Gli errori non cessano di essere errori perché diventano mode.
Gilbert Keith Chesterton, Illustrated London News del 19.04.1930
Gli errori non cessano di essere errori perché diventano mode.
Gilbert Keith Chesterton, Illustrated London News del 19.04.1930
Angelo Bottone | 27 aprile 20.53.13 |
Poi leggete il resto, è altrettanto interessante.Che le favole, il regno delle fiabe e delle fate, siano una cosa da non sottovalutare ce lo insegnano anche due grandi autori inglesi, G. K. Chesterton e J.R.R. Tolkien. Il primo dedica, con la sua solita deliziosa ironia, un intero capitolo del suo Ortodossia – un libro imperdibile – alla Morale delle favole. Questa rappresenta per lui la prima ed ultima filosofia, imparata da bambino dalla nutrice: “le cose in cui ho sempre creduto di più, allora ed ora, sono le cosiddette novelle delle fate, che a me sembrano essere cose interamente ragionevoli. Non sono fantasie: tante altre cose, a loro confronto, sono fantastiche”». Il regno delle favole è pieno di strane proibizioni, parole magiche, castelli di vetro – «questo fugace luccichio di vetro che ricorre dappertutto sta a dimostrare che la felicità è brillante, ma fragile» – ma in esse emerge l’esaltazione degli umili, il castigo ai superbi, l’eroismo e la sensazione che ciò che c’è è il frutto di una scelta, è stato fatto! «Il mondo moderno come io lo trovai si basava saldamente sul calvinismo moderno, sulla necessità che le cose fossero come sono», «ho trovato tutto il mondo moderno che parlava di fatalismo scientifico; diceva che ogni cosa è come ha sempre dovuto essere, essendosi sviluppata senza deviazioni dal suo inizio. La foglia dell’albero è verde perché non avrebbe mai potuto essere di altro colore. Il filosofo delle novelle delle fate è contento che la foglia sia verde precisamente perché avrebbe potuto essere scarlatta; ha la sensazione che sia diventata verde un istante prima che egli la guardasse. (…) Ogni colore ha in sé il potere e il coraggio di una scelta».Per Chesterton quello che i filosofi moderni hanno voluto toglierci, ossia la gioia di essere stati creati, voluti, ci è restituita dalle favole: «Le sole parole che mi sono sembrate sempre soddisfacenti per descrivere la natura sono quelle usate nei libri delle fate: “malia”, “incantesimo”. Queste esprimono l’arbitrarietà del fatto e il suo mistero. Un albero dà i frutti perché è un albero magico. L’acqua scorre verso il piano perché è fatata; il sole splende perché è fatato». Col dirci che il mondo è una grande magia, Chesterton vuol dirci che è esso è frutto di una grande scelta, un grande ma fragile gioco a cui siamo chiamati a partecipare. Di questo ci avvisa la morale del paese delle fate!
"Le vie del Signore non sono comode, ma noi non siamo creati per la comodità, bensì per le cose grandi, per il bene".
Benedetto XVI
«È abbastanza vero che ogni uomo deve avere un colpo di genio, perché ha solo un colpo in canna – e viene gettato nudo nella battaglia. La pretesa del mondo bussa direttamente alla sua porta. In breve (come suggerisce il libro del Successo) egli deve dare “il suo meglio”, e quanta poca parte di lui è “il suo meglio”! Il suo “discreto” è spesso molto meglio. Se è il primo violino, allora è costretto a suonare per sempre, dimenticandosi che è una gradevole e buona cornamusa, una bella e discreta stecca da biliardo, un fioretto, una penna a sfera, una partita a bridge, una pistola e un’immagine di Dio»
Se tutto crolla, forse è perché abbiamo edificato sulla sabbia
La pala eolica che, solitaria, s'ergeva sul nostro crinale è crollata schiantandosi sulla boscaglia. Per lo più immobile, nella sua superba inutilità, si stagliava contro il cielo come feticcio dei nuovi tempi già malandati. Monito per valligiani e turisti: «Convertitevi alla green economy, coltivate pannelli solari, innalzate pale, sacrificate al sole e al vento e sarete beneficiati da sussidi economici e onori mediatici». Qualche volta funzionava ed era la materializzazione di un incubo aereo, un vorticare metallico, un sordo affettare che attanaglia calando dall'alto. (...).
