giovedì 30 aprile 2009
Lombroso e le sue misure.
Grazie della segnalazione al socio Alessandro Canelli.
Attenzione! Cambio di data del convegno chestertoniano di Ghezzano - Pisa
Prendetene nota!
Katyn, un film da non perdere - Giuseppe Brienza: un film per la “purificazione della memoria”
Una pagina tragica di storia
Giusto settant’anni fa’, nel settembre del 1939, la Polonia subisce una doppia invasione, dalla Germania nazionalsocialista a ovest, dalla Russia sovietica ad est, a seguito delle clausole segrete del patto Hitler-Stalin, passato alla storia “politicamente corretta” come patto Ribbentrop-Molotov dal nome dei due rispettivi ministri degli esteri. Il 17 settembre, l’Armata Rossa, con il pretesto di “soccorrere i fratelli di sangue ucraini e bielorussi” minacciati dalla “disgregazione dello Stato polacco”, invade quindi la Polonia, annettendo all’Urss circa 180.000 kilometri quadrati di territorio, abitati da 12 milioni di ucraini e bielorussi ma anche da polacchi. Di questi ultimi viene effettuata immediatamente una “pulizia etnica”, con la deportazione di oltre 230.000 prigionieri di guerra e 380.000 civili.
Se i nazionalsocialisti deportano nei campi di concentramento i professori universitari, Stalin e i suoi affidano all’Armata Rossa il compito di sterminare militari e poliziotti (quasi tutti gli ufficiali dell’Esercito, provenienti dalla società civile, ma anche oltre 200.000 soldati di leva), in modo da poter agevolmente controllare il Paese in futuro. Oltre 15.000 ufficiali, più qualche migliaio di soldati semplici e civili, furono quindi deportati e uccisi uno ad uno a Katyn, con un massacro realizzato freddamente che, per decenni, grazie ad un’abile propaganda ed una sistematica opera di cancellazione della memoria, “scaricato” sul Terzo Reich. La verità è stata resa pubblica solo nel 1989, dopo la caduta dell’Urss e l’apertura degli archivi segreti voluta dal presidente Eltsin anche se, come ha dichiarato in un’intervista Andrzej Wajda, il regista di Katyn, film che con quasi due anni di ritardo da febbraio è finalmente disponibile in Italia, «In realtà in Polonia tutti sapevano che i colpevoli erano i russi […] così Katyn nella nostra storia rimaneva una ferita aperta [anche se] sulla vicenda c’era come un blocco: mentre tutti gli altri episodi drammatici della Seconda guerra mondiale avevano trovato qualcuno che ne facesse materia di qualche racconto, su Katyn non c’era nulla» (cit. in ROBERTO PERSICO-ANNALIA GUGLIELMI, Il caso Wajda. Il maestro censurato, in Tempi, n. 9, Milano 23 Febbraio 2009, pp. 12-16).
Il coraggio di Wajda
Con Katyn (Polonia, 2007, colore, 117’) il polacco 83enne Wajda, autore di oltre trenta film fra cui L’uomo di marmo, L’uomo di ferro, Danton e Tatarak (quest’ultimo ha vinto il premio speciale della giuria al festival del cinema di Berlino 2009), descrive quindi con sequenze forti e ritmo incalzante una tragedia che ha segnato indelebilmente il suo Paese, seguendo la vicenda di alcuni ufficiali polacchi (tra cui suo padre) e delle loro famiglie che, inconsapevoli di quanto accaduto nella foresta bielorussa, attendono disperatamente il ritorno dei propri cari. Così ad esempio vediamo Anna, moglie di Andrzej, capitano dell’8° reggimento dell’Esercito polacco che, con la figlia Nika, aspettano con sempre minor speranza di rivederlo. Dopo la fine della guerra, quando la verità inizia ad emergere – e la tesi della strage tedesca si dimostra falsa – superstiti e parenti devono decidere se proclamare la verità, pagando con la vita, o preferire il doloroso silenzio, per sopravvivere ed aspettare “tempi migliori” in cui cercare di ricostruire dalle macerie un popolo e la sua memoria storica.
Ancora esiste la censura comunista in Italia
Il film, che in Polonia ha avuto oltre tre milioni di spettatori, nel nostro Paese è stato finora programmato solo in pochissime sale cinematografiche e, in città come Milano, si sono dovute muovere associazioni come il “Centro Culturale di Milano” e “Sentieri del Cinema” nonché la rivista “Tempi” per trovare una sala disposta alla sua proiezione, che è avvenuta nel marzo scorso alla presenza del Console Generale della Repubblica di Polonia Krzysztof Strzalka e del corrispondente da Mosca per Avvenire Luigi Geninazzi. Anche la televisione di Stato polacca ha contribuito a “boicottare” il film se, come ha denunciato Wajda, titolare dei diritti per la distribuzione all’estero, «non ha fatto nulla perché il film avesse una circolazione dignitosa: lo ritengono un film scomodo e non hanno voluto spingerlo. Pensi che nel rapporto della Televisione Polacca sulla società New Media Distribution, l’azienda che deve distribuire il film contemporaneamente sia in Russia sia negli Stati Uniti, ho visto una nota a margine scritta a mano che informa che “l’iniziativa potrà fallire per ragioni politiche”. Tanti infatti hanno interesse a che il film non venga proiettato, e in molti paesi ci sono distributori che lo hanno acquistato per non farlo vedere. Viene mostrato solo in circuiti ristretti, nei cinema d’essai o in rassegne per un pubblico selezionato. Così si fa in modo che non incida, che non abbia un vero rilievo nella mentalità comune».
