mercoledì 31 marzo 2010

Il record dei pedofili? In India. Che non è un paese cattolico...

di Aldo Vitale - Il Giornale del 30.03.2010

«Non ci sono più le mezze stagioni» e «i preti sono pedofili a causa del celibato», sono due affermazioni che formalmente non hanno nulla in comune, tranne il fatto di essere entrambe luoghi comuni. Il celibato del sacerdozio cattolico non può essere considerato la causa dei casi di pedofilia per motivi logici e non solo. Se, infatti, così fosse, i casi di pedofilia o di abusi sessuali dovrebbero riguardare percentuali molto alte, prossime al 99%, troppo lontane, quindi, da quell’1-2% che invece si registra nella realtà. Insomma, la pedofilia nella Chiesa è un’eccezione, piuttosto che la regola. Quindi la regola del celibato funziona. Può essere proposto un paragone: non perché alcuni siciliani sono mafiosi, la Sicilia è interamente mafiosa; e da ciò non si può ricavare l’idea dell’inefficacia del codice penale, richiedendone la sua cancellazione. Occorrerebbe una maggiore facoltà di discernimento, spesso offuscata da un patente anticlericalismo.
Se poi si desidera entrare nel merito dei numeri, si scopre che: a) su 100 sacerdoti (almeno negli Usa in cui le cifre del fenomeno sono già note da tempo), solo il 4% è stato accusato di abusi sessuali, ma solo l’1% è stato riconosciuto effettivamente colpevole e condannato; b) su 100 pedofili non sacerdoti, la maggior parte è sposata; c) la maggior parte degli abusi sessuali contro i minori viene perpetrata in Paesi in cui la Chiesa non c’è, o rappresenta un’assoluta minoranza, tanto da essere spesso, perfino, oggetto di persecuzione. Si pensi al caso dell’India. Il sito Asiasentinel, riporta, per esempio, i dati rilevati dall’associazione Samvada, dalle ricerche della quale risulta che in 11 scuole il 47% di ragazze trai 15 e i 21 anni è stato oggetto di molestia sessuale, e che il 15% aveva meno di 10 anni. Asiasentinel, già nel 2007, rivela che l’India è la patria di più di 375 milioni di bambini, che rappresentano il 40% della popolazione. Nonostante il suo ethos della non-violenza, la tolleranza e la spiritualità, prosegue Asiasentinel, l’India ospita il maggior numero al mondo di bambini abusati sessualmente, a un tasso molto superiore rispetto a qualsiasi altro paese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, una bambina ogni quattro e un bambino su sette nel mondo sono vittime di abusi sessuali; ma questi dati poco incoraggianti, sono ancora ben al di sotto dei totali dell'India. Il triste primato, spetta quindi ad un Paese non cristiano; ancora una volta, questa volta per tabulas, si comprende che il celibato dei sacerdoti cattolici non può essere considerato la causa della pedofilia di alcuni ecclesiastici, posto che il terribile fenomeno è diffuso maggiormente in luoghi in cui non si pratica il celibato. A questo desolante scenario si aggiunga che in molte parti del mondo, la pedofilia non solo è tollerata, ma è perfino istituzionalizzata, come in molti Paesi di matrice islamica e non solo. Ci si riferisce al fenomeno delle «spose bambine», cioè bambine tra i 7 e i 13-14 anni che sono obbligate a sposarsi. L’organizzazione americana International Center for Research on Women ha compilato la lista dei Paesi in cui il fenomeno è maggiormente diffu- so, con tassi che raggiungono e superano il 76% delle bambine: Niger, Bangladesh, Ciad, Mali, Nepal, Mozambico, Uganda, Burkina Faso, Guinea, India, Liberia, Yemen, Camerun, Eritrea, Nigeria, Zambia, Malawi. Come non ricordare, inoltre, i 5000 casi di abusi su minori che negli Stati Uniti hanno riguardato i Testimoni di Geova, o i vari casi di abusi sessuali commessi da alcuni rabbini, come già aveva scritto nel lontano 1999 il Rabbino Arthur Gross Schaefer. E che dire, infine, di quelle istituzioni secolari che addirittura legittimano la pedofilia? Si pensi al caso del 1998 dello Psychological Bulletin, organo della American Psychological Association, in cui si affermava che gli abusi sessuali sui minori «non causano danni profondi e permanenti così gravi».
Come è allora fin troppo evidente, il problema non sembra riguardare per nulla né solamente la Chiesa cattolica, né il celibato sacerdotale da essa praticato. Anzi, si potrebbe dire, confrontando la totalità dei dati, che i Paesi cristiani in genere, e quelli cattolici in particolare, registrano non solo i minor casi di pedofilia come fenomeno criminale socialmente diffuso, ma anche il più basso tasso tra i ministri di culto. Ciò che stupisce, insomma, è che la pedofilia sia diventata moralmente con- dannabile grazie all’avvento del Cristianesimo, come testimoniano gli storici, ma oggi, per reconditi secondi fini, vie- ne imputata alla Chiesa cattolica come fosse un elemento costitutivo di questa. L’ennesima falsità che pretende di condannare la pagliuzza della Chiesa, senza guardare la trave del mondo: con non poca divina ironia ciò accade proprio nel periodo in cui la Chiesa si prepara per festeggiare la Pasqua, cioè la liberazione dalle menzogne del mondo, e la resurrezione dal peccato.

lunedì 29 marzo 2010

L'ultima del cardinale Carlo Maria Martini

Da Il Corriere della Sera

CARD. MARTINI: RIPENSARE IL CELIBATO - Il cardinal Carlo Maria Martini, intervistato da Presse am Sonntag, difende il Papa ma dice che la Chiesa deve ripensare il celibato dei sacerdoti. «Devono essere poste questioni fondamentali, come il ripensamento dell'obbligo di celibato dei sacerdoti come forma di vita», ha dichiarato l'ex arcivescovo di Milano. «Vanno riproposte le questioni centrali della sessualità con la generazione odierna, con le scienze umane e con gli insegnamenti della Bibbia, perché solo un'aperta discussione può ridare autorevolezza alla Chiesa, portare alla correzione dei fallimenti e rafforzare il servizio della Chiesa nei confronti dell'Uomo».

L'omelia di Papa Benedetto XVI nella Domenica delle Palme 2010

Cari fratelli e sorelle,

cari giovani!

Il Vangelo della benedizione delle palme, che abbiamo ascoltiamo qui riuniti in Piazza San Pietro, comincia con la frase: "Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme" (Lc 19,28). Subito all’inizio della liturgia di questo giorno, la Chiesa anticipa la sua risposta al Vangelo, dicendo: "Seguiamo il Signore". Con ciò il tema della Domenica delle Palme è chiaramente espresso. È la sequela. Essere cristiani significa considerare la via di Gesù Cristo come la via giusta per l’essere uomini – come quella via che conduce alla meta, ad un’umanità pienamente realizzata e autentica. In modo particolare, vorrei ripetere a tutti i giovani e le giovani, in questa XXV Giornata Mondiale della Gioventù, che l’essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica.

Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova? La frase del nostro Vangelo offre due indicazioni al riguardo. In primo luogo dice che si tratta di un’ascesa. Ciò ha innanzitutto un significato molto concreto. Gerico, dove ha avuto inizio l’ultima parte del pellegrinaggio di Gesù, si trova a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme – la meta del cammino – sta a 740-780 metri sul livello del mare: un’ascesa di quasi mille metri. Ma questa via esteriore è soprattutto un’immagine del movimento interiore dell’esistenza, che si compie nella sequela di Cristo: è un’ascesa alla vera altezza dell’essere uomini. L’uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l’alto. Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l’aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l’altro. Egli conduce verso la disponibilità per i sofferenti, per gli abbandonati; verso la fedeltà che sta dalla parte dell’altro anche quando la situazione si rende difficile. Conduce verso la disponibilità a recare aiuto; verso la bontà che non si lascia disarmare neppure dall’ingratitudine. Egli ci conduce verso l’amore – ci conduce verso Dio.

"Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme". Se leggiamo questa parola del Vangelo nel contesto della via di Gesù nel suo insieme – una via che, appunto, prosegue sino alla fine dei tempi – possiamo scoprire nell’indicazione della meta "Gerusalemme" diversi livelli. Naturalmente innanzitutto deve intendersi semplicemente il luogo "Gerusalemme": è la città in cui si trovava il Tempio di Dio, la cui unicità doveva alludere all’unicità di Dio stesso. Questo luogo annuncia quindi anzitutto due cose: da un lato dice che Dio è uno solo in tutto il mondo, supera immensamente tutti i nostri luoghi e tempi; è quel Dio a cui appartiene l’intera creazione. È il Dio di cui tutti gli uomini nel più profondo sono alla ricerca e di cui in qualche modo tutti hanno anche conoscenza. Ma questo Dio si è dato un nome. Si è fatto conoscere a noi, ha avviato una storia con gli uomini; si è scelto un uomo – Abramo – come punto di partenza di questa storia. Il Dio infinito è al contempo il Dio vicino. Egli, che non può essere rinchiuso in alcun edificio, vuole tuttavia abitare in mezzo a noi, essere totalmente con noi.

Se Gesù insieme con l’Israele peregrinante sale verso Gerusalemme, Egli ci va per celebrare con Israele la Pasqua: il memoriale della liberazione di Israele – memoriale che, allo stesso tempo, è sempre speranza della libertà definitiva, che Dio donerà. E Gesù va verso questa festa nella consapevolezza di essere Egli stesso l’Agnello in cui si compirà ciò che il Libro dell’Esodo dice al riguardo: un agnello senza difetto, maschio, che al tramonto, davanti agli occhi dei figli d’Israele, viene immolato "come rito perenne" (cfr Es 12,5-6.14). E infine Gesù sa che la sua via andrà oltre: non avrà nella croce la sua fine. Sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l’uomo nel suo corpo. Sa che il suo corpo risorto sarà il nuovo sacrificio e il nuovo Tempio; che intorno a Lui, dalla schiera degli Angeli e dei Santi, si formerà la nuova Gerusalemme che è nel cielo e tuttavia è anche già sulla terra, perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra. La sua via conduce al di là della cima del monte del Tempio fino all’altezza di Dio stesso: è questa la grande ascesa alla quale Egli invita tutti noi. Egli rimane sempre presso di noi sulla terra ed è sempre già giunto presso Dio, Egli ci guida sulla terra e oltre la terra.

