Siccome per ragioni di tempo fui costretto a tagliare (io avrei continuato a parlare a ruota, tanto era l'entusiasmo che avevo pensando a Gilbert e alle sue performance, e tanto era lo stordimento di quei giorni in cui ovunque ti giravi c'era in agguato uno che voleva sapere chi era Chesterton e perché io fossi così malato...), metto a disposizione il mio intervento al Meeting sull'Uomovivo.
C'è anche il video qui sul blog, vedrete che ho tagliato (anzi, si vede che ad un certo punto ho detto che sì, avrei tagliato).
Una ragazzina mi chiese la copia cartacea che avevo quel giorno e io gliela diedi volentieri; chi vuole può prendersi questa, mettiamola così.
Marco Sermarini
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E’ Chesterton stesso che ci
illustra la genesi di quest’opera, e lo fa nella sua Autobiografia:
Ciò che mi stupisce, quando guardo indietro alla mia giovinezza, e
anche all’adolescenza, è l’estrema rapidità con cui si può fare ritorno con il
pensiero alle cose fondamentali e perfino alla negazione delle cose
fondamentali. In età precocissima, ero tornato con il pensiero fino al pensiero
stesso: ed è una cosa terribile, perché può indurre a credere che non ci sia
nulla, al di fuori del pensiero (...) Era come se avessi io stesso proiettato
l’universo dall’interno, con i suoi alberi e le sue stelle. E si arriva così
vicino alla nozione di essere Dio che, in tutta evidenza, ci avvicina ancora di
più alla follia (...) Mentre atei ottusi predicavano che nulla esisteva al di
fuori della materia, li ascoltavo con il quieto orrore del distacco, pensando
invece che non esisteva nulla al di fuori della mente.
da Autobiografia
Queste idee, unite al clima culturale
decadentistico e pessimistico, avevano creato un cattivo habitus mentale nel
giovane Gilbert (tra i diciotto ed i venti anni), che lo avevano indotto a
pensare anche al più folle dei delitti, il suicidio.
Poi tutto cambiò grazie alla lettura di alcuni
libri, tra cui spiccano Robert Louis Stevenson con la sua Isola del Tesoro,
Walt Whitman con le sue poesie (chiaramente quelle non a sfondo omosessuale che
Gilbert avrebbe rifiutato decisamente: era una di quelle insane inclinazioni
che più gli avevano messo paura, se proprio vogliamo dirla tutta) ed il libro biblico
di Giobbe (sì, proprio Giobbe, quello che discute con Dio dopo la apparente
negazione e privazione del tutto).
Chesterton mette una solenne pietra sopra a queste
assurde preoccupazioni psicologiche (come le chiama lui stesso) verso la
primavera - estate del 1894, quando scrive una lettera al suo amico di sempre
Edmund Clerihew Bentley in cui dice:
Adesso la visione sta
svanendo nel corso della vita quotidiana, e ne sono felice. È imbarazzante
parlare con Dio faccia a faccia, come si parla con un amico.
Adombra un’esperienza mistica? Forse, ma sta di fatto che da lì
in poi cambierà tutto. Dirà Chesterton di aver
scoperto che la realtà
intorno a noi, se la si esamina, testimonia una… perfezione mistica
e di essere
certo che ogni cosa è
come è perché così deve essere.
Gratitudine sarà la parola chiave di questa storia che ha
lasciato il segno nella vita di migliaia di persone:
Nessun uomo ha veramente misurato la vastità del debito verso quel
qualsiasi essere che l'ha creato e che lo ha reso capace di chiamarsi qualcosa.
Dietro il nostro cervello, per così dire, v'era una vampa o uno scoppio di
sorpresa per la nostra stessa esistenza: scopo della vita artistica e
spirituale era di scavare questa sommersa alba di meraviglia, cosicché un uomo
seduto su una sedia potesse comprendere all'improvviso di essere veramente
vivo, ed essere felice.
da Autobiografia
Più avanti ci dice che sempre
in quel periodo della sua vita compose la poesia The Babe Unborn, in cui l’autore impersonava un bambino mai nato che
implorava l’esistenza e prometteva di prodigarsi in tutte le virtù e che
avrebbe fatto sempre il buono, purché gli fosse data la vita. E ancora:
Fu in quel periodo che abbozzai quello che, più tardi, fece parte del
mio racconto intitolato Manalive: la
storia di un tale d’animo buono, che andava in giro con una pistola e la
puntava a bruciapelo contro il pessimista, se mai diceva che la vita non valeva
la pena di essere vissuta.