Sarebbe quindi opportuno che Katyn, che fra l’altro un anno fa è stato candidato all’Oscar per il miglior film straniero, almeno da noi sia richiesto da associazioni, docenti o genitori per farlo vedere nelle scuole secondarie come esercizio di “purificazione della memoria” e lezione morale. Lezione e testimonianza offerte da un popolo orgoglioso delle proprie radici e da onorare anche per il suo esercito fatto di uomini che, come documenta efficacemente Wajda, andando incontro ad una tremenda morte, recitano fiduciosi il Padre Nostro affidandosi alla sola loro Speranza di salvezza.
mercoledì 29 aprile 2009
Un aforisma al giorno - 105
martedì 28 aprile 2009
Chesterton in altre parole - Gramsci e Chesterton - Dalle Lettere dal carcere
Carissima Tania,
sono stato contento della venuta di Carlo. Egli mi ha detto che ti sei rimessa abbastanza, ma vorrei avere piú precise notizie sulle tue condizioni di salute. Ti ringrazio per tutto ciò che mi hai
mandato. Non mi sono stati ancora consegnati i due libri: la «Bibliografia fascista» e le novelline di Chesterton che leggerò volentieri per due ragioni. Primo perché immagino che siano interessanti almeno quanto la prima serie e secondo perché cercherò di ricostruire l'impressione che dovettero fare su di te. Ti confesso che questo sarà il mio diletto maggiore. Ricordo esattamente il tuo stato d'animo nel leggere la prima serie: tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni piú immediate e meno complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche piú che delle novelle poliziesche propriamente dette. Il padre Brown è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei protestanti e il libro è fondamentalmente un'apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana. Sherlock Holmes è il poliziotto «protestante» che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall'esterno, basandosi sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull'induzione. Padre Brown è il prete cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l'esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull'introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l'angustia e la meschinità. D'altra parte Chesterton è grande artista, mentre Conan Doyle era un mediocre scrittore, anche se fatto baronetto per meriti letterari; perciò in Chesterton c'è un distacco stilistico tra il contenuto, l'intrigo poliziesco e la forma, quindi una sottile ironia verso la materia trattata che rende piú gustosi i racconti. Ti pare? Ricordo che tu leggevi queste novelle come se fossero state cronache di fatti veri e ti immedesimavi fino ad esprimere una schietta ammirazione per padre Brown e per il suo acume maraviglioso, in modo cosí ingenuo che mi divertiva straordinariamente. Non devi però offenderti, perché in questo divertimento c'era una punta di invidia per questa tua capacità di fresco e schietto impressionismo, per cosí dire. A dirti la verità, non ho molta voglia di scrivere: ho il cervello svaporato.
Ti abbraccio affettuosamente.
Rassegna stampa - 28 Aprile 2009
Fine Vita
La legge entro l'estate 149 KB
28 Aprile 2009 - Avvenire
Norlevo
Prescrizione obbligatoria 307 KB
28 Aprile 2009 - QN
Eutanasia
Sacconi: la morte di Eluana ci ha cambiati tutti 167 KB
Chesterton è attuale - 38 - La recensione di Uomovivo, edito da Morganti
Chesterton l’anti-Cartesio
DI FULVIO PANZERI
C’ è un ritorno di attenzione sull’opera di uno dei grandi scrittori del Novecento, G.K.Chesterton, anche a livello internazionale. Basti pensare che la domenica di Pasqua il 'Washington Times' ha riproposto all’attenzione dei suoi lettori una serie di estratti da Ortodossia, mentre è annunciata per i prossimi mesi l’uscita in America di Manalive, un film diretto da Joey Odendahl, sceneggiato da Dale Ahhlquist, presidente dell’American Chesterton Society. Ad impersonare lo straordinario personaggio di Innocent Smith, alter ego di Chesterton stesso, sarà Mark Shea, scrittore americano convertitosi, nel 1987, al cattolicesimo. Proprio questo romanzo, pubblicato nel 1912, e riconosciuto come il capolavoro dello scrittore inglese, senz’altro meno conosciuto in Italia di altre sue opere e presentato ai nostri lettori con il titolo «Le avventure di un uomo vivo», ritorna in libreria, pubblicato da una piccola casa editrice di Treviso, la Morganti, che ha scelto di rivalorizzare nel nostro paese il pensiero e l’arte di Chesterton, con un’intera collana dedicata alla sua opera, 'Chestertoniana'. Questa collana, curata da Paolo Morganti, che è anche il nuovo traduttore dell’opera nella sua integrità, correggendo distorsioni e tagli presenti nelle edizioni precedenti, colma un vuoto, attraverso un rigoroso lavoro di indagine filologica e storica, un apparato di note di commento che favoriscono la comprensione del testo, una premessa esaustiva che ne spiega i contenuti e presenta utili indizi interpretativi. Tra i titoli già usciti segnaliamo Il candore di padre Brown e La saggezza di Padre Brown, cui ora si aggiunge Uomovivo, il più complesso romanzo dello scrittore inglese, e anche il suo capolavoro, tutto da rileggere e da riscoprire, in quanto, attraverso la figura di Innocent Smith, personaggio bizzarro e stravagante che, in un caldo pomeriggio d’estate, irrompe, portato da un turbine di vento, nel giardino di un piccolo cottage, la pensione di una signora piuttosto taciturna. La bizzarria e i comportamenti inconsueti dell’uomo fanno nascere sospetti e dubbi sulla sua identità, tanto da arrivare a ritenerlo pericoloso e a indurre i villeggianti a raccogliere prove infondate su presunti comportamenti illeciti che vanno dall’omicidio con furto alla bigamia. In una situazione paradossale, ma altamente emblematica, Innocent Smith viene processato, anche se lui accondiscende di buon grado a quella farsa che si sta inscenando, fino a che sarà il suo avvocato che dimostrerà la sua innocenza e spiegherà il valore simbolico del suo vero nome, quello di «Uomovivo» che diventa non solo indicazione anagrafica, ma condizione esistenziale e morale a tutti gli effetti.