Così, nell’ampiezza dell’ascesa di Gesù diventano visibili le dimensioni della nostra sequela – la meta alla quale Egli vuole condurci: fino alle altezze di Dio, alla comunione con Dio, all’essere-con-Dio. È questa la vera meta, e la comunione con Lui è la via. La comunione con Cristo è un essere in cammino, una permanente ascesa verso la vera altezza della nostra chiamata. Il camminare insieme con Gesù è al contempo sempre un camminare nel «noi» di coloro che vogliono seguire Lui. Ci introduce in questa comunità. Poiché il cammino fino alla vita vera, fino ad un essere uomini conformi al modello del Figlio di Dio Gesù Cristo supera le nostre proprie forze, questo camminare è sempre anche un essere portati. Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l’entrare nel «noi» della Chiesa; l’aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione – il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L’umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell’ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell’insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione. L’umiltà dell’«essere-con» è essenziale per l’ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell’ascesa, anche se siamo stanchi.

Infine, dobbiamo ancora dire: dell’ascesa verso l’altezza di Gesù Cristo, dell’ascesa fino all’altezza di Dio stesso fa parte la Croce. Come nelle vicende di questo mondo non si possono raggiungere grandi risultati senza rinuncia e duro esercizio, come la gioia per una grande scoperta conoscitiva o per una vera capacità operativa è legata alla disciplina, anzi, alla fatica dell’apprendimento, così la via verso la vita stessa, verso la realizzazione della propria umanità è legata alla comunione con Colui che è salito all’altezza di Dio attraverso la Croce. In ultima analisi, la Croce è espressione di ciò che l’amore significa: solo chi perde se stesso, si trova.

Riassumiamo: la sequela di Cristo richiede come primo passo il risvegliarsi della nostalgia per l’autentico essere uomini e così il risvegliarsi per Dio. Richiede poi che si entri nella cordata di quanti salgono, nella comunione della Chiesa. Nel «noi» della Chiesa entriamo in comunione col «Tu» di Gesù Cristo e raggiungiamo così la via verso Dio. È richiesto inoltre che si ascolti la Parola di Gesù Cristo e la si viva: in fede, speranza e amore. Così siamo in cammino verso la Gerusalemme definitiva e già fin d’ora, in qualche modo, ci troviamo là, nella comunione di tutti i Santi di Dio.

Il nostro pellegrinaggio alla sequela di Cristo quindi non va verso una città terrena, ma verso la nuova Città di Dio che cresce in mezzo a questo mondo. Il pellegrinaggio verso la Gerusalemme terrestre, tuttavia, può essere proprio anche per noi cristiani un elemento utile per tale viaggio più grande. Io stesso ho collegato al mio pellegrinaggio in Terra Santa dello scorso anno tre significati. Anzitutto avevo pensato che a noi può capitare in tale occasione ciò che san Giovanni dice all’inizio della sua Prima Lettera: quello che abbiamo udito, lo possiamo, in certo qual modo, vedere e toccare con le nostre mani (cfr 1Gv 1,1). La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su di una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare. È commovente trovarsi a Nazaret nel luogo dove l’Angelo apparve a Maria e le trasmise il compito di diventare la Madre del Redentore. È commovente essere a Betlemme nel luogo dove il Verbo, fattosi carne, è venuto ad abitare fra noi; mettere il piede sul terreno santo in cui Dio ha voluto farsi uomo e bambino. È commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è Lui stesso.

Quando andiamo in Terra Santa come pellegrini, vi andiamo però anche – e questo è il secondo aspetto – come messaggeri della pace, con la preghiera per la pace; con l’invito forte a tutti di fare in quel luogo, che porta nel nome la parola "pace", tutto il possibile affinché esso diventi veramente un luogo di pace. Così questo pellegrinaggio è al tempo stesso – come terzo aspetto – un incoraggiamento per i cristiani a rimanere nel Paese delle loro origini e ad impegnarsi intensamente in esso per la pace.

Torniamo ancora una volta alla liturgia della Domenica delle Palme. Nell’orazione con cui vengono benedetti i rami di palma noi preghiamo affinché nella comunione con Cristo possiamo portare il frutto di buone opere. Da un’interpretazione sbagliata di san Paolo, si è sviluppata ripetutamente, nel corso della storia e anche oggi, l’opinione che le buone opere non farebbero parte dell’essere cristiani, in ogni caso sarebbero insignificanti per la salvezza dell’uomo. Ma se Paolo dice che le opere non possono giustificare l’uomo, con ciò non si oppone all’importanza dell’agire retto e, se egli parla della fine della Legge, non dichiara superati ed irrilevanti i Dieci Comandamenti. Non c’è bisogno ora di riflettere sull’intera ampiezza della questione che interessava l’Apostolo. Importante è rilevare che con il termine "Legge" egli non intende i Dieci Comandamenti, ma il complesso stile di vita mediante il quale Israele si doveva proteggere contro le tentazioni del paganesimo. Ora, però, Cristo ha portato Dio ai pagani. A loro non viene imposta tale forma di distinzione. A loro viene dato come Legge unicamente Cristo. Ma questo significa l’amore per Dio e per il prossimo e tutto ciò che ne fa parte. Fanno parte di quest’amore i Comandamenti letti in modo nuovo e più profondo a partire da Cristo, quei Comandamenti che non sono altro che le regole fondamentali del vero amore: anzitutto e come principio fondamentale l’adorazione di Dio, il primato di Dio, che i primi tre Comandamenti esprimono. Essi ci dicono: senza Dio nulla riesce in modo giusto. Chi sia tale Dio e come Egli sia, lo sappiamo a partire dalla persona di Gesù Cristo. Seguono poi la santità della famiglia (quarto Comandamento), la santità della vita (quinto Comandamento), l’ordinamento del matrimonio (sesto Comandamento), l’ordinamento sociale (settimo Comandamento) e infine l’inviolabilità della verità (ottavo Comandamento). Tutto ciò è oggi di massima attualità e proprio anche nel senso di san Paolo – se leggiamo interamente le sue Lettere. "Portare frutto con le buone opere": all’inizio della Settimana Santa preghiamo il Signore di donare a tutti noi sempre di più questo frutto.

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: "Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore". E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: "Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!". Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza. Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: "Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!". Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna totalmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. Amen.

sabato 27 marzo 2010

Come è andata veramente, il resto solo porcherie

In questo collegamento trovate come sono andate veramente le cose nel caso di padre Murphy, sollevato con palese menzogna dal New York Times e aizzato a titoli cubitali da certi giornali italiani (i soliti noti).

E' un articolo di Avvenire con in calce i collegamenti di altri due interessanti articoli.

Noi Chestertoniani siamo col Papa, che difenderemo sempre.


Gli antipapi e i pericoli del magistero parallelo

di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, domenica, 21 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il tentativo della stampa di coinvolgere Benedetto XVI nella questione pedofilia è solo il più recente tra i segni di avversione che tanti nutrono per il Papa. Bisogna chiedersi come mai questo Pontefice, nonostante la sua mitezza evangelica e l’onestà, la chiarezza delle sue parole unitamente alla profondità del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, susciti da alcune parti sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensavano superate. E questo, è bene dirlo, suscita ancora maggiore stupore e addirittura dolore, quando a non seguire il Papa e a denunciarne presunti errori sono uomini di Chiesa, siano essi teologi, sacerdoti o laici.
Le inusitate e palesemente forzate accuse del teologo Hans Küng contro la persona di Jopeph Ratzinger teologo, vescovo, Prefetto della Congregazione della Fede e ora Pontefice per aver causato, a suo dire, la pedofilia di alcuni ecclesiastici mediante la sua teologia e il suo magistero sul celibato ci amareggiano nel profondo. Non era forse mai accaduto che la Chiesa fosse attaccata in questo modo. Alle persecuzioni nei confronti di tanti cristiani, crocefissi in senso letterale in varie parti del mondo, ai molteplici tentativi per sradicare il cristianesimo nelle società un tempo cristiane con una violenza devastatrice sul piano legislativo, educativo e del costume che non può trovare spiegazioni nel normale buon senso si aggiunge ormai da tempo un accanimento contro questo Papa, la cui grandezza provvidenziale è davanti agli occhi di tutti.
A questi attacchi fanno tristemente eco quanti non ascoltano il Papa, anche tra ecclesiastici, professori di teologia nei seminari, sacerdoti e laici. Quanti non accusano apertamente il Pontefice, ma mettono la sordina ai suoi insegnamenti, non leggono i documenti del suo magistero, scrivono e parlano sostenendo esattamente il contrario di quanto egli dice, danno vita ad iniziative pastorali e culturali, per esempio sul terreno delle bioetica oppure del dialogo ecumenico, in aperta divergenza con quanto egli insegna. Il fenomeno è molto grave in quanto anche molto diffuso.
Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sul Vaticano II che moltissimi cattolici apertamente contrastano, promuovendo forme di controformazione e di sistematico magistero parallelo guidati da molti “antipapi”; ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo. Per molti la Dominus Iesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte.
La situazione è grave, perché questa divaricazione tra i fedeli che ascoltano il Papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque, fino ai settimanali diocesani e agli Istituti di scienze religiose e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse e procurando incertezza e smarrimento in molti fedeli.
In questi momenti molto difficili, il nostro Osservatorio si sente di esprimere la nostra filiale vicinanza a Benedetto XVI. Preghiamo per lui e restiamo fedelmente al suo seguito.
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Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”.

venerdì 26 marzo 2010

Dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede

Questo è il testo integrale della dichiarazione rilasciata al "New York Times" il 24 marzo 2010:

Il tragico caso di padre Lawrence Murphy, sacerdote dell'arcidiocesi di Milwaukee, ha riguardato vittime particolarmente vulnerabili che hanno sofferto terribilmente a causa delle sue azioni. Abusando sessualmente di bambini audiolesi, padre Murphy ha violato la legge e, cosa ancora più grave, la sacra fiducia che le sue vittime avevano riposto in lui.
Verso la metà degli anni settanta, alcune vittime di padre Murphy denunciarono gli abusi da lui compiuti alle autorità civili, che avviarono indagini su di lui; tuttavia, secondo quanto riportato, quelle indagini furono abbandonate. La Congregazione per la Dottrina della Fede venne informata della questione solo una ventina di anni dopo.
È stato suggerito che esiste una relazione tra l'applicazione dell'istruzione Crimen sollicitationis e la mancata denuncia in questo caso degli abusi sui bambini alle autorità civili.
Di fatto, non esiste nessuna relazione del genere. Infatti, contrariamente ad alcune affermazioni circolate sulla stampa, né la Crimen sollicitationis né il Codice di Diritto Canonico hanno mai vietato la denuncia degli abusi sui bambini alle forze dell'ordine.
Alla fine degli anni Novanta, dopo più di due decenni dalla denuncia degli abusi alle autorità diocesane e alla polizia, per la prima volta alla Congregazione per la Dottrina della Fede è stata posta la domanda su come trattare canonicamente il caso Murphy. La Congregazione venne informata della questione poiché implicava l'adescamento nel confessionale, che è una violazione del Sacramento della Penitenza. È importante osservare che la questione canonica presentata alla Congregazione non era in nessun modo collegata con una potenziale procedura civile o penale nei confronti di padre Murphy.
In casi simili, il Codice di Diritto Canonico non prevede pene automatiche, ma raccomanda che sia emessa una sentenza che non escluda nemmeno la pena ecclesiastica più grande, ossia la dimissione dallo stato clericale (cfr. canone 1395, 2). Alla luce del fatto che padre Murphy era anziano e in precarie condizioni di salute, che viveva in isolamento e che per oltre vent'anni non erano stati denunciati altri abusi, la Congregazione per la Dottrina della Fede suggerì che l'arcivescovo di Milwaukee prendesse in considerazione di affrontare la situazione limitando, per esempio, il ministero pubblico di padre Murphy ed esigendo che padre Murphy si assumesse la piena responsabilità della gravità delle sue azioni. Padre Murphy morì circa quattro mesi dopo, senza altri incidenti.

giovedì 25 marzo 2010

Orchi in difesa dei bambini - Perché la battaglia contro i preti pedofili è una battaglia per eliminare il cristianesimo



Invettiva cristianissima contro l’Europa pedofoba e il mondo infanticida

di Francesco Agnoli - da Il Foglio del 25 marzo 2010.


