Da IlSussidiario.net
lunedì 16 febbraio 2009
Una pellicola datata 2007, gratificata in patria da oltre tre milioni di spettatori e candidata come miglior film in lingua straniera nella scorsa edizione degli Academy Awards, che esce ora nelle sale italiane in 60 copie.
Andrzej Wajda, classe 1926 (è nato il 6 marzo a Suwalki: tra poco meno di tre settimane compirà quindi 83 anni), prolifico sceneggiatore e regista polacco, un’autentica leggenda in patria, non sta certo pensando alla pensione. Nemmeno qualche giorno fa ha presentato in concorso all’edizione 2009 della Berlinale il film Tatarak (2009) – tratto dall’omonimo romanzo del connazionale Jaroslaw Iwaszkiewicz, è la storia della moglie di un vecchio medico che deve fare i conti con un inaspettato amore – e sempre in questa circostanza ha annunciato quella che sarà la sua prossima fatica: un’opera – a partire da uno script di Agnieszka Holland, la regista che già aveva curato per lui la sceneggiatura di Danton (1983) e di Dottor Korczak (1990) – nientemeno che su Lech Walesa, lo storico leader del Solidarnosc («Mi fa male vedere quello che il mio Paese sta facendo a un eroe nazionale come Lech Walesa. Persone che vengono dal nulla e che non sono nulla si permettono di gettare fango sulla figura di Walesa»).
Proprio Berlino, lo scorso anno, aveva ospitato fuori concorso Katyn, un drammatico racconto – passato fuori concorso anche all’ultimo Torino Film Festival, targato Moretti, e uscito venerdì scorso nelle sale italiane in 60 copie – su quello che in Polonia è ancora considerato il più tragico lutto nazionale, simbolico punto di “raccolta” di ogni rigurgito nazionalista antisovietico. È la storia del massacro, avvenuto nel marzo 1940, di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi – tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej – fatti prigionieri dall’Armata Rossa con l’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht, come previsto dal famoso patto Ribbentrop-Molotov, stipulato nemmeno un mese prima, che riconosceva segretamente la spartizione della Polonia oltre alle aspirazioni territoriali sovietiche sugli Stati baltici e sulla Romania. Il tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese: 22.000 persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia. Proprio una frase dello stesso Berija è all’origine delle prime congetture sulla sconvolgente verità: una volta scoppiata la guerra con la Germania nazista, richiesto di un parere da parte di un ufficiale polacco filosovietico sull’eventuale opportunità di organizzare reparti formati da prigionieri polacchi, si lascia sfuggire un ambiguo «No, quelli no. Abbiamo commesso un grave errore con loro».
Solo nell’aprile 1943, quando le sorti dell’operazione “Barbarossa” e dell’intero fronte orientale sono ormai segnate, i soldati tedeschi trovano i cadaveri delle migliaia di ufficiali polacchi ammassati nelle fosse comuni, portando a Katyn, perché testimonino con i propri occhi la loro scoperta, parecchi prigionieri alleati e la Croce Rossa polacca. Quest’ultima non rilascia alcuna dichiarazione ufficiale per non essere accusata di sostenere la propaganda antisovietica della Germania ma riesce ad inviare al governo polacco di Londra, tramite il movimento clandestino, un rapporto completo su quanto è venuto alla luce: tra le prove che vi trovano spazio, oltre tremila lettere e cartoline postali, un discreto numero di diari e centinaia di giornali e ritagli trovati addosso ai cadaveri, tutti datati tra il marzo e la prima settimana di maggio del 1940 (l’ultima annotazione di uno dei diari descrive addirittura il viaggio fino alla foresta sotto la scorta della NKVD).
I sovietici, che nel giro dei seguenti due anni entrano vittoriosi a Berlino, hanno invece buon gioco nell’addossare la colpa dell’eccidio all’esercito nazista, datandolo nel pieno dell’avanzata della Wehrmacht verso Mosca (agosto 1941) e sostenendo che i documenti posteriori alla primavera del 1940 sono stati asportati dai tedeschi. Una versione che anche le potenze occidentali avallano, nel clima di distensione con l’alleato russo che caratterizza l’immediato dopoguerra. Ma come scriverà Joseph Mackiewicz, ex giornalista e membro del movimento clandestino polacco, recatosi a Katyn al seguito della Croce Rossa, «dato che ogni cosa era imbevuta e incollata con un liquido cadaverico ributtante e appiccicoso, era impossibile sbottonare tasche o togliere stivali ai morti. Fu necessario tagliarli con il coltello per poter trovare i documenti personali… Nessuna tecnica avrebbe permesso di frugare in quelle tasche, di estrarne degli oggetti, di ricollocarvene degli altri, e poi di riabbottonare le uniformi e riammucchiare i cadaveri, uno strato sull’altro… ». Per i polacchi, invece, l’ordine di tacere e di dimenticare, almeno per i successivi 45 anni: si tratta infatti di una strage pianificata di cui tutti sanno ma sulla quale, sotto il tallone del regime comunista, è fatto divieto parlare, col rischio del carcere. Dunque un dramma nel dramma per i parenti delle vittime così come per un intero popolo – il (muto) dolore per il lutto misto all’amarezza della (incontrastabile) menzogna – fino alle ammissioni di Mikhail Gorbaciov prima e di Boris Eltsin poi (ma qui siamo già, ormai, negli anni Novanta).
Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i 118 minuti di Katyn – per realizzare i quali Wajda ha attinto principalmente da diari, lettere e confessioni, analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi e inglesi – rappresentano due ore scarse di cinema trattenuto, rigoroso, potente, “magistrale”, chiuso dall’Agnus Dei del grande Krzysztof Penderecki (su un minuto di schermo nero), che vede impegnati giovani attori emergenti del cinema polacco mentre nel cast tecnico spicca il nome di Pawel Edelman, già direttore della fotografia de Il Pianista (Le Pianiste, 2002, Roman Polanski), altra recente, superba pagina di grande cinema che si muove nelle pieghe storiche del lento martirio di un’intera città, la Varsavia occupata dai nazisti, sullo sfondo del genocidio degli ebrei polacchi.
In chiusura vorremmo riferire due significativi episodi legati alla distribuzione di Katyn, che in patria ha fatto registrare oltre tre milioni di spettatori. Alla prima del film a Varsavia, il 17 settembre 2007, il giorno dell’anniversario dell’invasione sovietica della Polonia, alla proiezione è seguito l’assoluto silenzio della sala, interrotto solo dalle preghiere di chi ha iniziato a pregare per i morti di Katyn, una scena che si è quasi ripetuta anche a Mosca, dove uno dei presenti ha invece invitato il pubblico ad alzarsi in piedi per rendere loro onore.
Per una curiosa coincidenza, quest’area dell’Est Europa è ancora oggetto di un’opera tutt’ora presente nelle sale italiane, Defiance – I giorni del coraggio (Defiance, 2008, Edward Zwick), che narra le vicende pressoché contemporanee (siamo nel 1941) della resistenza armata alla persecuzione nazista da parte di centinaia di uomini e donne bielorussi raccolti intorno a Tuvia, Zus e Asael Bielski, tre fratelli ebrei interpretati rispettivamente da Daniel Craig, Liev Schreiber e Jamie Bell. Dunque un 2009 che segna un buon inizio per la Storia sul grande schermo, almeno per quella rimasta (o messa forzatamente) “fuori campo” per decenni.
(Leonardo Locatelli)