Quest’idea viene accennata pubblicamente per la
prima volta nel capitolo introduttivo di Ortodossia,
dove dice:
Spesso ho avuto la tentazione di scrivere un romanzo sulla figura di
un navigatore inglese che, per un lieve errore di calcolo della rotta, scoprì
l’Inghilterra credendo di aver scoperto una nuova isola nei mari del Sud.
E poi accusa la sua pigrizia
che gli avrebbe impedito di scrivere questo libro. Il pressing durava dall’età
di vent’anni, ormai non ce la faceva più. Prima si chiarì le idee scrivendo L’uomo che fu Giovedì, la sua
autobiografia romanzata, e Ortodossia,
la sua autobiografia filosofica. E’ Chesterton stesso che le definisce così,
sia chiaro. In queste due opere trovate le idee fondamentali di quest’uomo
buono e geniale e lui ripercorre tutto il suo viaggio verso l’ortodossia.
Ma il libro sull’uomo buono
che girava con la pistola a cannoneggiare i pessimisti era troppo importante
per non essere scritto, e quindi oggi possiamo dire grazie a Dio e leggerlo e
pure presentarlo a tutti qui.
Uomovivo forse è il romanzo più scopertamente autobiografico (a ben guardarli,
lo sono tutti: o meglio, tutti contengono qualcosa che riguarda la vita di
Chesterton, un personaggio che gli somiglia, un uomo grande e grosso, il poeta,
oppure qualcosa che fa parte della sua vita di tutti i giorni e spesso anche
una donna dai capelli rossi, cioè la sua cara moglie). Quindi quando si dice
che questo libro è la storia di un uomo dall’animo buono, tutto converge a
pensare a lui, perché lui era davvero di animo buono, era un uomo davvero buono
ed innocente come un bimbo. Padre O’Connor lo ribattezzò Chestertonchild.
Poi è autobiografico anche
quando Chesterton racconta di Innocent Smith che gira con la pistola: non tutti
lo sanno ma Chesterton si andò a sposare con la pistola in tasca, perché dice
lui che non esistono matrimoni prudenti come non esistono suicidi prudenti, e
siccome il matrimonio è una grande avventura, bisogna prepararsi per bene. Poi
passò anche in una latteria a bere un bicchiere di latte, proprio dove lo
portava da bambino sua mamma... Per la cronaca si presentò in chiesa con il
bollino del prezzo ancora attaccato alle suole delle scarpe e quando si
inginocchiò fece ridere tutti e partì per il viaggio di nozze dimenticando i
bagagli alla stazione (ma con la pistola in tasca...!).
Quando Chesterton scoprì che
la vita era bella ed era vera, partì per quello che William Oddie, uno dei suoi
biografi, chiama the long journey round
the world, il lungo viaggio attorno al mondo, alla vita, al bello
dell’esserci, il viaggio che parte dalla scoperta della gratitudine per la somma
bontà del tutto, dalla scoperta dell’ortodossia e dalla riscoperta dello
strumento del costante stupore. Quest’opera dunque fu concepita con questo
precipuo scopo: fungere da regola (sì, proprio così, è una regola, come i
francescani, i domenicani e i benedettini) per chi riconosce il segreto della
vita - la gratitudine per tutto, in
primis per l’esserci, che è meglio del non esserci - e decida di esercitare
senza tregua l’arte del suo protagonista, Innocent Smith, che “frustava
la sua anima a suon di risate pur di impedire che si addormentasse". Sentite
come si descrive attraverso le parole del reverendo Percy:
“Aveva fatto perdere a sua moglie una
lunga serie di domestiche eccellenti, a causa di quella sua abitudine di
bussare a casa sua come fosse un perfetto sconosciuto, per chiedere se il
signor Smith abitasse davvero lì e che tipo d’uomo fosse. La classica domestica
londinese non è abituata a padroni che si dilettano con ironie così astruse; e
risultò impossibile spiegarle che il padrone lo faceva per guardare le proprie
faccende con la stessa viva curiosità che di solito si ha verso le faccende
altrui.