Abbiamo già detto di quanto Chesterton, attraverso Innocent Smith, racconti di se stesso, ma in una sorta di «autobiografia del pensiero», che mette in luce il nodo del suo cristianesimo, a partire da quella preminenza del tema della «meraviglia» di fronte alle cose dell’esistenza, ai suoi aspetti più quotidiani e poveri, visti nell’ottica di un dono, di una dimensione della grazia. Secondo Paolo Morganti è questo «l’unico modo per accettare l’arbitrarietà della vita, o, come direbbe un ateo, per tollerare l’angoscia della morte». E un altro aspetto chiarificatore che mette in luce il curatore e che deriva da questa dimensione dello «stupore» cosmico, è il suo essere cristiano che si manifesta attraverso «la naturale e inevitabile posizione di un uomo che ha combattuto contro l’idea di un uomo moderno, che vuole imporsi nel mondo e sulle cose del mondo, invece che viverle nella consapevolezza che nulla gli appartiene».
Questa è anche la risposta al clima culturale di una modernità, imperante nella sua epoca, che fonda tutto sul valore della scienza e del razionalismo, sul loro tentativo di addomesticare gli uomini secondo i principi di una illusoria civiltà. Questo romanzo, strutturalmente moderno e attualissimo, viene definito a ragione, dal Morganti, «una favola antropologica » e il concetto stesso di «Uomovivo » diventa la risposta concreta e morale alle derive culturali di cui sente il mondo in balia. L’uomo vivo di cui Chesterton traccia il ritratto narrativo è quello che ha bisogno di recuperare l’idea del Sacro e del vissuto, non lasciandosi sedurre dalle illusioni e dalle false promesse di un razionalismo che ha come prospettiva l’infelicità.
Gilbert Keith Chesterton
UOMOVIVO
Morganti editore. Pagine 256. Euro 15,00
Chesterton è attuale - I soci segnalano - Mark Hackard su GKC e islam
Egregi signori,
sono Andrea Carbonari, un iscritto alla Società Chestertoniana e, sperando di fare cosa a voi gradita, vi segnalo un articolo (intitolato "Outside the gates") apparso sul sito internet conservatore statunitense www.takimag.com.
In questo articolo l'autore, Mark Hackard, inizia e conclude con due articolati riferimenti a Chesterton e all'Osteria Volante. Per sintetizzare, Hackard afferma che G.K.C. è stato quasi preveggente nel segnalare la questione dell'incompatibilità fra l'Europa cristiana e un certo islam, e il pericolo di un'invasione strisciante da parte di questo fatta con l'appoggio di elites che hanno perso ogni collegamento con le radici cristiane del nostro continente.
Nel testo dell'articolo c'è anche una citazione di Belloc.
Cordiali saluti,
Andrea Carbonari
lunedì 27 aprile 2009
Katyn, un film da non perdere - segnalazione per Forlimpopoli
Katyn, un film da non perdere - Perché il caso Katyn è stato archiviato nel dimenticatoio collettivo
Il 23 agosto 1939 venne firmato dai ministri degli esteri nazista e sovietico il Patto Ribbentrop-Molotov, che prevedeva la spartizione della Polonia tra le due potenze confinanti. Durante l’occupazione di più di metà del Paese, i sovietici catturarono e internarono circa 20.000 ufficiali dell’esercito polacco, in gran parte intellettuali, professori universitari, avvocati, funzionari statali. Il 2 marzo 1940 il Politburo ne decretò la fucilazione e i corpi furono sepolti in fosse comuni nel bosco di Katyn. Nell’estate del ‘41, durante l’avanzata dell’esercito tedesco verso Mosca, vennero scoperti i resti del massacro, ma la propaganda sovietica iniziò una sistematica campagna di falsificazione, attribuendo la responsabilità ai nazisti. Per quasi cinquant’anni, grazie anche ai silenzi e alla connivenza degli Alleati occidentali, la verità rimase nascosta fino alla complicata e tutt’ora parziale apertura degli archivi segreti dell’URSS.
L’esecuzione degli ufficiali polacchi può essere compresa appieno solo se la si inscrive nel più generale processo di “pulizia di classe” che i sovietici attuarono nei territori da loro occupati. «Il massacro di Katyn è esemplare - afferma Zaslavsky - per quanto riguarda due essenziali caratteristiche interdipendenti dei sistemi totalitari del Novecento: l’uso sistematico del terrore e il ruolo dell’ideologia come guida per il terrore». Queste due peculiarità rappresentano il denominatore comune del regime nazista e di quello sovietico: obiettivo connaturato di entrambi era, infatti, l’eliminazione fisica di intere categorie di cittadini ritenuti “nemici” per il solo fatto di esistere, gli ebrei in quanto gruppo etnico, la borghesia come classe sociale nemica del popolo. Per dimostrare come l’ideologia della lotta di classe diventi linea guida di indirizzo politico, Zaslavsky presenta una disposizione del 1918 in cui un dirigente della polizia segreta sovietica (CEKA) afferma: «Non stiamo lottando contro persone singole, ma stiamo sterminando la borghesia come classe. Non bisogna cercare la prova che l’accusato abbia agito contro il potere sovietico. Le prime domande che bisogna porsi sono: a quale classe appartiene? Quale la sua origine sociale, istruzione, professione? Ed è la risposta a queste domande che deve decidere il destino dell’accusato».