Ogni due o tre mesi mi scrive un amico, missionario in Africa, don Giuseppe Ceriani. Per parlarmi della chiesa di là, delle sue tribolazioni, delle sue attività, delle sue lotte. L’ultima sua lettera è datata Quaresima-Pasqua 2010. Leggendola non sembra che laggiù siano filtrate le notizie che occupano la stampa europea in questi giorni, con soverchia e sospetta abbondanza. Forse in Africa non si sa nulla della battaglia che il vecchio continente ha ingaggiato da tempo con la sua storia e le sue radici. Una battaglia che è sempre più grottesca, perché vede gli araldi del nichilismo, soprattutto quello sinistro, combattere una santa crociata contro i preti pedofili. Non, si badi bene, per sbarazzarsi di loro, come è giusto, ma per sbarazzarsi, tout court, del cristianesimo, e magari, relativisticamente, anche dell’idea di bene e male.

L’Europa che apostata ogni giorno, deve farlo trovando nobili giustificazioni, dandosi un tono. L’Europa che massacra i suoi figli nell’utero materno, a milioni; che distrugge i bambini già nati combattendo ogni giorno la famiglia (quintuplicati i divorzi, nella mia regione, in trent’anni); l’Europa che sperimenta sugli embrioni, che commercia ovuli e spermatozoi come fossero caramelle, che tenta di clonare l’uomo massacrando centinaia di esseri umani allo stato iniziale, che ingravida le donne single e le coppie omosessuali, negando ai figli che nasceranno il padre o la madre… L’Europa, l’occidente, che permettono le mamme-nonne, che fanno nascere figli già orfani con la fecondazione post mortem, che congelano gli embrioni sotto azoto liquido e che infangano la vita di milioni di ragazzi col sesso precoce, la pornografia, lo scandalo continuo; l’occidente “no child”, che predica la “crescita zero” per non inquinare; che “aiuta” i paesi poveri coi preservativi e l’aborto; che vede crescere ogni giorno il ricorso alla sterilizzazione, gli alberghi e i luoghi di villeggiatura dove sono verboten i bambini; l’Europa che apre all’eutanasia dei fanciulli malati e che anestetizza e lobotomizza i suoi figli con la Tv, il tempo pieno, la realtà virtuale, svariati impegni extrafamiliari e mille altri sotterfugi per non avere impicci…

Ebbene questa Europa nemica dei bambini, bambino-fobica, handi-fobica, famiglio-fobica, finge di battersi in difesa dei più piccoli, se questa battaglia può servire a infangare la chiesa nel suo complesso, come istituzione, come storia, come tutto. Finge di farlo, e con grande e prolungato clamore, salvo poi tacere sui milioni di europei (di cui circa centomila italiani) che praticano turismo sessuale a danno di bambini asiatici, latini o africani; sui quarantuno mila casi di violenze sui minori che vengono registrati ogni anno in Italia secondo una ricerca presentata allo Iulm di Milano nel 2007; sul boom di pedopornografia che invade la rete ogni giorno di più, senza quasi nessuno che la ostacoli.

Don Giuseppe, dicevo, non sembra sapere nulla. Si limita a raccontarmi per lettera quello che fa là, a Nairobi, dove ha già preso, in passato, la malaria e una malattia che gli ha riempito le budella di trenta chili di una strana mucillagine, che però non ha infrollito la sua tempra di uomo di Dio. Cosa mi racconta, dunque, dal Kenya? “Caro Francesco, il Signore cammina con noi sulle strade di Ongata Rongai dove da alcuni mesi sta sorgendo un orfanotrofio per accogliere almeno cento bambini/e sotto i dieci anni. Molti di essi sono stati coinvolti nella tragica pandemia dell’Aids. In un’area accanto sorgerà anche un ospedaletto diurno, una specie di pronto soccorso per bambini. E sarà una grazia per questi poveri”. Qui, continua, la società è vessata da mali di ogni tipo, vecchi e nuovi: tribalismo, spiritismo, stregoneria e corruzione. Per questo a Lamet i fratelli delle Scuole cristiane assistono cento ragazzi/e “che vengono da varie etnie con esperienze di enorme indigenza e sofferenza”.

A Burgheri, invece, “sta sorgendo una scuola superiore per ragazze”, per quelle femmine che qui sono spesso trattate come oggetti e che invece i missionari vogliono nobilitare, insegnando loro un mestiere, a leggere e a scrivere. “L’area fu al centro di scontri tribali del 2008. Ora che la calma sembra tornata, abbiamo ripreso le costruzioni. A fine febbraio sono state costruite due aule”. La lettera continua e parla delle altre iniziative: scuole, ospedali, centri, soprattutto, per ragazzi, orfani, abbandonati, malati… di cui nessuno, spesso per povertà ma anche per superstizione, vuole prendersi cura. Mentre leggo penso: forse un domani anche gli africani, quando avranno la pancia piena, impiccheranno la chiesa ai peccati, pur gravissimi, di qualche suo figlio, e dimenticheranno tutti coloro che invece l’hanno amata e soccorsa anche a rischio della vita, perdendo, evangelicamente, la propria esistenza. Ma intanto non posso fare a meno di notare che quello che accade a Nairobi, avviene in tutta l’Africa. Non sono fedeli di Cristo, soprattutto, quelli che portano lì aiuti, medicine, civiltà, speranza, mentre i figli di Mammona, che vengono spesso dalla stessa Europa, cercano l’oro e gli affari?

Non è stato così anche per l’Europa, un tempo? Chi ha costruito le ruote degli esposti, gli ospedali, le scuole per i bambini, anche quelli poveri, nel Medioevo? Chi ha edificato moltissime delle nostre scuole professionali per salvare milioni di ragazzi, nell’Ottocento, dallo sfruttamento nelle industrie? Chi ha insegnato all’Europa il rispetto per i bambini? Chi ha imposto piano piano l’idea che le spose devono essere consenzienti, spostando gradatamente l’età del matrimonio un po’ “pedofilo” dell’antichità, sin dall’epoca di Costantino? Ricordiamo per un attimo cosa fu il mondo antico, precristiano. A Roma, a Sparta, ad Atene, presso tutti i popoli, i bambini malformati, handicappati, non voluti, venivano uccisi, fatti schiavi, venduti come cose. Non solo di fatto, ma anche in linea di diritto. Era normale. In tanti casi, presso i greci, presso i popoli nordici, presso i fenici, dei bambini venivano sacrificati alle divinità per chiederne il favore, come succede ancora oggi in Africa o in India (lo ha scritto Libero, 13/03/2010).

Il cristianesimo arrivò portando la nozione di sacralità della vita. Additando a tutti un Cristo bambino; predicando il rispetto dell’infanzia fino ad allora così poco considerata. Spiegando che Dio stesso si era fatto piccolo. Noi, scrivevano i primi cristiani, Giustino, Tertulliano e tanti altri, non uccidiamo i nostri figli e non li abbandoniamo lasciando che vengano sbranati dalle belve.
Così, dicono gli storici, il cristianesimo costruì i primi orfanotrofi, sostanzialmente sconosciuti sino ad allora. Così trovarono una casa gli abbandonati, i milioni di “Marcellino pane e vino” della nostra storia che ancora oggi portano nel cognome il ricordo di quella carità cristiana che li salvò: gli Esposito, i Diotallevi, i Fortuna, i Fortunato, i Proietti, i Casadei. Trovarono asilo prima negli orfanotrofi fondati dalle imperatrici e dalle matrone romane convertite, poi in strutture come quella dell’arciprete milanese Dateo, dove venivano accolti bastardi, orfani, handicappati, nel secolo VIII; poi, ancora, nelle case fondate dalle confraternite o negli ospedali, come quello fiorentino degli Innocenti, in cui ai bambini erano dedicati strutture, personale specifico e soldi per costruirsi, una volta cresciuti, il futuro.

Così recita l’Enciclopedia Treccani alla voce “orfanotrofio”: “Sorti fin dai primi tempi del cristianesimo attraverso la paternità adottiva, mantenuti dalle offerte dei fedeli e sorvegliati dai sacerdoti, gli orfanotrofi ebbero dai primi imperatori cristiani non pochi e notevoli privilegi”. Oggi magari ce ne dimentichiamo, perché da noi gli orfanatrofi sono sempre meno: ci si disfa del problema alla radice. Ma la predilezione cristiana per i più piccoli non è venuta meno: nell’Inghilterra laica e anglicana un terzo degli orfanotrofi odierni è gestito da ordini religiosi cattolici. In Africa, dove la poligamia, la povertà e le malattie colpiscono soprattutto i bambini, gli orfanotrofi sono numerosissimi e hanno nella quasi totalità dei casi un’origine religiosa.

Nella Cina non cristiana, dove l’infanticidio di massa, potenziato dal regime maoista, è sempre esistito, la piccolissima minoranza cattolica, come raccontava Tiziano Terzani su Repubblica il 20 giugno 1984, prima della rivoluzione comunista gestiva oltre duemila scuole, duecento ospedali e più di mille orfanotrofi. A rischio spesso dell’odio xenofobo cinese, esploso poi all’epoca di Mao, che chiuse tutto accusando le suore “di aver ucciso i bambini e la chiesa di essere sovversiva”. Ancora oggi missionari cristiani laici e religiosi giungono in Cina da tutto il mondo per raccogliere sulle strade bambini abbandonati e lasciati morire di fame. Un caro amico, Francesco, mi ha raccontato questa terribile realtà, dopo aver trascorso un’estate in Cina con alcuni sacerdoti lombardi ad aiutare il creatore di uno di questi istituti per l’infanzia abbandonata. Francesco ci è andato dopo che Giulia, sua sorella e mia alunna, era stata alcuni anni prima, con altri missionari, in Romania, a fare scuola e a dare un po’ di affetto ad alcuni dei migliaia e migliaia di orfani romeni abbandonati, costretti a vivere nelle fogne, spinti alla prostituzione minorile e alla delinquenza.