«So che c’è un tale chiamato Smith» era solito dire con aria stranita «che
vive in una di queste case a schiera. So che è molto felice, eppure non riesco
mai a coglierlo in flagrante». Talvolta
era capace di mettersi improvvisamente a trattare sua moglie con quel tipo di
cortesia impacciata, tipica di un giovane che s’innamora a prima vista di una
sconosciuta. Talvolta era capace di estendere queste poetiche premure anche nei
confronti del mobilio; si scusava con la sedia su cui si sedeva, saliva le
scale con la prudenza di uno scalatore, per sentire come nuova la percezione di
quello scheletro di realtà. «Ogni gradino è una scala e ogni sgabello è una
gamba» diceva. E altre volte si
comportava da sconosciuto nel modo completamente opposto, cioè entrando da
passaggi strani, per sentirsi come un ladro o un rapinatore. Scassinava e
s’introduceva abusivamente in casa sua, come aveva fatto quella notte con me”.
Questa idea era chiara da sempre, tanto che la
ritroviamo ne L’Imputato (in cui
elogia le cose apparentemente indifendibili) ma soprattutto in Ortodossia:
(...) Il libro "Robinson
Crusoe" (...) deve la sua perenne vitalità al fatto che esso celebra la
poesia dei limiti o meglio ancora il romanzo stravagante della prudenza. Crusoe
è un uomo sopra un piccolo scoglio con poca roba strappata al mare: la parte
più bella del libro è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. La più
grande poesia è un inventario. Ogni utensile da cucina diviene ideale perché
Crusoe avrebbe potuto lasciarlo cadere nel mare. E' un buon esercizio nelle ore
vuote o cattive del giorno stare a guardare qualche cosa, il secchio del
carbone o la cassetta dei libri, e pensare quanto sarebbe stata la felicità
d'averlo salvato e portato fuori del vascello sommerso sull'isolotto solitario.
Ma un migliore esercizio ancora è quello di rammentare come tutte le cose sono
sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio.
Ogni uomo ha avuto una orribile avventura: è sfuggito alla sorte di essere un
parto misterioso e prematuro come quegli infanti che non vedono la luce.
Sentivo parlare, quand'ero ragazzo, di uomini di genio rientrati o mancati;
sentivo spesso ripetere che più d'uno era un grande
"Avrebbe-potuto-essere". Per me, un fatto più solido e sensazionale è
che il primo che passa è un grande "Avrebbe-potuto-non-essere".
da Ortodossia
In Ortodossia
elaborerà la filosofia di Pimlico, il quartiere di Londra decaduto che però se
amato quando ancora non è amabile può diventare Firenze o Roma, cioè il
patriottismo cosmico; in altre parole bisogna combattere per il mondo amandolo
ed odiandolo con la stessa intensità perché diventi quel che deve essere.
Nell’Autobiografia
dice che quello che fu chiamato il suo ottimismo, che l’aveva salvato e che lui
definirà ottimismo irrazionale, poteva suonare grosso modo così:
Perfino
la mera esistenza, ridotta agli estremi limiti, è talmente straordinaria da
essere stimolante. Paragonato al nulla, tutto era meraviglioso.
Allargando il raggio al mondo intero, un giorno
Chesterton giovanotto ventenne arriverà a dire ad un suo amico qualcosa di
simile a questo: A mondo donato non si guarda in bocca... Quindi non solo
stupirsi quando può accadere, ma stupirsi sempre,
meglio ancora: esercitare l’arte dello stupore e della meraviglia, del
riconoscere in ogni cosa quella vampa di sorpresa anche a costo di prendersi a
schiaffi per rimanere svegli. Scriverà Gilbert in un prezioso quadernetto
ancora in quei gloriosi giorni attorno al 1894:
C’è un segreto per la vita
Il segreto del costante stupore
Ma dove nasce tutto ciò?