Qualche tempo fa, dalle colonne del Corriere, il vicedirettore del quotidiano milanese Pierluigi Battista ha commentato così l’uscita passata in sordina del film di Wajda: «A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, del comunismo e delle decine e decine di milioni di vittime di cui è costellato il suo cammino ovunque (sì, ovunque) oppressivo e cruento, non importa granché a nessuno (…); si è imposta, non per ordine censorio ma per spontanea adesione ad un luogo comune, l’idea secondo la quale, a comunismo morto, l’anticomunismo non è che ossessione minoritaria di passatisti risentiti e nostalgici della guerra fredda. Immaginate lo scalpore che susciterebbe l’idea secondo la quale, a fascismo morto, anche l’antifascismo fosse una patetica sopravvivenza del passato. Ma sul comunismo, nessuno scalpore. Nel mondo della cultura. Nel dibattito pubblico. Al botteghino in cui l’anticomunismo fa mestamente flop». Sembra di rivivere, in modo più sfumato, la tormentata vicenda dei silenzi su Katyn imposti durante gli anni del dopoguerra: chi metteva in discussione la versione ufficiale sul massacro era duramente accusato di difendere i crimini e gli orrori del nazifascismo. Accadde al cattedratico napoletano Vincenzo Palmieri, che, in quanto medico membro della Commissione Indipendente che accertò la piena responsabilità sovietica del massacro di Katyn, subì pesanti pressioni e minacce dal PCI partenopeo affinché abbandonasse l’insegnamento universitario. Così accade che oggi i cinema rimangano vuoti a causa di un preoccupante disinteresse che aleggia su una certa parte di storia “scomoda”, intorno alla quale si è creata una tacita adesione a presunte posizioni ufficiali, che non si vogliono mettere in discussione.
Di fronte alla vicenda storica di quasi settant’anni fa e al “caso Katyn” scoppiato oggi in Italia, si rende urgente, per chi studia e vive in Università come chi scrive, rispondere alla domanda: che cosa vuol dire studiare la storia? È come afferma l’accademico russo Pokrovskij, il quale scrive che «la storia è la scienza più politicizzata tra quelle esistenti perché è la politica di oggi proiettata nel passato», posizione che di fatto ne legittima ogni interpretazione, oppure è lecito parlare di verità, di ricerca del vero? Il Professor Zaslavsky, concludendo una lezione di presentazione del libro già citato all’Università Statale di Milano, ha sostenuto che non si può stabilire la verità basandosi su interpretazioni o partendo da posizioni precostituite, ma che «devono essere stabiliti i fatti, è la verità fattuale che deve essere ricostruita per poter parlare di verità storica».
Questo è il compito dello storico e di chiunque affronti seriamente l’avventura dello studio.
Katyn, un film da non perdere - "Vi svelo perché in Italia mi impediscono di farvi vedere Katyn"
Dal diario, anzi dal bestiario, di un onesto giornalista di sinistra: «Finalmente sono riuscito a vedere Katyn. È il film di Andrzej Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi, compiuto dai sovietici nella primavera 1940. Vennero uccisi uno per uno, con il colpo di rivoltella alla nuca. Ancora oggi non si conosce con certezza il numero degli assassinati, si va dai 4.000 ai 22.000. Molti erano civili chiamati alle armi. Venne così annientata la futura classe dirigente della Polonia. L’opera di Wajda è bellissima e straziante». Beato Giampaolo Pansa (Il Riformista). E beati i critici cinematografici che hanno avuto il suo stesso privilegio. Tullio Kezich (Corriere della Sera): «In un Paese che insiste a dirsi civile, questo sarebbe un film da vedere in piedi». Fabio Ferzetti (Il Messaggero): «Una lezione di storia». Natalino Bruzzone (Il Secolo XIX): «Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera».
Qualcosa non quadra. A due mesi dall’uscita, Katyn può vantare la circolazione di un samizdat. Su 107 capoluoghi di provincia, in questo fine settimana lo proiettano solo a Milano, Rimini e Napoli. Per vederlo altrove, bisogna rivolgersi ai cinema parrocchiali Don Fiorentini di Imola e Lanzi di Corridonia o al Capitol di Fiorenzuola d’Arda, circuito d’essai. In totale 7 cinema sui 4.000 sparsi in Italia. Lo 0,18 per cento delle sale.
Ma anche fra i giornalisti non tutti hanno avuto la fortuna di Pansa. Un esempio di cui ho conoscenza diretta: l’altro ieri ho dovuto percorrere 1.100 chilometri in auto fra andata e ritorno, arrivare sino a Pescara e cercare il più fantomatico indirizzo in cui mi sia mai imbattuto da quando perlustro il Belpaese: piazza 19 Da Denominare. Qualcosa che mi ha ricordato il limbo dei giusti scaraventati nelle fosse di Katyn, ma anche il tormento di una regione che deve provare a risollevarsi dal terremoto guidata da burocrati provvisti di una simile fantasia toponomastica. Qui in Abruzzo, nella sede della Gm produzioni, ho incontrato Mario Mazzarotto, l’uomo che ha portato Katyn in Italia. Nel Dvd che mi ha messo gentilmente a disposizione neppure la dicitura «Not for commercial use», in sovrimpressione dall’inizio alla fine, riesce a scalfire la potenza drammatica delle scene, tanto opprimente quanto priva di retorica. Alla fine restano solo i bottoni delle uniformi. Quelli cantati dal poeta Zbigniew Herbert, i «bottoni irriducibili testimoni del crimine»: «Hanno vinto la morte, risalgono dal fondo in superficie, unico monumento sulla loro tomba». Stanno lì a ricordare che «Dio terrà i conti».
Tutti incensano l’ottantatreenne Wajda, premio Oscar e Orso d’oro alla carriera, regista di capolavori come I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti, L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, premiato a Cannes nel 1981. Tutti parlano di Katyn, candidato all’Oscar 2008 come miglior film straniero e dedicato dal regista alla memoria del padre Jakub, capitano del 72° reggimento di fanteria trucidato nel villaggio russo sul fiume Dnepr. Tutti gli addetti ai lavori lo reputano un film struggente. Ma agli italiani è vietato vederlo. Appena in 20.000, a tutt’oggi, ci sono riusciti. Persino il presidente del Consiglio è stato costretto a procurarsene una copia di cortesia e a guardarselo privatamente di notte, in una camera d’albergo, mentre partecipava al vertice della Nato a Strasburgo. Il giorno dopo ne ha raccomandato la visione a tutti i leader dell’Alleanza atlantica e subito il premier britannico Gordon Brown ha seguito il suo consiglio.