Il resto dell'articolo è qui.
Si troverà più e più volte, nella storia ecclesiastica, che la nuova partenza, l'innovazione audace, il partito progressista, dipese interamente dal Papa. Trovò ovvia resistenza più o meno negativa da parte dai vescovi, dai canonici, il clero in possesso in una soluzione politica e patriottica... In qualunque momento apparve, nella storia cattolica, un esperimento nuovo e promettente, più audace e più ampio e illuminato della routine esistente, quel movimento ha sempre finito per essere identificato con il Papato; perché il Papato da solo lo ha confermato contro l’ambiente sociale resistente che era a pezzi.
Le bizzarrie non impressionano le persone bizzarre. Questa è la ragione per cui per le persone normali il tempo trascorre in maniera più eccitante, mentre la gente bizzarra sta sempre a lamentarsi della monotonia della vita.
Ammettiamolo: meritocrazia è una parola brutta. È brutta perché sembra contenere una promessa di giustizia e di valorizzazione personale. Infatti la usano i politici. Tutti. È una parola trasversale, che mette d'accordo destra e sinistra e centro. Qualche sera fa sul palco di Bergamo, nella giornata della epocale pulizia leghista, Bobo Maroni ha creduto di sottolineare l'avvento di un nuovo inizio proclamando: «Meritocrazia e largo ai giovani!». Suona bene nel reame incantato e fantastico della politica; giurerei che anche la signora Susanna Camusso ruberebbe di bocca queste parole all'ex-ministro padano. E, se non altro, il fatto che una parola come «meritocrazia» stia sulla bocca di tutti i politici dovrebbe un po' metterci sul chi va là. Non perché sia clamoroso che i politici vadano d'accordo su qualcosa, ma proprio perché, in realtà e ahimé, sulle questioni davvero serie sono proprio tutti d'accordo nel farci vedere le cose dall'angolatura sbagliata.
È una cosa davvero strana quanto consueta. Sebbene tutti noi abbiamo da un bel po' perso qualsiasi stima nei confronti di qualunque essere vivente si fregi del titolo di Onorevole, e siamo - direi - quasi tutti d'accordo sul fatto che se dovessimo andare a votare domani sarebbe dura (anche usando il criterio di "scegliere il male minore"), eppure continuiamo a pensare le cose in modo politico, o per dirla meglio, in politichese. Perché, in realtà, pensare le cose in modo politico - cioè pensare a noi in rapporto alla comunità in cui viviamo - è giusto; ma è sbagliato pensarle in politichese - cioè pensare a Noi in rapporto alla Comunità.
Un idealismo distorto ci ha consegnato la più tremenda delle bugie: ci siamo convinti che il mondo, così com'è, è brutto. È accaduto semplicemente perché siamo arrivati a ritenere che sia vero quel cortocircuito del pensiero in base a cui, visto che le cose dovrebbero andare meglio, allora le cose così come sono non vanno bene, nel senso che sono sbagliate. La tensione alla compiutezza è ciò che definisce la nostra stessa natura di uomini e si manifesta concretamente nel nostro indaffararci verso un miglioramento (in qualsiasi ambito e contesto, dal risparmiare per poter aggiustare la lavatrice fino alle scelte che impongono al nostro pensiero il problema della felicità). Ma ci siamo dimenticati che incompiutezza non è mai stato sinonimo di sbaglio. Il sentimento di una mancanza è un punto di vista positivo su ciò che ci manca, non un giudizio negativo su ciò che già c'è. Questo è il cortocircuito da disinnescare, perché se puntiamo l'arma del merito e del meglio verso la nostra quotidianità non può che derivarne un assassinio. O meglio un suicidio, un negarci le cose che bene-o-male ci sono.
E non posso che definire un suicidio quel che ho letto in uno dei blog al femminile del Corriere dalla voce di un padre che ha commentato il post "Perché il matrimonio fa paura?" scrivendo: «Da padre di famiglia e marito posso dire che, se potessi tornare indietro, me ne guarderei bene dal mettere al mondo mio figlio (che adoro ma proprio perché gli voglio bene non dovrebbe vivere in un mondo come questo), dal prendere moglie (disoccupata da 6 anni e oggi, a 50 anni, la guardano come se fosse una pazza a voler lavorare, anche solo come donna delle pulizie). Fossi single potrei vivere col mio stipendio senza dover rinunciare a tutto (ferie, dentista, cinema, cene fuori, sere con amici, un paio di scarpe, tagliando per l'auto ecc …)».
