abortiva in Cina è poi arrivata nel 1992, prodotta da aziende locali e direttamente venduta in farmacia. Ma nel 2001 la vendita libera è stata bloccata, e ora la Ru486 si può usare solo in ospedale. Un mistero, in un paese che fa dell’aborto una bandiera e una priorità politica, anche per garantire l’obbligo del figlio unico, e non va troppo per il sottile. Un mistero che può essere interpretato come la conseguenza di un disastro sanitario, di una strage di donne di cui mai sapremo l’entità.
Ed è stata proprio la certezza che l’aborto farmacologico si sarebbe prestato a terribili abusi nei paesi terzi, un elemento decisivo che, fin dall’inizio, ha provocato l’ostilità del movimento femminista contro la Ru486, come testimonia la posizione espressa dal sesto Congresso internazionale per la salute della donna (Filippine, 1990).
Fin da subito apparve chiaro che le condizioni minime di sicurezza per poter abortire con la Ru486 – il suo uso è sconsigliato a chi non abbia un telefono e un mezzo di trasporto, o viva a più di due ore di distanza da un pronto soccorso: è forte il rischio di emorragie, che possono diventare fatali in una situazione di isolamento – non sono certo diffuse tra le donne dei paesi poveri, alle quali invece la Ru486 viene largamente proposta come sistema per abortire. Inutile dire che indagini epidemiologiche da quelle parti non se ne fanno. Qualcuno ha provato a protestare, come il medico indiano S.G. Kabra, che nel 2004 ha rivolto una petizione alle autorità del Rajasthan, nella quale si segnalavano numerose morti di donne che avevano usato la Ru486. Ma tutto poi si inabissa nel silenzio e nella più tragica routine. Alla regola aurea della Ru486 – promossa dai governi o niente – non ha fatto eccezione l’America. Con qualche pittoresco particolare in più, rivelato dopo che la Judicial Watch, un’organizzazione indipendente che si batte per la trasparenza degli atti politici, nel 2006 ha acquisito, grazie al Freedom of Information Act, la documentazione sulle pressioni esercitate dall’Amministrazione Clinton in favore della pillola abortiva, la cui importazione era stata inizialmente bloccata nel 1989 da Bush padre. Quando l’Amministrazione cambia, nel 1993, al terzo giorno dall’insediamento Bill Clinton – praticamente sarà il suo primo atto da presidente – dispone che “negli Stati Uniti si proceda con i test, la licenza e la fabbricazione del mifepristone”. La Roussel Uclaf aveva però forti resistenze a introdurre la pillola abortiva sul mercato americano. A terrorizzarla erano la frequenza delle cause legali in materia sanitaria e la mole dei risarcimenti chiesti alle industrie produttrici, come ammise lo stesso presidente della Roussel, Edouard Sakiz, in un memorandum inviato alla Casa Bianca nel 1993: “Se il governo vuole commercializzare la Ru486 negli Usa, deve essere disposto a compensare la Roussel Uclaf per qualunque danno che la compagnia possa subire dal consenso fornito alla richiesta del governo degli Stati Uniti”.
Clinton quelle garanzie non poteva darle, ma l’aborto era stato un suo cavallo di battaglia elettorale e la Ru486 doveva arrivare in America, a tutti i costi. Convinse così la Roussel Uclaf a regalare il brevetto della Ru486 (cosa che la metteva definitivamente l’azienda al riparo da eventuali cause) al potente Population Council, l’ente non-profit fondato da Rockefeller per promuovere le campagne di controllo demografico nel mondo. Il quale affiderà la produzione della pillola alla Danco (secondo il Washington Post “una delle compagnie più enigmatiche dell’industria farmaceutica”, con sede alle Cayman e partecipazioni della Packard Foundation e di George Soros). La Ru486 deve però ancora avere all’approvazione della Fda, l’ente di controllo sui farmaci, che nonostante la potenza di fuoco messa in campo dal presidente americano, per quattro anni traccheggerà. David Kessler, il commissario della Fda che si occupa della questione, manifesta anzi, in uno dei vari memorandum indirizzati alla Casa Bianca, l’insofferenza per le pressioni subite: “La Fda non può ulteriormente perseguire questo obiettivo senza compromettere il suo ruolo, che è quello di esaminare con obiettività la sicurezza e l’efficacia del farmaco”. Il via libera arriverà comunque nel 2000, e la storia delle anomalie che hanno portato a quell’esito è ancora, in larga parte, da chiarire. Una per tutte: il mifepristone in America fu registato con la procedura dei farmaci salvavita. Come quelli anticancro, o contro l’Aids e la lebbra, per i quali si consente la commercializzazione, anche in presenza di rischiosi e pesanti effetti collaterali, per mancanza di alternative. Ad accentuare il macabro paradosso della Ru486 trattata come farmaco salvavita, c’è il fatto che alcune delle prime morti accertate di donne per aborto chimico, sono emerse proprio negli Stati Uniti (la prima in assoluto fu la francese Nadine Walkowiak, trentunenne, nel 1991).
Di tutto questo è fatta la storia della Ru486 e del suo inventore, uno dei tanti lupi travestiti da nonna di cui è popolata la favola della “salute riproduttiva”. Il corollario italiano è noto. Per avviare la procedura di mutuo riconoscimento europeo, basata su dossier ormai obsoleti, la Exelgyn ci ha pensato molto a lungo e alla fine ha preso il treno, quando era ormai in partenza, del solito governo bendisposto, quello di Romano Prodi premier e di Livia Turco ministro della Salute. L’Aifa ha potuto avviare la pratica, destinata ad approvazione automatica dopo il parere scientifico positivo. Ma la Ru486 deve ancora vedersela con la 194. Per questo pensiamo che il professor Emile-Etienne Baulieu, in molti sensi impenitente tombeur de femmes, faccia bene a preoccuparsi. E’ vero, qui qualcuno vuole ancora discutere della sua pillola, invece di mandarla giù senza fiatare.
© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO
di Nicoletta Tiliacos