Sì, qualcosa non quadra. Proiezioni carbonare nei cinema parrocchiali. Spettatori che si mettono pazientemente in fila davanti al botteghino e vengono rimandati a casa per esaurimento dei posti. Due centimetri di rassegna stampa, 137 pagine raccolte in poche settimane da Press index, dove le parole più ricorrenti nei titoli sono «boicottato», «nascosto», «segreto». Quando il produttore cinematografico Mazzarotto, amministratore unico della Movimento Film che s’è assicurata i diritti di distribuzione di Katyn, ha scelto come sottotitolo per l’edizione italiana Il mistero di un crimine mai raccontato, tutto avrebbe immaginato tranne che di vederselo correggere da una censura invisibile e ferrigna. Adesso tanto varrebbe modificarlo: Il mistero di un crimine che non deve essere raccontato.
La storia si ripete. Per mezzo secolo l’Unione Sovietica attribuì ai nazisti l’eccidio di Katyn. Data l’esperienza di Adolf Hitler nel ramo, il mondo intero non coltivò molti dubbi in proposito. Si dovette aspettare la glasnost, la trasparenza introdotta da Michail Gorbaciov nel 1990, per conoscere la verità già affiorata al processo di Norimberga ma sempre negata dalla macchina propagandistica bolscevica: la strage dei 22.000 ufficiali polacchi era stata ordinata da Stalin.
Per averci voluto ricordare sullo schermo questa verità, Mazzarotto ha già perso finora 150.000 euro, che per una casa di distribuzione piccola e indipendente sono una seria ipoteca. Negli Anni 50 non andò meglio al professor Vincenzo Maria Palmieri, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Napoli, uno dei 12 anatomopatologi che su mandato della Croce rossa internazionale esaminarono i cadaveri degli ufficiali polacchi dissepolti a Katyn nell’aprile 1943. A causa del suo referto inconfutabile - «il crimine fu commesso dai sovietici» - Palmieri venne fatto oggetto di un feroce linciaggio morale a opera dell’Unità diretta dall’ex partigiano Mario Alicata, deputato del Pci. Il braccio destro di Palmiro Togliatti arrivò a pretendere che il docente fosse privato della cattedra. Per cui oggi si stenta a credere che lo stesso giornale, lo scorso 13 febbraio, abbia potuto salutare l’uscita di Katyn sugli schermi con queste parole: «Vederlo, per chi si è riconosciuto nella storia del comunismo, è compiere un atto di giustizia». Pudicamente precedute da un’evasiva annotazione: «Molti lettori dell’Unità sanno bene di cosa stiamo parlando». Già.
Ha avuto solo rogne da questo film.
«No, anche un’emozione indescrivibile. È stato quando ho portato i rulli originali alla Award network per farli doppiare. Nel buio della sala di Cinecittà ho sentito Anna, Andrzej, Jerzy, Róza, Piotr, Agnieszka e tutti gli altri personaggi parlare per la prima volta in italiano. Ecco, hanno preso vita grazie a te, mi sono detto».
Da quanti anni fa il produttore?
«Da 15, con la Intelfilm. Il distributore solo da un paio, con la Movimento Film».
È ricco di famiglia?
«Magari. I Carlo Ponti e i Dino De Laurentiis sono scomparsi da un bel pezzo. Oggi il produttore è solo un normale professionista che riesce a mettere insieme finanziamenti privati e statali per realizzare un film. Io mi dedico in particolare al cinema di qualità».
Allora sarà figlio d’arte.
«Neppure. Sono nato nel 1965 a Treviso e ho vissuto a Venezia, Napoli e Roma, le città dove ha lavorato mio padre, funzionario della Bnl. Nella capitale ho frequentato il liceo classico Visconti e l’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico».
Nel 1986 recitava come attore in «Una domenica sì» con Elena Sofia Ricci e Nik Novecento. E vent’anni fa in «Tempo di uccidere» di Giuliano Montaldo. Poi ha deciso di passare dietro la macchina da presa. Perché?
«Perché non ero bravo. Me la sono sempre cavata meglio come organizzatore. Ho cominciato negli Anni 90 con un programma per Raitre. S’intitolava Ultimo minuto. Brevi filmati che ricostruivano casi veri, salvataggi d’emergenza, girati da Gabriele Muccino, che poi sarebbe diventato regista di successo. Ho lavorato anche per Format di Giovanni Minoli, da cui è venuta fuori Milena Gabanelli».
Insomma, non è un destrorso. E del resto la sua Intelfilm ha lavorato con i compagni Citto Maselli, Lina Wertmüller, Paolo Virzì, Daniele Vicari.
«Mi considero un moderato attento a far parlare le teste e non le ideologie».
Chiariamo subito: «Katyn» non va nei cinema perché è un film privo di appeal commerciale per il grande pubblico o perché lo stanno boicottando?
«Se il Corriere, pubblicato a Milano, scrive che questo è un film da vedere sull’attenti, ma i lettori non trovano un solo cinema di Milano dove lo si proietti, io dico che siamo di fronte a una censura culturale in piena regola. Questo è stato il piazzamento, come diciamo in gergo, nella prima settimana di Katyn. Appena 8 sale in tutta Italia, fra Roma, Torino, Firenze, Genova, Pesaro e Molfetta. Non riesco a farlo dare neppure nella mia città d’origine, Treviso: solo al cinema Manzoni di Paese, dal 21 aprile. E l’aspetto più surreale della vicenda è che sono sommerso da mail, lettere e telefonate d’ingiurie da parte di cittadini che mi definiscono comunista, fazioso, disonesto, incapace. Pensano che il censore sia io!».