Chi li aiuta, gli orfani dell’est Europa? Hans Küng, Corrado Augias, Vito Mancuso o il patron di Repubblica? La rivista Left, che fa copertine in cui compare un prete e la scritta, grande, “Predofili”, quasi a suggerire una equivalenza tra sacerdozio e pedofilia? No, migliaia e migliaia di associazioni e gruppi sorti molto spesso dal volontariato cattolico (o protestante), legati alle parrocchie, che finanziano ospedali pediatrici, ospitano ogni anno in Europa i bambini di Cernobyl, diffondono la pratica dell’adozione a distanza… Come l’associazione di don Antonio Rossi, “Chiese dell’est”, che ha appena lanciato un programma di adozione a distanza di bambini russi e ucraini, spesso “liberati dagli orfanotrofi statali (alle volte autentici lager)”.
Alcuni anni fa, nel 2002, il patriarcato ortodosso di Mosca fece un documento in cui registrava allarmato che la minoranza cattolica si prende cura di troppi bambini e adolescenti, “soprattutto negli ospedali, nelle scuole secondarie e negli orfanotrofi”. “Sotto il pretesto delle cure degli orfani, recitava il documento, e dei bambini senza casa i cattolici (soprattutto rappresentanti di ordini religiosi femminili) coltivano una nuova generazione di cattolici adulti”.

Cosa accade, invece, in India, paese in cui la vita dei bambini, specie quella delle femmine, non vale gran che? In cui gli infanti vengono uccisi a milioni e la prostituzione infantile, secondo la “Storia dell’infanzia” della Laterza (vol. I, p. IX), riguarda circa quattrocentomila soggetti? E’ dall’opera di madre Teresa che sono nati orfanotrofi, asili, lebbrosari, case di accoglienza per anziani, ragazze madri, moribondi. In un crescendo di opere stupende che si sono diffuse poi in tanti altri paesi del mondo, talora nonostante l’opposizione dei governi. Opere che qualcuno fa presto a dimenticare, accecato dall’odio ideologico. Ma forse, se mandassi queste mie brevi e indignate considerazioni a don Giuseppe, mi risponderebbe: “Sì, caro Francesco, ma la barca di Pietro, oggi, è nella tempesta, anche per causa di tanti suoi uomini indegni, non solo pedofili, ma anche politicanti, mondani, pavidi, tiepidi… Forse Dio si servirà delle critiche e dell’odio strumentale di tanti ipocriti, per rimettere la sua barca, santa, sulla giusta rotta. Forse farà capire a tanti vescovi che devono tornare a fare i pastori, anzitutto dei loro sacerdoti: meno chiacchiere, meno convegni, meno interviste ai giornali sui fatti di cronaca… Più preghiera, più attenzione nei seminari, più spirito soprannaturale”.

Papa: tra scienza e fede non c’è opposizione, malgrado alcune passate “incomprensioni”

Papa: tra scienza e fede non c’è opposizione, malgrado alcune passate “incomprensioni”
Benedetto XVI illustra all’udienza generale la figura di sant’Alberto Magno, uomo di cultura “prodigiosa”. Il ricordo di Enrico Medi e degli scienziati che “hanno portato avanti le loro ricerche ispirati da stupore e gratitudine” verso il Creatore.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Tra fede e scienza “non vi è opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione che si sono verificati nella storia”: in quanto “il mondo naturale è un libro scritto da Dio, che noi leggiamo in base ai vari approcci offerti dalle scienze”. E’ il “dialogo” tra scienza e fede, tema caro a Benedetto XVI, del quale il Papa è tornato a parlare, oggi (ieri 24 Marzo 2010, ndr), nel discorso rivolto alle 11mila persone presenti in piazza san Pietro per l’udienza generale.
Occasione per riproprre il tema è stata data al Papa dall’illustrazione della figura di sant’Alberto Magno, “uno dei più grandi maestri della teologia scolastica”. Il titolo di “grande”, ha ricordato, “indica la vastità e la profondità della sua dottrina, che egli associò alla santità della vita”.
Nacque in Germania all’inizio del XIII secolo, e studiò a Padova, sede di una delle più famose università del Medioevo. Si dedicò alle cosiddette “arti liberali”: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica, manifestando un interesse per le scienze naturali, che sarebbe diventato “il campo prediletto della sua specializzazione”. A Padova frequentò i domenicani, ai quali poi si unì, “vincendo anche resistenze familiari”.
Dedicatosi all’insegnamento, frequentò anche l’università di Parigi e, nel 1248 fu incaricato di aprire uno studio teologico a Colonia, che divenne la sua città di adozione. “Da Parigi portò con sé a Colonia un allievo eccezionale, Tommaso d’Aquino”.
Nel 1254 Alberto fu eletto Provinciale della Provincia teutonica dei domenicani. Papa Alessandro VI lo volle come consulente teologo e lo nominò vescovo di Ratisbona. Dal 1260 al 1264 Alberto svolse questo ministero con infaticabile dedizione, riuscendo a portare pace e concordia nella città, a riorganizzare parrocchie e conventi, e a dare nuovo impulso alle attività caritative. “Fu soprattutto uomo di riconciliazione e di pace”; ”si prodigò durante lo svolgimento del II Concilio di Lione, nel 1274, convocato dal Papa Gregorio X per favorire l’unione tra la Chiesa latina e quella greca, dopo la separazione del grande scisma d’Oriente del 1054; egli chiarì il pensiero di Tommaso d’Aquino, che era stato oggetto di obiezioni e persino di condanne del tutto ingiustificate”. Morì nel suo convento della Santa Croce a Colonia nel 1280, fu beatificato nel 1622, e canonizzato nel 1931, da Pio XI, che lo proclamò Dottore della Chiesa e patrono dei cultori delle scienze naturali. E’ chiamato anche “Doctor universalis” proprio per la vastità dei suoi interessi e del suo sapere. Sant’Alberto fu infatti “grande uomo di Dio e insigne studioso non solo delle verità della fede, ma di moltissimi altri settori del sapere”, “la sua cultura ha qualcosa di prodigioso”.
Anche se “i metodi scientifici adoperati da sant’Alberto Magno non sono quelli che si sarebbero affermati nei secoli successivi”, egli “ha ancora molto da insegnare anche a noi. Soprattutto ci mostra che tra fede e scienza non vi è opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione che si sono registrati nella storia. Un uomo di fede e di preghiera, quale fu sant’Alberto Magno, può coltivare serenamente lo studio delle scienze naturali”, “scoprendo le leggi proprie della materia, poiché tutto questo concorre ad alimentare la sete e l’amore di Dio. La Bibbia ci parla della creazione come del primo linguaggio attraverso il quale Dio, che è somma intelligenza, che è Logos, ci rivela qualcosa di sé. Il libro della Sapienza, per esempio, afferma che i fenomeni della natura, dotati di grandezza e di bellezza, sono come le opere di un artista, attraverso le quali, per analogia, noi possiamo conoscere l’Autore del creato”.
Quanti scienziati, infatti, “hanno portato avanti le loro ricerche ispirati da stupore e gratitudine di fronte al mondo che, ai loro occhi di studiosi e di credenti, appariva e appare come l’opera buona di un Creatore sapiente e amorevole. Lo studio scientifico si trasforma allora in un inno di lode. Lo aveva ben compreso un grande astrofisico dei nostri tempi, di cui è stata introdotta la causa di beatificazione, Enrico Medi”.
Sant’Alberto Magno, insomma, “ci ricorda che tra scienza e fede c’è amicizia, e che gli uomini di scienza possono percorrere, attraverso la loro vocazione allo studio della natura, un autentico e affascinante percorso di santità”.
Il Papa ha ricordato anche che al grande pensatore si deve il superamento della “diffidenza” con la quale il pensiero cristiano del suo tempo guardava alle opere di Aristotele, che “dimostravano la forza della ragione, spiegavano con lucidità e chiarezza il senso e la struttura della realtà, la sua intelligibilità, il valore e il fine delle azioni umane”. Quella di sant’Alberto fu “un’autentica rivoluzione culturale”.
Sta qui uno dei grandi meriti di sant’Alberto: “con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto che tutto ciò che è razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture, ha così contribuito alla formazione di una filosofia autonoma, distinta dalla teologia”. “Così è nata una chiara distinzione tra filosofia e teologia, che, in dialogo tra di loro, cooperano armoniosamente alla scoperta dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine: ed è soprattutto la teologia, definita da sant’Alberto ‘scienza affettiva’, quella che indica all’uomo la sua chiamata alla gioia eterna, una gioia che sgorga dalla piena adesione alla verità”.

Un nuovo servizio di Google News...

Stamattina, andando a vedere se qualcuno parla di Chesterton sulla stampa on line, abbiamo fatto il solito "check" su Google News.
Lo strumento di per sé è ben lungi dall'essere perfetto, non sempre segnala tutto (nonostante quello che si dica del più famoso e discusso motore di ricerca del mondo) e a volte cambiando di poco i criteri escono cose che dovrebbero uscire già ad una ricerca semplicissima, e via dicendo.
Però stamattina sulla pagina della ricerca campeggiava una citazione di Chesterton in un riquadro azzurrino, e cliccando su un collegamento si arriva ad una pagina (che riportiamo nel suo contenuto qui sotto) che si intitola "Citazioni di Chesterton".
Come vedete, provengono tutte dal mondo anglosassone e sono comunque risalenti al mese corrente.
Google si è messo a farci concorrenza!
Ma a noi va bene, serve per dimostrare quello che diciamo da molti molti anni: CHE CHESTERTON E' ATTUALE, ANZI VORREMMO DIRE, CHE E' PIU' "ATTUALE" DI NOI CHE ABBIAMO LA FORTUNA IMMERITATA DI CAMMINARE IN QUESTO MONDO E DI CERTO LUI QUESTO MONDO LO AVEVA CAPITO MEGLIO!