Non mi sogno neanche lontanamente di ridicolizzare quello che ho appena riportato, lo prendo sul serio perché non sono estranea dal cadere in queste trappole del pensiero e dico che questo è parlare senza ascoltarsi; è parlare di Noi e non di noi. Con altrettanta serietà sono convinta che lo stesso uomo preso in un momento diverso, meno riflessivo ed equilibrato - diciamo: sul divano di casa, al rientro da una pessima giornata lavorativa, con la moglie che brontola in cucina e il figlio super-mega-attivo che gli racconta ogni dettaglio della gita alla fattoria - sarebbe talmente poco lucido, e perciò molto assennato, da accorgersi che single vuol dire "solo". Ecco, quello che dobbiamo fare è costringerci ad essere talmente stanchi da smettere di essere riflessivi ed equilibrati. La scena che ho appena descritto è uno degli spunti più comuni che troviamo in tanti sketch comici: la moglie petulante, il bambino iperattivo e combina disastri, il marito stanco e spiaggiato sul divano a implorare: «Ah! Se fossi single…». E non credo che queste scenette ci facciano ridere perché siamo davvero convinti che quell'uomo sarebbe più felice da single.
In effetti, l'umorismo è forse la giusta chiave di accesso per smontare quella inconsistente e falsa illusione sul mondo "che va male e quindi è sbagliato". Nonostante tutto, noi non ci siamo davvero dimenticati di ciò che è sacrosantamente sano e vero per noi (e non per Noi). E, infatti, ce ne ricordiamo quando ridiamo. Non mi riferisco però ai quei seriosi paladini della Satira che riescono sì e no a strapparci qualche sorrisetto ridicolizzando le miserie del nostro paese e lasciandoci un vago retrogusto amaro nella testa e nel cuore. Mi riferisco ai comici veri e propri, quelli che ci fanno ridere con la pancia e che sguazzano nei luoghi comuni più comuni. Mi riferisco all'automobilista milanese perennemente inc… oppure al postino pugliese sfaccendato che reclama il diritto ad avere almeno un giorno di ferie all'anno, dopo averne trascorsi 364 in malattia.
Questa è sempre stata la giusta angolatura per guardare le cose del mondo, è quel sentimento del contrario - direbbe Pirandello - per cui guardandoci in faccia dal di fuori ci vien da ridere. E la risata di pancia proclama che noi, in fondo in fondo, abbiamo ancora un'altissima e sana coscienza di noi stessi - che non è meritocratica. Perché quando noi ridiamo per il marito vittima della domesticità, per l'automobilista milanese e per il postino pugliese non stiamo in prima istanza pensando che c'è qualcosa di meglio della famiglia, occorrerebbe migliorare la circolazione milanese e che la gestione degli uffici pubblici dovrebbe essere più meritocratica. Ridiamo perché ci riconosciamo nell'uomo medio. Ridiamo perché ci riconosciamo nell'uomo comune che saltellando e inciampando si è sempre barcamenato tra il lavoro e i fatti della vita. E ridiamo perché l'uomo comune ci piace così com'è. E ridiamo perché, in fondo e comunque, non lo vorremmo vedere cambiato di una virgola. Non ci vivremmo mai in un mondo perfetto fatto di automobilisti cortesi e postini stacanovisti. Che non è in contraddizione col dire che non vogliamo neppure vivere in un mondo pieno di pirati della strada e di falsi invalidi.
La regola sul meglio e sui meriti possiamo tollerarla entro i cancelli del regno delle leggi di mercato e dei concorsi e del lavoro. Insomma, in quella poca parte di noi in cui per tenere in piedi le cose dobbiamo costringerci all'efficienza (altra parola brutta). Così mi ha insegnato il signor Chesterton, facendomi proprio notare che - in effetti - "il meglio di me" è così poca parte di me, e forse non è neppure la parte più simpatica e significativa di me.