Com’è potuto accadere?
«A decretare il successo di un film è il debutto nelle 12 città capozona: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania, Cagliari, Ancona. I due terzi di esse a Katyn sono state precluse. Non solo: devi arrivare nelle sale più importanti, appena un centinaio su 4.000. Prenda Roma: sono Quattro Fontane, Mignon, Eden, Intrastevere e Fiamma. Ma a noi hanno aperto le porte unicamente Farnese, Madison e Nuovo Aquila. A Milano c’è voluto l’intervento di un’organizzazione culturale, Sentieri del cinema, per farci arrivare dal 3 aprile al Palestrina, una sala parrocchiale. Soltanto da questo week-end siamo anche al Centrale».
E come si conquistano le sale importanti?
«Bisogna entrare nelle grazie di Circuito Cinema, una società che raggruppa i vari proprietari e fa capo alle case di produzione e distribuzione Medusa, Lucky Red, Mikado, 01, Bim e all’Istituto Luce».
Lei non c’è entrato.
«Avevo parlato con Circuito Cinema. Non sono mica pazzo. Mi era stata promessa visibilità per Katyn. Ma all’ultimo momento si sono tirati indietro, accampando mille scuse: “Non è il momento, troppi film...”».
Doveva farsi consigliare da Pansa: «La sinistra non vuole la verità su quanto è avvenuto sino al 1948. Non la vuole perché la “sua” verità, gonfia di menzogne, l’ha già imposta in tutte le sedi: la cultura, la ricerca storica, i testi scolastici, il cinema».
«È un film scomodo, c’è poco da fare. Di fronte al quale la sinistra è rimasta in rigoroso silenzio. Ho scritto al segretario del Pd, Dario Franceschini. Non mi ha neppure risposto. Io stesso, prima d’incontrare Wajda, non sapevo nulla di questa carneficina. Non me ne avevano certo parlato a scuola. In vista della prima romana del film, ho organizzato un viaggio in Polonia per un gruppo di giornalisti, giovani e meno giovani, e la vuol sapere una cosa? Metà di loro, forse di più, non aveva mai sentito parlare di questa località e di ciò che vi era accaduto. Così, al momento di scegliere il titolo italiano per il film, mi sono chiesto: ma i miei connazionali sapranno che cos’è Katyn, non lo scambieranno per un nome di donna o per la traduzione slava di catino? Alla fine ho deciso che era giusto tenere il titolo originale. E oggi posso almeno attribuirmi questo piccolo merito: la gente sa che cos’è Katyn anche senza aver visto il film».
È del 2007. Due anni per arrivare sugli schermi.
«Se non fossi andato io a Varsavia, in Italia non sarebbe mai giunto. Non sto a raccontarle le difficoltà con la Tv di Stato polacca, che detiene i diritti per la distribuzione all’estero. Un funzionario è stato persino rimosso durante le trattative. Wajda ha visto personalmente una nota scritta a mano nella quale un alto dirigente ipotizzava il fallimento dell’iniziativa “per ragioni politiche”. Katyn è stato oscurato in tutta Europa, l’anziano regista sa di molti distributori che lo hanno acquistato solo per non farlo vedere».
E in Polonia?
«Ha incassato come nemmeno i film dei Vanzina da noi: 3,6 milioni di spettatori. Wajda mi ha raccontato che cos’è accaduto alla prima a Varsavia. Ci sono questi dieci minuti finali raggelanti. La dignità degli ufficiali polacchi che vanno a morire uno dietro l’altro, le mani legate col fil di ferro, il colpo di grazia con la baionetta per i pochi ancora vivi dopo l’esecuzione, le ruspe che ricoprono di terra le fosse. Non c’è disperazione, non ci sono urla, non c’è nulla di nulla. Solo sangue e un Pater noster recitato sommessamente, interrotto dalla pistolettata alla nuca e subito ripreso dal commilitone che segue. Alla fine del film, nel buio della sala, uno spettatore s’è alzato in piedi a pregare e ha invitato tutti a fare altrettanto. L’orazione collettiva s’è fusa col canto funebre in latino che scorre sullo schermo nero prima dei titoli di coda».
Ha avuto la nomination all’Oscar, è andato al Festival di Berlino, eppure è stato rifiutato alla Mostra di Venezia. In compenso al Lido hanno ammesso «Un Paese diverso» di Silvio Soldini, il documentario pagato dalle Coop. Com’è possibile?
«Dovrebbe chiederlo a Marco Müller, direttore della Biennale Cinema. Parliamoci chiaro: in Italia il cinema è un sistema di appartenenza dominato dalla sinistra».
Vabbè che Berlusconi non si occupa più delle sue aziende, però resta pur sempre il mero proprietario della Medusa. Allora perché «Katyn» è stato lasciato alla Movimento Film?
«La verità è che tutte le case di distribuzione, tutte, avevano visto il film di Wajda, ma si sono ben guardate dal prenderlo. Ora Medusa home video farà il Dvd per il noleggio privato. Sto battendomi perché arrivi nelle videoteche al più presto, prima dell’estate».
Niente televisione?
«Ho ceduto i diritti a Rai Cinema, senza il cui contributo sarei già fallito. Però per contratto non può trasmetterlo prima di due anni dall’uscita».
Ma qualcuno avrà spiegato al Cavaliere che il suo amico Vladimir Putin ne ha proibito la visione in Russia?
«Come scrive lo storico Victor Zaslavsky nel libro Pulizia di classe dedicato all’eccidio, è stato Putin a ordinare l’archiviazione dell’inchiesta su Katyn che aveva ereditato dai predecessori Gorbaciov ed Eltsin».