No matter what, Alice will always be a top fashion muse because, as English writer GK Chesterton wrote in "A Defence of Nonsense," a 1902 Alice-related essay, "a thing cannot be completely wonderful so long as it remains sensible."
25/feb/2010 Minneapolis Star Tribune

I reminded her of the words of GK Chesterton, who said, "An adventure is only an inconvenience rightly considered. An inconvenience is only an adventure wrongly considered."
09/mar/2010 Bluff Country Reader

That patriot of "Little England" GK Chesterton said more than a century ago: "The British Empire may annex what it likes, it will never annex England. It has not even discovered the island, let alone conquered it" (Tremendous Trifles).
18/mar/2010 Nolan Chart LLC

Chesterton called abortion a "more than usual barbaric form of birth control," and predicted that what was being done to babies then, would also eventually be done to people at the other end of life.
11/mar/2010 Sioux City Catholic Globe

"When people stop believing in God," GK Chesterton is widely believed to have said, "they don't believe in nothing - they believe in anything."
13/mar/2010 The Guardian

MEDIA ADVISORY, March 2 /Christian Newswire/ -- In his Autobiography, GK Chesterton mentions creating the "well-known and widespread national game of Gype" with his friend, HG Wells, although the game has never been invented - until now.
02/mar/2010 Christian News Wire (press release)

For example, when GK Chesterton wrote that, "anything worth doing is worth doing badly" I think he was worried about the tendency of "modern" people to pay good money to see other people do for us what we ordinarily enjoy doing for ourselves.
17/mar/2010 Carroll County News (blog)

mercoledì 24 marzo 2010

Cina - Arrestato un altro sacerdote sotterraneo nel Fujian



Ha organizzato un campo per 300 universitari. Con lui, incriminati altri sette sacerdoti. Uno di essi, p. Luo, è stato detenuto per 15 giorni e poi rilasciato. Altri due attendono di essere arrestati. Decine di sacerdoti sono in prigione o nei campi di lavoro forzato; tre vescovi sono scomparsi da anni nelle mani della polizia. Oggi si conclude l’incontro della Commissione vaticana sulla Chiesa in Cina.


Fuan (AsiaNews/Ucan) – Un sacerdote sotterraneo della diocesi di Mindong (Fujian) è stato arrestato il 19 marzo scorso. P. Liu Maochun, 36 anni, è stato preso dalle forze di sicurezza il giorno dopo la liberazione di un altro sacerdote, p. Giovanni Battista Luo Wen, rilasciato dopo 15 giorni di detenzione. L’arresto di p. Liu avviene in concomitanza con un incontro plenario della Commissione vaticana sulla Chiesa in Cina.

P. Liu e p. Luo fanno parte di un gruppo di sette sacerdoti non riconosciuti dal governo, che fra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio hanno tenuto due campi per 300 giovani universitari della diocesi. Tale attività, secondo i regolamenti del ministero degli affari religioni è illegale perché svolta al di fuori del controllo del governo e dell’Associazione patriottica. Durante lo svolgimento del campo, presso la chiesa di Saiqi, le forze di sicurezza hanno minacciato i sacerdoti e i giovani e ordinato di cancellare l’incontro. I sacerdoti invece hanno continuato fino alla fine, incoraggiando i giovani a fare altrettanto. Circa un mese dopo p. Luo è stato arrestato. In precedenza aveva dichiarato ad AsiaNews che egli era “pronto ad andare in prigione”, che non aveva “nulla da temere” e che era “orgoglioso di essere un sacerdote cattolico, desideroso di professare la fede anche con le azioni”. E aveva aggiunto: “Sarei felice di servire come testimone di Cristo e seguire l’esempio di tanti santi martiri”.

Altri due sacerdoti, p. Guo Xijin e p. Miu Yong hanno ricevuto l’avviso di arresto, e pensano che saranno detenuti nel prossimo futuro. A tutti e sette i sacerdoti coinvolti è stata comminata una multa di 500 yuan (circa 50 euro).

In un’intervista ad Ucan, p. Luo ha raccontato della sua prigionia: ha vissuto per 5 giorni un una stanza di 40 metri quadri con altre 21 carcerati, in maggioranza drogati e giocatori d’azzardo. Un grosso scalone di cemento serviva da letto per tutti; alcuni dormivano per terra. Non vi erano servizi e per lavarsi occorreva andare in un cortile vicino. Mentre gli altri detenuti potevano ricevere visite due volte la settimana, al p. Luo è stato negato questo diritto.

Secondo i regolamenti sulle attività religiose, chi opera al di fuori del controllo del regime è considerato un “delinquente”.

La diocesi di Mindong è nella quasi totalità costituita da fedeli della Chiesa sotterranea: su 80 mila cattolici, più di 70 mila sono clandestini, molto organizzati e vivi, con oltre 50 sacerdoti, 96 suore e 400 laici catechisti.Il loro vescovo è mons. Vincenzo Huang Shoucheng, di 86 anni. Mindong ha anche un vescovo patriottico, mons. Zhan Silu, seguito da pochi fedeli.

La Chiesa sotterranea è perseguitata perché rifiuta l’adesione all’Associazione patriottica, l’organismo del Partito comunista che controlla le attività della Chiesa e vuole costituire una Chiesa indipendente dalla Santa Sede.

Secondo fonti di AsiaNews, al momento vi sono in Cina almeno 10 sacerdoti della Chiesa sotterranea detenuti o in campi di lavoro forzato. La maggior parte dei vescovi della Chiesa non ufficiali sono impediti a svolgere il loro ministero; tre di loro sono scomparsi da anni nelle manid ella polizia e non si sa il luogo della loro detenzione.

Il primo è mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 75 anni, arrestato e scomparso dal 1996. Nel novembre 2003 è stato visto nell'ospedale di Baoding, controllato dalla polizia, dove ha subito cure al cuore e agli occhi. Ma dopo pochi giorni è scomparso ancora.

Il secondo è mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 86 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001. Mons. Shi, ordinato vescovo nel '82, era stato in prigione per 30 anni. L'ultima volta fu arrestato nel dicembre '90, poi rilasciato nel '93. Da allora aveva vissuto in isolamento forzato fino al suo ultimo arresto.

Il terzo e mons. Giulio Jia Zhiguo, 74 anni, vescovo di Zhengding (Hebei), sequestrato lo scorso 30 marzo, proprio durante un incontro della Commissione vaticana sulla Cina. A conclusione del raduno, una dichiarazione del Vaticano ha chiesto la sua liberazione (Cfr.: 31/03/2009 Sequestrato dalla polizia mons. Jia Zhiguo, vescovo sotterraneo di Zhengding e 02/04/2009 “Dolore” del Vaticano per l’arresto di mons. Jia Zhiguo. La Chiesa e la formazione).

Proprio in questi giorni si tiene in Vaticano l’incontro plenario della Commissione sulla Chiesa in Cina, focalizzata sulla formazione dei cattolici cinesi, soprattutto quella di sacerdoti e religiose.

martedì 23 marzo 2010

Punjab: morto il cristiano arso vivo, la comunità cristiana chiede giustizia



di Fareed Khan

Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano, è deceduto ieri sera alle 7.45 per le gravissime ferite riportate. La famiglia chiede che venga eseguita l’autopsia prima dei funerali. Associazioni cristiane e attivisti per i diritti umani manifestano all’esterno dell’ospedale. Leader cattolico: il governo federale e provinciale non punisce i colpevoli.


Islamabad (AsiaNews) – È morto ieri sera in ospedale per le gravissime ferite riportate – ustioni sull’80% del corpo – Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano, bruciato vivo perché ha rifiutato di convertirsi all’islam. I funerali dell’uomo, deceduto dopo tre giorni di agonia, dovrebbero svolgersi nel tardo pomeriggio di oggi, ma la famiglia chiede che “prima venga eseguita l’autopsia”. La comunità cristiana pakistana condanna “con fermezza” l’ennesimo episodio di violenza e denuncia la “lentezza” del governo federale e provinciale nel punire i responsabili.

Il 19 marzo scorso un gruppo di estremisti islamici ha bruciato vivo Arshed Masih, autista alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano di Rawalpindi. La moglie lavorava come domestica nella stessa tenuta, situata di fronte a una caserma di polizia. Negli ultimi tempi erano emersi dissapori fra il datore di lavoro, Sheikh Mohammad Sultan, e la coppia a causa della loro fede cristiana. I coniugi avevano subito minacce e intimidazioni perché si convertissero all’islam.

Arshed Masih (nella foto) è deceduto ieri sera alle 7.45 ora locale dopo tre giorni di agonie e sofferenze all’ospedale della Sacra famiglia a Rawalpindi, provincia del Punjab. La moglie Martha Arshed è stata stuprata dai poliziotti ai quali voleva denunciare le violenze inflitte al marito. I tre figli della coppia – dai 7 ai 12 anni – sono stati costretti “con la forza” ad assistere ai supplizi inflitti ai genitori.

Dal 2005 Arshed Masih e la moglie lavoravano e vivevano nella tenuta di Sheikh Mohammad Sultan. Le pressioni perché abbandonassero il cristianesimo, negli ultimi tempi, si erano fatte incessanti. Il padrone era giunto persino a minacciare “terribili conseguenze”, per convincerli ad abbracciare l’islam. I coniugi erano stati anche accusati di un furto avvenuto di recente nella villa dell’uomo, il quale ha promesso di lasciar cadere la denuncia in caso di conversione.

I funerali di Arshed Masih si dovrebbero svolgere nel tardo pomeriggio di oggi, anche se nella zona resta alta la tensione. Testimoni locali riferiscono ad AsiaNews che “l’intera famiglia è sotto shock e chiede che venga eseguita l’autopsia prima delle esequie”. Numerose associazioni cristiane e attivisti per i diritti umani – fra cui Life for All, Christian Progressive Movement, Pakistan Christian Congress and Protect Foundation Pakistan – “stanno attuando manifestazioni di protesta all’esterno dell’ospedale”.

Peter Jacob, segretario esecutivo di Giustizia e pace della Chiesa cattolica pakistana (Ncjp), esprime ad AsiaNews “la più ferma condanna” per i delitto dell’uomo e lo stupro della donna, perpetrato da poliziotti che dovrebbero tutelare l’ordine e la legalità. L’organismo cattolico si è attivato per garantire tutela alla donna e ai figli, dei quali non si hanno al momento notizie.

L’attivista cattolico sottolinea con rammarico il silenzio del Ministro federale per le minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti, e denuncia “la lentezza e l’immobilismo del governo federale e provinciale”. “L’esecutivo – sottolinea Peter Jacob – non ha ancora compiuto passi concreti per impedire violenze e abusi sulle minoranze e punire i colpevoli”.

Il sito BosNewsLife.com aggiunge che ieri il governo provinciale del Punjab ha bloccato marce di protesta dei cristiani, con il pretesto di “minacce terroristiche”. La comunità locale intendeva dimostrare contro il “rifiuto” della polizia di arrestare i colpevoli del crimine.

La preghiera islamica in strada e lo Stato di diritto


di Samir Khalil Samir, SJ

Un gruppo di persone si ferma in preghiera alla Galleria di Milano. I vigili, chiamati, dicono di non poterli interrompere. Ma tutte le manifestazioini in strada vanno autorizzate e la legge deve essere al di sopra di tutto.