«È abbastanza vero che ogni uomo deve avere un colpo di genio, perché ha solo un colpo in canna – e viene gettato nudo nella battaglia. La pretesa del mondo bussa direttamente alla sua porta. In breve (come suggerisce il libro del Successo) egli deve dare "il suo meglio", e quanta poca parte di lui è "il suo meglio"! Il suo "discreto" è spesso molto meglio. Se è il primo violino, allora è costretto a suonare per sempre, dimenticandosi che è una gradevole e buona cornamusa, una bella e discreta stecca da biliardo, un fioretto, una penna a sfera, una partita a bridge, una pistola e un'immagine di Dio» (da Cosa c'è di sbagliato nel mondo).
Per migliorare davvero le cose e in modo politico occorre non essere schizzinosi, il nostro contributo è richiesto ed è richiesto tutto; molte delle cose buone che quotidianamente facciamo sono frutto del nostro "discreto" se non persino del nostro "peggio". E, per usare ancora una volta un'immagine del signor Chesterton, ridursi a ragionare in modo astrattamente meritocratico sulle cose significa diventare come quella gentildonna inglese che si lamenta, scoprendo improvvisamente che il latte viene da una mucca sporca e non da un negozio pulito.
Che il Signore Nostro Gesù Cristo la conservi e la sostenga!
Vi abbiamo più volte parlato dell'interesse di Neil Gaiman per GKC.
Ora, nel suo sito, abbiamo scoperto questo discorso dato da Gaiman nel 2004 ad un incontro della Società Mitopoietica in cui l'autore di Coraline spiega il suo interesse per Tolkien, Lewis e Chesterton, colorando il tutto con particolari autobiografici.
In pratica Chesterton è stato scoperto a scuola mentre si faceva passare un falso mal di testa in biblioteca...!
Qui sopra il collegamento.
R. - Spesso il Papa cita Chesterton, questo scrittore inglese umorista, che è poi il grande cantore della gioia. Se andiamo a vedere proprio la parola "gioia" nel linguaggio e nei discorsi di Benedetto XVI, potremmo scoprire che, forse, è la parola più volte ricorrente! E' il grande Papa della gioia, io dico addirittura il grande Papa dell'umorismo, di quest'umiltà e di quest'umorismo che vanno insieme, perché provengono entrambe da "humus", ossia dalla terra. Questa semplicità di Ratzinger la vediamo anche quando parla, perché lo fa con poche parole - le sue Encicliche sono brevi, così come i suoi discorsi -, ma queste sono così nitide e così chiare perché hanno a cuore soltanto un punto essenziale: direi che questo è un Papa dell'essenza delle cose, va cioè sempre all'essenza di tutti i discorsi. Lo ha detto bene nel libro-intervista "Luce del mondo" quando afferma che "il filo conduttore della mia vita è questo: il cristianesimo dà gioia ed allarga gli orizzonti". In questa piccola frase c'è già, in nuce, tutto il Pontificato: da una parte l'annuncio della gioia cristiana, che Cristo è risorto e vince la morte, e dall'altra che questa gioia non toglie nulla all'uomo ma, addirittura, gli fa allargare i propri orizzonti. (vv)
Qui il resto dell'articolo:
http://www.oecumene.radiovaticana.org/it1/articolo.asp?c=579227
Dhaka (AsiaNews) - "Io credo in Cristo, l'ho accolto. È il mio salvatore". Vincent (nome fittizio per motivi di sicurezza) è un ex imam bengalese che si è fatto cattolico, e per questo è stato perseguitato in modo durissimo dalla sua comunità d'origine. Il suo cammino di conversione è iniziato all'estero, lontano dal Bangladesh. Una Chiesa presbiteriana l'ha battezzato. Poi, l'amore per una cattolica, culminato nel matrimonio, l'ha spinto a diventare cattolico. Ma una volta tornati in Bangladesh, Vincent e sua moglie hanno trovato un'accoglienza fatta di violenza e minacce. Alcuni membri della sua comunità lo hanno picchiato e ridotto quasi in fin di vita.