Fosse ancora vivo il Papa polacco, le sorti di «Katyn» sarebbero state diverse?
«Completamente».
Si aspettava un simile trattamento?
«Mai e poi mai. E continuo a ripetermi che, se l’avessi saputo prima, non avrei certo distribuito il film. Poi però ci rifletto e concludo che no, rifarei tutto ciò che ho fatto. Non perché sia un idealista. Ma per quei 22.000 nelle fosse, senza una lapide, senza un fiore».
Katyn, un film da non perdere - Segnalazione delle proiezioni
Ne aspettiamo altre!
domenica 26 aprile 2009
Un aforisma al giorno - 104
venerdì 24 aprile 2009
Stanley L. Jaki e la Duhem Society
Su Il Sussidiario trovate un suo profilo in italiano mentre su Real Physics un bel po’ di necrologi e articoli di commento.
Per onorarne la memoria, il giorno della morte il dr. Thursday, anch'egli scienziato e chestertoniano, ha pensato bene di fondare la Duhem Society, ispirandosi a quanto Jaki scriveva nella sua biografia intellettuale:
"Purtroppo le incertezze sono divenute quasi una regola tra gli intellettuali cattolici. Non mi sorprende che un mio appello sia caduto nel vuoto, anche se fatto nel contesto di una lezione pubblica alla University of Notre Dame. Lì, quando avevo appena iniziato a scrivere Uneasy Genius ed ero appena tornato dai miei viaggi di ricerca in Francia, proposi la formazione di una Duhem Society di storici e filosofi della scienza. Fisici cattolici pronti a considerare seriamente la filosofia e la storia sarebbero stati benvenuti, ovviamente. Non c'è bisogno di aggiungere che anche i non cattolici sarebbero stati benvenuti, se il loro interesse per Duhem fosse stato sincero. Quanti sono convinti che Duhem fosse stato un positivista non sarebbero stati considerati. Sarebbero ammessi all'Accademia dei Lincei i sostenitori della terra piatta o i promotori del flogisto al club di Lavoisier?
Una Duhem Society, se centrata sullo studio di quanto Duhem ha scritto e non su quanto si potrebbe pensare egli abbia scritto, potrebbe essere uno strumento potente per disseminare solide informazioni su di lui. Gli atti di tale associazione potrebbero essere di grande aiuto nell'attirare attenzione verso il suo impegno per la Verità scritta a grandi lettere. Sicuramente nessuno, ed in particolare un intellettuale cattolico, dovrebbe avere come proprio obiettivo principale il guadagnare l'applauso degli accademici secolari. Questi ultimi sono interessati nei cattolici nei quali possono trovare dei reali o potenziali traditori della Verità.
Se i cattolici solo sospettassero il valore delle richezze perenni che barattano per fotocopie volanti. Intendo dire, ricchezze intellettuali, validissime anche per la scienza."
[S. L. Jaki, A Mind's Matter 85-6, traduzione mia]
La Duhem Society ha come scopo lo studio delle opere di Pierre Duhem e di Stanley L. Jaki. Per ora è attivo un blog organizzativo, peraltro molto chestertoniano; seguiranno una rivista, convegni, traduzioni e pubblicazioni.
Mi pare un ottimo modo per celebrare Jaki ed il suo lavoro intellettuale.
giovedì 23 aprile 2009
Il Papa insiste: la crisi economica attuale è frutto della cupidigia, e cita Ambrogio Autperto
All’udienza generale, Benedetto XVI illustra la figura di Autperto, monaco dell’VIII secolo che indicò nella cupidigia “l’unica radice di tutti i vizi”. Al termine dell’udienza ha nuovamente affidato ai giovani la croce della Gmg, che 25 anni fa dette loro Giovanni Paolo II “perché tanti giovani scoprano la misericordia di Dio e ravvivino nei loro cuori la speranza in Cristo crocefisso e risorto”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – La cupidigia, che fa ritenere l’avere e l’apparire le cose più importanti del mondo, è la vera radice dell’attuale crisi economica mondiale. Benedetto XVI è tornato oggi a indicare in un “vizio” dell’animo umano la causa profonda della situazione economica. Un giudizio che ha espresso a più riprese, da ultimo quando, a Luanda, durante il viaggio in Africa, ha parlato di “cupidigia che corrompe il cuore dell’uomo”, o, all’inizio di aprile, quando nel messaggio indirizzato al vertice del G20 ha scritto che all’origine della crisi c’è anche il “venir meno di un corretto comportamento etico”.
Oggi l’occasione di parlare della cupidigia è stata presa da Benendetto XVI dalla figura di Ambrogio Autperto, autore dell’VIII secolo, “abbastanza sconosciuto”, come egli stesso ha detto alle 35mila persone presenti in piazza San Pietro per l’udienza generale.
Provente da una “distinta famiglia” della Provenza, alla corte di Pipino il Breve fu anche precettore del futuro imperatore Carlo Magno. Al seguito di papa Stefano II, che si era recato in visita ai Franchi, venne in Italia e si fermò nell'abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno, “oasi di cultura classica e cristiana”. Lì entrò nella vita religiosa e nel 671 fu ordinato sacerdote, sei anni dopo divenne abate, col sostegno dei monaci franchi, mentre quelli longobardi sostenevano un altro candidato. Il “contrasto politico era entrato anche nella vita dei monasteri”; le “tensioni nazionalistiche” non ci acquietarono e nel 778 pensò di dare le dimissioni e riparò con alcuni monaci franchi a Spoleto, sotto la protezione di Carlo Magno. Ma il contrasto torno a divampare, con una denuncia dell’abate a Carlo Magno e la convocazione del tribunale pontificio. Chiamato come testimone morì durante il viaggio, forse ucciso, nel 784.