Milano (AsiaNews) - Ho letto una notizia che mi ha fatto sobbalzare. La scena è a Milano, in mezzo alla Galleria Vittorio Emanuele, mercoledi 17 marzo alle 17:00. Un gruppo di 7 persone si ferma davanti al negozio di argenteria di Giorgio Bernasconi. Tolgono le scarpe e le giacche, le stendono a terra e vi si inginocchiano. Uno di loro fa l’imam e guida il gruppo, che inizia la preghiera del ‘asr. Il proprietario del negozio chiede loro di allontanarsi dalla sua vetrina. Niente. Il proprietario chiama i vigili, i quali rispondono “che stavano pregando e non potevano fare niente".

Bernasconi spiega : “Nel salotto di Milano, ogni tipo di manifestazione deve essere autorizzata. Ci sono i vigili che segnalano persino quando un artista appoggia un treppiede su un mosaico e se qualcuno si azzarda ad andare in bicicletta, scatta la multa. E invece a loro non hanno fatto nulla, non hanno nemmeno controllato i documenti”. I musulmani hanno spiegato che “quando arriva il momento della preghiera, in qualsiasi luogo si trovino, si inginocchiano e iniziano la loro liturgia”.

Non è certo la prima volta che succede una tale scena. A viale Jenner è uno spettacolo abituale, come in tanti quartiere di tutte le città d’Europa. E’ ovvio che, in questo caso almeno, l’azione è stata pianificata e organizzata per dare una “testimonianza” ai “miscredenti” (kuffâr) d’Occidente!

E’ un atto di propaganda religiosa ben studiato!

Ma lo scandalo non è tanto l’atteggiamento degli oranti. E’ la reazione dei vigili e della città. La strada appartiene a tutti, e nessuno ha diritto di monopolizzarla, fosse per un quarto d’ora, senza autorizzazione. Non importa il motivo : processione del Santissimo o preghiera, manifestazione politica, sociale, sportiva o altro. La strada appartiene a tutti e non puo’ essere monopolizzata da chiunque senza previa autorizzazione.

Al di là del fatto stesso c’è una questione di principio. La legge è al di sopra di tutto e di tutti, anche al di sopra della religione. In questo caso, non è certo un obbligo per il musulmano di fare la preghiera immediatamente e per strada. La stragrande maggioranza dei musulmani osservanti, nei Paesi musulmani, aspettano di essere tornati a casa per fare la preghiera. Inoltre, la sharia islamica autorizza il fedele a cumulare due preghiere quando la necessità lo richiede. Dunque non si puo’ nemmeno accampare l’obbligo religioso per giustificarte tale comportamento. E comunque non sarebbe neppure una giustificazione ! E’ puramente un atto propagandistico e di proselitismo.

Il problema è doppio. D’una parte, il musulmano tende spesso a pensare che la religione è al di sopra della legge e delle norme civili. E ciò perché il concetto di laicità è quasi inesistente nei Paesi musulmani, nonostante le teorie di qualche "orientalista" che pretende che l’islam, non avendo clero come il cristianesimo, è una religione laica; ma tutti sanno nei nostri Paesi che il clericalismo islamico supera di molto quello cristiano, anche del cristianesimo ortodosso! Nella mentalità comune, la "Legge divina" (ma è divina per chi?) supera la legge umana. Inoltre, la propaganda islamica, la Da’wah, è un obbligo religioso: ogni musulmano è tenuto a proclamare la professione di fede alla faccia degli empi, e d’invitarli all’islam, unica vera fede.

D’altra parte, l’Homo Europaeus è diventato perplesso e dubita di se stesso. Talvolta si comporta con arroganza di fronte agli altri, e talvolta tace e si lascia soverchiare davanti agli altri come se si sentisse colpevole e avesse bisogno di perdono. Eppure l’Europa, malgrado tutti i suoi difetti (sopratutto il suo vuoto spirituale) può essere fiera del suo sistema socio-politico. L’errore è di rinunciare ad applicarlo in nome di una falsa multiculturalità. Le norme del Paese, qualunque sia, valgono per tutti. Anche se fossero sbagliate, valgono finchè non sono sostituite da altre norme dall’autorità legittima. Ogni concessione è un passo indietro per tutti.

Speriamo che quel piccolo incidente non si ripeterà più, perché ognuno capisca ciò che significa uno Stato di diritto.

Cristiani pakistani rifiutano di convertirsi: marito bruciato vivo, moglie stuprata dalla polizia

di Fareed Khan

La coppia lavorava alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano a Rawalpindi. I tre figli – dai 7 ai 12 anni – costretti con la forza ad assistere alle violenze. L’uomo è ricoverato con ustioni sull’80% del corpo. I sanitari: “non sopravviverà”. Organizzazioni cristiane hanno indetto marce di protesta.


Islamabad (AsiaNews) – Combatte ancora fra la vita e la morte Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano ricoverato da tre giorni all’ospedale della Sacra famiglia a Rawalpindi, città poco distante dalla capitale Islamabad. Egli è stato bruciato vivo da un gruppo di estremisti musulmani, con la connivenza della polizia, perché si è rifiutato di convertirsi all’islam. Fonti locali rivelano ad AsiaNews che la moglie “è stata stuprata dagli agenti”. L’incidente è avvenuto il 19 marzo scorso, in una tenuta situata di fronte alla caserma di polizia.

Dal 2005 Mashid e la moglie lavoravano alle dipendenze di un ricco uomo d’affari musulmano della città, come autista l’uomo e domestica la moglie. Negli ultimi tempi erano emersi dei dissapori fra il datore di lavoro e la coppia, a causa della loro fede cristiana.

Fonti locali riferiscono che la donna, Martha Arshed, è stata “stuprata dagli agenti di polizia”. I tre figli della coppia, inoltre, di età fra i 7 e i 12 anni, hanno dovuto assistere – costretti con la forza – alle violenze commesse ai danni dei genitori. “Masih e la moglie sono attualmente sottoposti a trattamento sanitario” confermano fonti interne dell’ospedale della Sacra Famiglia. Il sito BosNewsLife aggiunge che “l’uomo è in condizioni gravissime, con ustioni sull’80% del corpo”.

Ieri il governo del Punjab ha ordinato l’apertura di un’inchiesta per far luce sulla vicenda. “Il caso è sottoinvestigazione – conferma Rana Sanaullah, Ministro della giustizia del governo del Punjab – e i colpevoli saranno arrestati”. Nel frattempo i sanitari dell’ospedale della Sacra famiglia, a Rawalpindi, sottolineano che Arshed Masih (nella foto), 38 anni, presenta ustioni sull’80% del corpo e “non sopravviverà” all’incidente.

La coppia cristiana viveva con i figli nella tenuta di Sheikh Mohammad Sultan, ricco uomo d’affari musulmano, nella zona riservata ai domestici. Nel gennaio scorso leader religiosi locali e il datore di lavoro hanno imposto alla famiglia – genitori e figli – di convertirsi all’islam. Al rifiuto opposto da Mashid e la moglie, i fondamentalisti li hanno minacciati avvertendoli che avrebbero subito “conseguenze terribili”.

L’uomo ha proposto di lasciare il lavoro e la casa dell’uomo d’affari musulmano, ma questi gli ha risposto che lo avrebbe “ucciso” nel caso in cui fosse partito. La settimana scorsa le tensioni sono aumentate a causa di un furto subito da Sheikh Mohammad Sultan: dei ladri avrebbero fatto irruzione nella sua abitazione, rubando denaro contante per 500mila rupie (circa 6mila dollari).

La polizia ha aperto un’indagine sul furto, ma non ha iscritto la coppia cristiana nel registro degli indagati. Tuttavia, l’uomo d’affari musulmano ha offerto di lasciar cadere le accuse contro Masih nel caso in cui si fosse convertito all’islam. L’uomo ha inoltre aggiunto: “altrimenti non vedrete più i vostri figli”. Il resto è cronaca degli ultimi giorni: Arshed Masih è rimasto saldo nella fede cristiana; il 19 marzo scorso egli è stato bruciato vivo e la moglie stuprata dalla polizia.

Shahbaz Batti, cattolico, Ministro federale per le minoranze, ha rifiutato di commentare la vicenda dicendo di essere “impegnato”. Egli ha promesso di rilasciare dichiarazioni sul caso nei prossimi giorni. Oggi diverse organizzazioni cristiane a Rawalpindi e Lahore hanno indetto una serie di manifestazioni di protesta.

lunedì 22 marzo 2010

Sulla bella lettera di Benedetto alla nuova Corinto d’Irlanda

di Giuliano Ferrara - Il Foglio - 22 Marzo 2010

La lettera del Papa sugli abusi dei preti in Irlanda è molto bella, nella sua tristezza e nella sua speranza, ma sopra tutto nella sua lingua severa, ferma, sincera, con un’espressività che viene da due millenni di saggezza pastorale e di drammi dell’incarnazione e della storia.
Il Papa attua una conversazione paolina e paterna con la comunità umana irlandese, con questa specie di nuova Corinto inselvatichita nel peccato e nel crimine; e conversa sotto la sorveglianza teologica e morale di concetti per noi del tutto desueti, almeno nel secolo e nell’orizzonte fondamentalmente non cristiano o post cristiano del nostro tempo: il pentimento, la riconciliazione, la preghiera e l’adorazione eucaristica come mezzi speciali di guarigione e di rinnovamento nella fede, da affiancare all’esame di coscienza, alla denuncia canonica e penale, alla piena disponibilità richiesta di rispondere, non solo davanti a Dio, ma anche davanti ai tribunali del male fatto alla dignità umana da parte degli abusatori.
Benedetto, e non poteva essere diversamente, ha fatto la sua parte di custode del gregge con l’intelligenza sensibile che le persone non prevenute gli riconoscono, mettendo in rilievo la necessità di risarcire le vittime degli abusi di quanto non è umanamente risarcibile, e dunque spostando per quanto possibile sul terreno dello spirito dannazioni che nascono nel campo di battaglia della carne. Un gesto di intonazione monacale, davvero benedettino.
Da subito, la lettera è stata criticata con asprezza dai soggetti che nel mondo nutrono la campagna anticattolica e alimentano la sua risonanza mediatica, con lo scopo di modificare nel profondo la natura speciale della chiesa cattolica, secolarizzandola a forza, democratizzandola, assoggettandola mediante assedio culturale e civile a protocolli ad essa estranei, e naturalmente demonizzando la sua vita vera e intera, deformando e sfigurando il suo volto umanodivino (che è poi Cristo), svalutando miserevolmente il tesoro di virtù, di eroismi e santità di cui la chiesa cattolica, insieme con molte altre denominazioni cristiane, è testimone ai quattro angoli del mondo.
Non ho mai letto, per converso, un documento autorevole così raggiante di ispirazione etica, così rigoroso e autentico, con il quale il secolo e le sue istituzioni abbiano mai connotato, assumendosene pienamente le responsabilità, le immense pene inferte all’umanità dal processo della storia e della cultura e della spiritualità che ha rifiutato Cristo, il trascendente, la chiesa stessa. Altro che la pedofilia di alcuni preti.
Il Novecento è stato il secolo del Gulag e della Shoah, ma nessuna confessione pubblica, nessuna proclamazione di vergogna, nessuna ostentazione umile di rimorso, nessuna analisi spiritualmente impegnativa è davvero stata prodotta, e nemmeno tentata, dai guardiani della storia, dalle forze che hanno ingaggiato la brutale corsa atea e profana dei tempi moderni.
Una corsa che, adesso, vuole tagliare il traguardo della punizione finale della chiesa per le colpe di alcuni sui figli. E vuol farlo piena di buona coscienza e di lurida voluttà. Che laica vergogna, è il caso di dire.