Il Bangladesh considera l'islam religione di Stato, ma la sua Costituzione non riconosce la shari'a e garantisce piena libertà di culto. Questo lo rende uno dei Paesi musulmani più aperti, dove le conversioniavvengono in un clima di generale tolleranza. Eppure, il predominio sociale e culturale della religione islamica è tale da spingere la comunità d'origine a esercitare pressioni di vario genere. A volte, è il notaio che si rifiuta di firmare il documento che attesta l'avvenuta conversione. Altre, come nel caso di questo ex imam, sono violenze fisiche e psicologiche.
Dopo quasi due mesi di ospedale, Vincent esce e torna a casa. Ma proprio quei musulmani che un tempo lo seguivano e lo stimavano come imam, ancora non accettano la sua nuova "condizione". Così, dalle botte si passa ad altre forme di aggressione. Insieme alla moglie, Vincent incontra un forte ostracismo sociale, che lo costringe a cambiare più volte casa. Perde anche il lavoro, e si ritrova ad arrabattarsi come può per sopravvivere.
Oggi, è un uomo molto tormentato. Ma questo rifiuto totale da parte della sua comunità originaria non l'ha allontanato da Gesù, e continua ad andare in Chiesa con più forza di prima. E ripete: "Credo in Cristo, in Lui sono rinato. È il mio salvatore".
Da Asia News del 3 aprile 2012
Robert Louis Stevenson, introduzione di Pietro Federico, traduzione di Valentina Vetri
Gilbert K. Chesterton dedicò questa importante biografia letteraria finora inedita in Italia a Robert Louis Stevenson, l'autore de L'isola del tesoro e de Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde. Da questo straordinario saggio, Stevenson emerge come un testimone inconsapevole di verità, "un pagano altamente onorevole, responsabile e valoroso, in un mondo traboccante di pagani che erano per la maggior parte molto meno cavalieri e onorevoli".
Di più, Chesterton lo considera alla stregua di un teologo cristiano che restituisce nei suoi personaggi votati all'avventura l'inquietudine della Caduta e la moralità della ricerca di senso in un mondo che attende di essere esplorato. L'intera sua opera appare a Chesterton una difesa della possibilità di essere felici, e una risposta alla domanda di felicità dell'uomo, che può essere assolta solo ritornando piccoli e capaci di stupore. Il brusco ritorno alla semplicità dell'infanzia, come espressione del profondo desiderio di raggiungere la felicità. È un fatto ricorrente in tutta la storia umana. E in questo sta, per Chesterton, "l'importanza del posto che Stevenson occupa nella storia letteraria".
Una breve storia d'Inghilterra, traduzione e cura di Paolo Allegrezza
In questo libro scritto nel pieno della prima guerra mondiale l'autore racconta la formazione della nazione inglese. Non un testo per specialisti ma l'intervento di uno dei più importanti intellettuali inglesi del tempo che sente il bisogno di scrivere per illuminare il lato nascosto, dimenticato della storia del suo paese. Due i bersagli polemici scelti: il primo si connette alla falsa origine anglosassone del popolo inglese sovrapposta dagli storici dell'800, con un'abile operazione culturale, al passato romano e cristiano, il secondo concerne il controverso ruolo assunto dall'aristocrazia nel '700; se per un verso fu la protagonista della definitiva affermazione del parlamento e della costruzione dell'impero, per un altro legò sempre più le sorti del paese alla Germania contribuendo al definitivo distacco dell'Inghilterra dalle sue origini cristiane. L'altro passaggio cruciale è identificato nel Medio Evo che rappresenta per Chesterton il periodo negletto, rimosso della storia inglese, tutt'altro che una parentesi oscura ma la felice stagione della fioritura dei monasteri, delle gilda, delle libertà locali; una straordinaria civiltà cui l'avvento del capitalismo pose bruscamente fine; un Medio Evo considerato non come una mitica era di spiritualismo e religiosità, ma colto nelle sue realizzazioni materiali, nei suoi delicati equilibri sociali e istituzionali, nella prevalenza dello spirito di comunità e solidarietà. A tutto ciò si contrappone la storia dei vincitori, di cui è un'immagine l'universo disumanizzante del diciannovesimo secolo, allorché l'adozione anche in Inghilterra del modello sociale bismarkiano non fa che confermare la deriva individualista ed il ruolo dominante delle èlites. Un testo nato da un'esigenza morale prima che storica che, tuttavia, rimane molto chestertoniano per la leggerezza, il gusto per il paradosso, lo stile brillante, la visionarietà.