Il senso della gratitudine per tutto
è una caratteristica dell’immaginazione chestertoniana che trae origine dalla
sua fanciullezza: a venti anni Gilbert riesce a recuperare “la permanente attesa della sorpresa” che
era il dono di suo padre Ed, un uomo splendido che fabbricava per i figli il
teatrino delle marionette e lo animava e leggeva loro tutti i più bei libri
della letteratura inglese, cioè la prospettiva che il quotidiano è il cancello
per l’imprevisto ed il meraviglioso, che era stato coltivato con il “vero senso per cui ognuno ha in mano il capo
di un filo elfico che deve alla fine condurlo al paradiso” (L’età
vittoriana in letteratura) secondo George McDonald.
Tutto questo, misteriosamente e
miracolosamente, era già tutto intero nella testa del giovane ventenne Gilbert,
come uno scoppio di meraviglia desiderato ed atteso. Lo troviamo in uno dei
suoi Notebooks, i suoi quaderni
giovanili (segue nella riga successiva la frase di prima sul segreto del
costante stupore):
C’è una cosa che dà radiosità a tutto, strade, case, pali della
luce, comunità, politica, vite - è l’idea di qualcosa dietro l’angolo.
Ma c’è un aspetto che non va
trascurato, ossia: non fermiamoci solo a stupore e gratitudine, che vanno
benissimo. Chesterton in quegli anni giovanili scoprì il pericolo dell’eresia,
cioè del cattivo pensiero, il pensiero contrario alla ragione, che è radice del
male:
Il punto è che ho scavato talmente in profondità da incontrare
il diavolo e misteriosamente riconoscerlo.
dirà nell’Autobiografia. Fermarsi solo al primo livello significherebbe
mutilare Chesterton. Difatti c’è un interessante, misconosciuto in Italia,
articolo di Chesterton su un numero del Daily
News del 1907 intitolato The
Diabolist, cioè il satanista. Racconta di un incontro accaduto proprio in
quegli anni giovanili con un suo coetaneo che si proclamava satanista, seguendo
il flusso delle idee decadentiste in voga in quell’epoca e rifiutate da
Chesterton. In esso Chesterton racconta che il suo conoscente gli aveva chiesto
perché stesse diventando ortodosso. Chesterton dice di non essersene accorto
sino a quel momento e risponde che stava diventando ortodosso
perché sono arrivato, giusto o sbagliato che sia, dopo aver
stirato il mio cervello fino a farlo squarciare, al vecchio credo secondo cui
l’eresia è più minacciosa del peccato. Un errore è peggio di un crimine, perché
un errore genera crimini.
Per lui una vita ingrata era, prima
ancora che una follia, un’eresia perché non riconosceva l’evidenza di quel
qualcosa dietro l’angolo che dava radiosità e luce a tutto. Per cui si lanciò
nella battaglia dell’ortodossia. Guardate che Innocent Smith non è un
buontempone che gode dei tramonti e del vino bevuto sul tetto di casa, di una
bottiglia di vetro volgarissimo e dell’oro perché è tutt’oro quello che
luccica. E’ uno che fa queste cose ma perché è sbagliato e folle non farle.
Innocent si prende la briga di saltare il muro di Casa Beacon e vi porta lo
scompiglio dell’ortodossia, calca in testa allo scientista dottor Warner il suo
cappello perché è depresso e questo è sbagliato perché ogni uomo è un re e il
suo cappello è la sua corona e quindi l’uomo comune vale come il re; punta la
pistola in faccia al rettore Eames perché rinsavisca e così possa rinsavire lui
stesso!
Una regola, non istruzioni per
l’uso, ma una regola vera: vuoi rimanere sano? Vuoi rimanere in questa attesa
permanente della meraviglia e godere davvero di tutto, anche del godimento?
Frusta allora la tua anima a suon di risate perché questo è ortodosso, il nulla
è eretico.
Stupore,
gratitudine per tutto, anche per le tende a pallini ed i paperi dello stagno,
amore per la propria moglie ed una bella pistola puntata sulla testa dell’uomo
moderno, cioè l’amore per l’ortodossia ed il senso comune contrapposti
all’eresia che guasta l’uomo e il suo cervello e così questo mondo per cui
combattere da patrioti cosmici. Ecco il significato di quest’esplosione di vita
che l’Innocente Chesterton ci regala perché la possiamo tenere sempre per noi
come un gigantesco segreto da rivelare al mondo.