© Copyright Il Foglio, 22 marzo 2010

IL CASO/ La Gran Bretagna discrimina i cristiani e si affida ai tribunali islamici


da Il Sussidiario

Gianfranco Amato

lunedì 22 marzo 2010

Hamilton Burns WS, Solicitors & Solicitor Advocates, è il primo studio legale britannico specializzato in diritto islamico. L’iniziativa è partita dalla Scozia, Glasgow per la precisione, e rappresenta un ulteriore allarmante segnale della crescente diffusione della sharia nel Regno Unito. Non tutti sanno, infatti, che proprio in virtù di una legge varata quattordici anni fa (Arbitration Act 1996) l’applicazione stragiudiziale della sharia su questioni attinenti al diritto di famiglia (divorzio e custodia dei figli), e su questioni economico-finanziarie, è oggi pienamente riconosciuta in Gran Bretagna.

Proprio a seguito di quella legge sono sorti i Muslim Arbitration Tribunal (MAT), le cui decisioni hanno valore legale al pari delle sentenze emesse dai tribunali ordinari di Sua Maestà. Sono attualmente più di un’ottantina (ma continuano ad aumentare in maniera esponenziale) le “corti islamiche” giudicanti su materie che sono, comunque, lasciate alla libera disponibilità delle parti.

Il punto è che a tali arbitrati stanno sempre più ricorrendo anche non musulmani, attratti dall’informalità del relativo procedimento, ritenuto “less cumbersome” (meno gravoso) rispetto al sistema giudiziario britannico. Ad esempio, la sharia tiene conto anche di semplici accordi verbali su questioni per le quali la legge inglese prescrive come obbligatoria la forma scritta.

I non musulmani ricorrono ai Muslim Arbitration Tribunal quasi esclusivamente per questioni di carattere patrimoniale, e i loro contenziosi rappresentano il cinque per cento dei casi affrontati da quei particolari organi giudicanti. Ciò che appare incredibile in questa vicenda è la sottovalutazione del fenomeno da parte degli addetti ai lavori. Anzi, due anni fa il barone Nicholas Phillips of Worth Matravers, che ricopre la prestigiosa carica di Lord Chief Justice ed è uno dei più autorevoli magistrati inglesi, parlando in una moschea di Londra, non esitò ad affermare che, secondo la sua opinione, alcune parti del sistema legale islamico potevano benissimo essere utilizzate per dirimere questioni tra musulmani britannici.

L’illustre giurista non vedeva alcuna ragione al mondo perché i principi della sharia non dovessero essere utilizzati per regolare in via compromissoria contenziosi legali. In realtà non si è tenuto conto di due fattori niente affatto secondari. Il primo è che questa forma di giustizia alternativa, capace di attirare sempre più anche individui non musulmani, rientra comunque nella prospettiva di conversione tipica dell’Islam.

E’ pur sempre una forma culturale di espansione che riesce oggettivamente ad avere una sua presa, soprattutto in chi oggi – e sono molti purtroppo in Gran Bretagna –, avendo completamente smarrito la propria identità, è perennemente in cerca di un quid che riesca a definirlo. Fosse anche la proposta religiosa di Maometto.

Il secondo fattore sottovalutato è costituito dalla condizione della donna. Non è un caso che la notizia dell’iniziativa da parte dello studio legale di Glasgow abbia scatenato la reazione di Maryam Namazie, portavoce dell’associazione “One Law for All” (Una legge per tutti) che da anni promuove una campagna anti-sharia.

Maryam Namazie ha ribadito, parlando proprio a proposito dello studio Hamilton Burns WS, quanto il diritto islamico sia «antitetico rispetto alle leggi per cui hanno duramente combattuto e vinto i movimenti sociali progressisti, in particolare nell’ambito del diritto di famiglia», precisando, inoltre, che «l’applicazione della sharia in campo civile si pone in perfetta sintonia e continuità culturale rispetto alla stessa legge adottata in campo penale nei Paesi islamici, quella che prevede, tra l’altro, pene corporali come la lapidazione, l’amputazione, la fustigazione».

Sempre a proposito dell’iniziativa degli avvocati scozzesi dello studio Hamilton Burns WS, Joshua Rozenberg, uno dei più noti commentatori britannici in ambito legale ed una delle rare voci che attualmente mettono in guardia l’opinione pubblica sui rischi della diffusione della sharia nel Regno Unito, ha tenuto a precisare: «Per la legge islamica una donna non è considerata uguale all’uomo. Per cui si può arrivare al paradosso che una donna britannica sia trattata diversamente a seconda che a decidere sia un tribunale islamico o una corte laica». «Senza parlare del rischio», ha continuato Rozemberg, «che le donne musulmane possano non essere libere di scegliere ed essere, invece, fortemente condizionate dalla comunità ad adire un Muslim Arbitration Tribunal, anziché un tribunale ordinario». La questione mi ha particolarmente colpito. Anche perché ero curioso di conoscere quale tipo di consigli legali lo studio Hamilton Burns WS avrebbe fornito ai clienti islamici in materia di diritto di famiglia.

Sono così riuscito a recuperare le norme oggi applicate dai Muslim Tribunal Arbitration, peraltro facilmente accessibili anche online e comunque raccolte in diverse pubblicazioni, tra cui quella di Dennis MacEoin, edita nel febbraio 2009 per conto della londinese Civitas: Institue for the Study of Civil Society. Ne è venuto fuori un interessante florilegio.

Ad esempio: «una donna musulmana non può, in nessuna circostanza, sposare un uomo non musulmano, a meno che questi non si converta all’Islam, e nel caso tale regola venisse violata, alla donna verrebbe sottratta la custodia del figlio, a meno che non risposi un uomo musulmano»; «la moglie non può rifiutare di concedersi sessualmente ogni volta che il marito lo pretenda» (ma non vale il contrario); «una donna non può più convivere col marito se questi dovesse abbandonare l’Islam»; «i non-musulmani possono essere privati dei propri diritti in caso di successione»; «una donna non ha alcun diritto patrimoniale in caso di divorzio»; «la sharia deve comunque prevalere sui giudizi delle corti britanniche»; «i diritti sulla custodia dei minori possono differire da quelli previsti dalla vigente normativa britannica in materia»; «sottoscrivere assicurazioni per i musulmani è proibito, anche se imposto dalla legge statale»; «non esiste alcun obbligo di registrare un matrimonio, nonostante quanto prevedano le leggi britanniche»; «un avvocato musulmano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi della sharia»; «una donna non può lasciare la propria abitazione senza il consenso del marito» (cosa che, peraltro, potrebbe integrare il reato di sequestro di persona); «l’adozione legale è proibita»; «una donna non può avere la custodia dei propri figli una volta che compiano 7 anni (per i maschi) e 9 anni (per le femmine)»; «una donna non può sposarsi senza la presenza ed il permesso di tutore maschio»; «un figlio illegittimo non può ereditare dalla linea paterna»; e così via.

Resta l’amarezza per la situazione sempre più schizofrenica in cui vive la società britannica. Da una parte vi è una sorta di odioso accanimento discriminatorio nei confronti dei cristiani e dall’altra una pavida accondiscendenza nei confronti della sempre più potente e temuta comunità islamica. Inimmaginabile sarebbe stata la reazione dell’anticlericale ed iperlaicista Terry Sanderson, presidente della National Secular Society, o dell’ateissima Polly Toynbee, presidente della British Humanist Association, se si fosse solamente ipotizzata l’idea di creare dei Christian Arbitration Tribunal, nei quali la regola fosse che «un avvocato cristiano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi del diritto naturale». Apriti cielo!

Un’altra grave contraddizione di questa fragilissima società ormai alla deriva, emerge dal fatto che mentre si rasenta il ridicolo nell’esasperata esaltazione del principio di parità tra uomo e donna, si tollera, attraverso un connivente silenzio, il modo con cui vengono trattate le donne nei Muslim Arbitration Tribunal. Proprio nella patria del politically correct.

Solo pochi giorni fa, la House of Commons, su proposta di Harriet Harman – considerata un’icona dei diritti per le donne –, ha approvato con 206 voti favorevoli e 90 contrari, l’abolizione dal vocabolario parlamentare della parola “chairman” (presidente), ritenuta sessista, e la sostituzione con quella più neutra di “chair”. Le femministe hanno esultato per la grande conquista. Ormai il senso del ridicolo ha ceduto alla malinconia della pateticità. Che tristezza!

Contro chi sputa sui preti

Da Il Foglio del 20 Marzo 2010

Ci scrive un missionario indignato per la campagna dei media sulla pedofilia

Sono in Italia da alcuni giorni e sono davvero amareggiato, addolorato per questi continui attacchi al Santo Padre, ai sacerdoti, alla Chiesa cattolica, usando la diabolica arma della pedofilia. E’ vero, questo argomento sembra interessare più a certi giornali e alle loro fantasie e allucinazioni che al pubblico: perché ho incontrato migliaia di persone e per lo più giovani, ma nessuno mi ha posto una domanda su questa questione. Il che significa che, sebbene esista questo flagello nel mondo e abbia intaccato anche la chiesa, con la dura, chiara e forte condanna del Santo Padre, siamo lontani anni luce da quel fenomeno di massa, come se tutti i preti fossero pedofili, come vogliono farci credere. Sono quarant’anni che sono sacerdote, sono stato in diverse parti del mondo, ho vissuto in brefotrofi, scuole, internati per bambini, ma non ho mai trovato un collega colpevole di questo delitto. Non solo, ma ho vissuto con sacerdoti, religiosi che hanno dato la vita perché questi bimbi avessero la vita.

Attualmente vivo in Paraguay,
la mia missione abbraccia tutto l’umano nella sua povertà, quell’umano gettato nell’immondizia dal sensazionalismo dei media. Da 20 anni condivido la mia vita con prostitute, omosessuali, travestiti, ammalati di Aids, raccolti per le strade, negli immondezzai, nelle favelas e me li porto a casa dove la Provvidenza divina ha creato un ospedale di primo mondo come struttura architettonica, ma paradisiaco come clima umano. E in questa “anticamera del Paradiso”, come lo chiamano loro, li accompagno al Paradiso. Hanno vissuto come “cani” e muoiono come principi. Vicino alla clinica, sempre la Provvidenza ha creato due “case di Betlemme” per ricordare il luogo dove è nato Gesù, che raccolgono 32 bambini, molti di essi violentati dai patrigni o dal compagno occasionale della “madre”. Tutti i giorni ho a che fare con situazioni terribili e indescrivibili. Spesso non ho neanche la capacità di leggere i referti delle assistenti sociali, tanto sono orrende le violenze sessuali subite dai miei bambini. Eppure, dopo alcuni mesi che sono con noi, respirano un’altra aria, quell’aria che solo il fatto cristiano e l’amore di noi sacerdoti contro cui i mostri del giornalismo si scagliano, facendo di ogni erba un fascio. Aveva ragione Pablo Neruda quando definiva certi giornalisti “coloro che vivono mangiando gli escrementi del potere”.

La certezza che “io sono Tu che mi fai” che sono frutto del Mistero e non l’esito dei miei antecedenti, per quanto pessimi possano essere stati, si trasmette come per osmosi nel cuore dei miei bambini che ritrovano il sorriso. Come si trasmette anche sui “mostri” (se così vi piace chiamarli voi giornalisti… a cui tanto assomigliate per la vostra ipocrisia) parlo di quelli che sembrano divertirsi a sputare contro la chiesa) che in fondo a loro volta, spesso, sono vittime e carnefici, vittime da piccoli e carnefici da grandi, avendo vissuto come bestie. Il mio cuore di prete mentre do la mia vita per questi innocenti non può non dare la vita, come Gesù, anche per coloro di cui Gesù ha detto con parole fortissime “prima di scandalizzare uno di questi piccoli è meglio mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel profondo del mare”.
Sono solo alcuni esempi, di milioni, della carità della chiesa. Mi fa soffrire questo sputare nel piatto nel quale, Dio lo voglia, anche certi morbosi giornalisti, un domani si troveranno a mangiare, perché se uno sbaglia non significa che la chiesa sia così. Questa chiesa che è il respiro del mondo. Non vi chiedete cosa sarebbe di questo mondo senza questo porto di sicura speranza per ogni uomo, compresi voi che in questi giorni come corvi inferociti vi divertite sadicamente a sputare sopra il Suo Casto Volto? Venite nel terzo mondo per capire cosa vuol dire migliaia di preti e suore che muoiono dando la vita per i bambini. Venite a vedere i miei bambini violentati che alcuni giorni fa prima di partire per l’Italia piangevano chiedendomi: “Papà quando torni?”.

Non voglio strappare le lacrime a voi
che siete come le pietre ma solo ricordarvi che anche per voi un giorno quando la vita vi chiederà il “redde rationem vilicationis tuae” questa chiesa, questa madre contro cui avete imparato bene il gioco dello sputo, vi accoglierà, vi abbraccerà, vi perdonerà. Questa madre, che da 2000 anni è sputacchiata, derisa, accusata e che da 2000 anni continua a dire a tutti coloro che lo chiedono: “Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo”.
Questa madre, che sebbene giudichi e condanni duramente il peccato e richiami duramente il peccatore reo di certi orrendi delitti, come la pedofilia, non chiude e non chiuderà mai le porte della sua misericordia a nessuno. Mi confortano le parole di Gesù “le porte dell’inferno non prevarranno mai”. Come mi conforta l’immensa santità che trabocca dal suo corpo di “casta meretrix”.
Allora non perdiamo tempo dietro i deliri di alcuni giornalisti che usano certi esecrabili casi di pedofilia per attaccare l’Avvenimento cristiano, per mettere in discussione la perla del celibato, ma guardiamo le migliaia di persone, giovani in particolare, incontrati personalmente in una settimana di permanenza in Italia che credono, cercano e domandano alla chiesa il perché, il senso ultimo della vita e che vedono in lei l’unica possibile risposta.

Personalmente mi preoccupa di più l’assenza di santità in molti di noi sacerdoti che altre cose per quanto gravi e dolorose siano. Mi preoccupa di più una chiesa che si vergogna di Cristo, invece che predicarlo dai tetti. Mi preoccupa di più non incontrare i sacerdoti nel confessionale per cui il peccatore spesso vive quel tormento del suo peccato perché non trova un confessore che lo assolva. Alle accuse infamanti di questi giorni urge rispondere con la santità della nostra vita e con una consegna totale a Cristo e agli uomini bisognosi, come non mai, di certezza e di speranza. Alla pedofilia si deve rispondere come il Papa ci insegna. Però solo annunciando Cristo si esce da questo orribile letamaio perché solo Cristo salva totalmente l’uomo. Ma se Cristo non è più il cuore della vita, allora qualunque perversione è possibile. L’unica difesa che abbiamo sono i nostri occhi innamorati di Cristo. Il dolore è grandissimo, ma la sicurezza granitica: “Io ho vinto il mondo” è infinitamente superiore.

Padre Aldo Trento, missionario in Paraguay

domenica 21 marzo 2010

Il viaggio interiore del pellegrino Chesterton verso la Chiesa cattolica - Il Sole 24 Ore recensisce Chesterton

di Massimo Donaddio

5 marzo 2010




Chesterton e la Chiesa cattolica. La potremmo definire una storia d'amore, un "romanzo dell'ortodossia" che ha attraversato mente, cuore, penna, ogni fibra dell'essere di questo grande scrittore inglese, amico-rivale di George Bernard Shaw, che ha stupito il suo tempo con l'ironia e con la passione per il paradosso tipica delle genti d'Inghilterra, ma anche con un'adesione fermissima e convinta ai dogmi della Chiesa cattolica romana, tanto da dedicare ai temi della fede la gran parte della sua sterminata produzione letteraria. Un rapporto a fasi alterne, quello tra Chesterton e la Chiesa, sfociato in una conversione, prima al cristianesimo, in seguito alla forma cattolica della fede cristiana (1922).

Proprio in questo campo si muove il saggio The Catholic Church and convertion del 1927, oggi ripubblicato dopo decenni in edizione italiana da Lindau. Qui l'autore guida il lettore alla scoperta del suo mondo interiore, delle ragioni che lo hanno convinto ad abbracciare la fede cattolica e dei pregiudizi che impediscono a molti di avere lo stesso suo grado di fiducia nei confronti di questa istituzione bimillenaria. Il brillante scrittore inglese adopera spesso il registro dell'ironia per intavolare un'apologia della fede che deve molto al tempo e al contesto in cui fu scritta, ma che non è priva di una sua organicità e sensatezza anche a distanza di tempo. Addirittura profetici alcuni giudizi dell'autore sui movimenti culturali più in voga nell'Inghilterra dei primi decenni del Novecento (socialismo, bolscevismo, futurismo, spiritismo), da Chesterton bollati come filosofie che non avrebbero potuto reggere l'urto del tempo, come è invece proprio delle religioni, e del cattolicesimo in particolare. Certo, lo scrittore aveva in mente le numerose conversioni di suoi contemporanei dall'anglicanesimo al cattolicesimo, ed era convinto che la fede cattolica fosse in grado di interrogare ancora molti, con la sua capacità di provocazione della vita e dell'intelletto.

Ma quali sono i passi per un'autentica conversione, secondo l'inventore di padre Brown? Innanzitutto fare piazza pulita dei pregiudizi gratuiti contro la Chiesa, molto diffusi in ambiente protestante: Roma non è una specie di abbazia in rovine come a volte si crede in Inghilterra, i preti e i gesuiti non vengono consacrati per tendere insidie e tranelli, la Bibbia non viene tenuta sotto chiave dai cattolici, ma non è l'unica fonte della verità e della tradizione ecclesiastica. Allo scrittore inglese, poi, appare inaccettabile un'idea di un cristianesimo che metta al primo posto gli interessi nazionali e patriottici – seppur in forma "sacralizzata" – dimenticandosi invece che tutti gli uomini sono fratelli, hanno uguale dignità e uguali diritti. Un'apertura universalistica e, appunto, cattolica, che Chesterton vede all'opera nella Chiesa romana e non molto nelle varie chiese nazionali di origine protestante.

Una volta sgomberato il campo dai pregiudizi e acquisito un atteggiamento intellettualmente onesto, il secondo passo sarà quello dell'ingresso progressivo nel mistero e nelle verità della fede cattolica, mentre il terzo passo è quello della consapevolezza che, una volta trovata la verità, non se ne può più fare a meno, si è conquistati da una luce che rischiara le ombre e dona piena coerenza e lucidità al pensiero. L'ultimo passo per una piena adesione di fede è, per il credente, dovuto all'intervento diretto dell'azione divina, che apre mente e cuore alla fede rivelata, ormai vissuta come risposta soddisfacente alle ansie di verità, di felicità e di libertà proprie del cuore dell'uomo di ogni tempo.

Al termine di questa sorta di pellegrinaggio interiore è proprio la religione più antica ad essere, per Chesterton, sorprendentemente la più nuova, perché la sua tradizione e le sue verità conservano da duemila anni intatte la loro validità. Persino le eresie e i movimenti culturali apparentemente più lontani – come il comunismo, ad esempio, che predica l'uguaglianza tra tutti gli uomini – non sono altro, per lo scrittore inglese, che deviazioni impazzite di alcune verità cattoliche vissute in maniera parziale.

Allora il percorso del convertito, secondo il magistero di Chesterton, sarà quello di colui che abbandona un luogo buio e angusto per uscire alla luce, per imparare a pensare, per scoprire quale sia la vera libertà. Se le caratteristiche del tempo moderno – anche oggi – sono la fiducia nella scienza, nel progresso e nella democrazia, la Chiesa cattolica è depositaria di una saggezza bimillenaria che va oltre il tempo presente e può mettere il credente in contatto e in comunicazione con i tesori dei secoli, della storia e dell'eternità di Dio. La "filosofia cattolica", per Chesterton, è «adatta alla natura umana e alla natura delle cose. Ma anche quando non si addice alla natura umana, nel lungo termine risulta favorire qualcosa di ancora più adatto». La Chiesa è allora quel luogo dove «tutte le verità si danno appuntamento», e dove l'ospite più gradito è il convertito, ossia l'uomo che passa dalle tenebre dell'ignoranza e della confusione alla luce della ragione e della chiarezza. L'esperienza che fu dello stesso scrittore inglese.

Gilbert Keith Chesterton
La Chiesa Cattolica
Dove tutte le verità si danno appuntamento
Edizioni Lindau, 116 pagine, 13 euro