Tra le sue opere di “alto contenuto teologico e morale”, il Papa ha ricordato il “De cupiditate” dedicata al conflitto tra vizi e virtù e il Commento all’Apocalisse. Nella prima, “intende ammmaestrare i monaci in modo concreto su come affrontare il combattimento sprituale ogni giorno” e prendendo l’affermazione di Timoteo per il quale coloro che vogliono vivere in fedeltà a Gesù Cristo saranno perseguitati, rileva che oggi “non c’è piu la persecuzione esterna, ma interna: la lotta contro le forze del male”. Autperto denunciava che “l'avidità dei ricchi e dei potenti nella società del suo tempo esistesse anche all'interno delle anime dei monaci” e definiva la cupidigia “la radice di tutti i mali, l’unica radice di tutti i vizi, e – ha commentato il Papa - alla luce della presente crisi economica mondiale questa analisi rivela tutta la sua attualità: vediamo infatti che proprio da questa radice della cupidigia è nata tutta questa crisi”.
Autperto indicava ai monaci che “il disprezzo del mondo diventa importante nella loro spiritualità, disprezzo non della bellezza del creato, ma della falsa visione del mondo presentataci dalla cupidigia che insinua che avere è il sommo valore della nostra esistenza e così apparire sarebbe il massimo”. Ai nostri tempi, ha aggiunto, “è diffuso un falso concetto di libertà” intesa come “disporre di tutto”, ma come scriveva Autperto “anche per chi non è monaco il Signore ha proposto solo due vie una via stretta e una via larga, una ripida e una comoda”.
Quella, ha proseguito Benedetto XVI era un'epoca nella quale “strumentalizzazioni politiche, nazionalismi e tribalismi hanno sfigurato il vero volto della Chiesa”, “difficolta' che conosciamo anche noi”. Ma proprio nel commento all’Apocalisse Autperto mostra il vero volto della Chiesa. A chi la vedeva come “un corpo bipartito, una parte appartiene a Cristo e una al diavolo”, risponde che “la Chiesa non può mai essere separata da Gesù Cristo”. Egli ha saputo “scoprire il vero volto della Chiesa nei santi e soprattutto in Maria” e “ha saputo capire cosa vuole dire esser cristiano: vivere della parola di Dio, entrare nell'abisso del mistero, dare di nuovo vita alla parola di Dio e offrirle la nostra carne per darle di nuovo vita nel nostro tempo”.
E’ un mandato che Benedetto XVI è tornato a dare ai giovani ai quali ha nuovamente “affidato” la croce della Giornata mondiale della gioventù. Al termine dell’udienza, nei saluti in italiano, il Papa si è infatti rivolto ai giovani del Centro San Lorenzo “che ricordano oggi la consegna della croce dei giovani: era il 22 aprile del 1984, quando alla fine dell’Anno santo della Redenzione, Giovanni Paolo II affidò ai giovani la grande croce di legno” conosciuta ormai come la croce della Gmg. “Da allora la croce cominciò a viaggiare nei continenti aprendo il core di tanti ragazzi ragazze all’amore di Cristo”. “Cari amici – ha concluso - vi affido di nuovo questa croce, perché tanti giovani scoprano la misericordia di Dio e ravvivino nei loro cuori la speranza in Cristo crocefisso e risorto”.
Durban II - Mons. Tomasi per il Vaticano dice: attenti a donne, bambini, persecuzioni contro i cristiani ed eugenetica.
''La Santa Sede - ha detto - e' allarmata dall'ancora latente tentazione eugenetica che puo' essere innescata dalle tecniche di procreazione artificiale e dall'uso degli embrioni superflui''.
''La possibilita' di scegliere il colore degli occhi o altre caratteristiche fisiche di un bambino potrebbe portare alla creazione di 'sottocategorie umane' o all'eliminazione di esseri umani che non corrispondono alle caratteristiche predeterminate di una data societa'''.
La globalizzazione del mondo odierno, anche se provoca l'avvicinamento di popoli e culture, non e' da sola un antidoto contro il razzismo, che anzi ''continua ad esistere'' nelle societa' contemporanee.
''Lo straniero e chi e' diverso e' troppo spesso rifiutato al punto che contro di lui vengono commessi atti barbari, compreso il genocidio e la pulizia etnica - ha affermato il diplomatico vaticano - Le vecchie forme di sfruttamento lasciano il posto alle nuove: donne e bambini sono vittime di traffico in quella che e' una forma contemporanea di schiavitu', i migranti irregolari vengono abusati, e coloro che sono o vengono considerati diversi diventano, in numero sproporzionato, vittime di esclusione sociale e politica, di ghettizzazione e di stereotipizzazione''.
Katyn, un film da non perdere - Segnalateci le proiezioni
Abbiamo segnalato un certo ostracismo verso questo film, dovuto forse ad una delle tante verità mai riconosciute dalla cultura dominante, e cioè il male intrinseco ed oscuro costituito dal comunismo. La storia di Katyn (e anche la storia di questo film, di come viene ostracizzato...) è la dimostrazione del fatto che, al di là della responsabilità personale di ciascuno nell'affermare idee sbagliate, le idee sbagliate sono e restano sbagliate e partoriscono solo ed esclusivamente mostri. Ricordiamo a tutti una simpatica ma efficacissima espressione di Chesterton a proposito del suo amico-nemico George Bernard Shaw, molto molto distante da lui per idee, sensibilità e quant'altro: "Tutto è sbagliato in Shaw, salvo Shaw stesso". Chesterton rispettava anzi amava l'errante ma -scusate l'espressione- spernacchiava e mazzolava senza pietà l'errore. Non c'è espressione più contraddittoria, falsa, ipocrita e devastante di: "rispetto le tue idee".
Detto questo, vi chiediamo di segnalarci, come ha fatto il socio Manuel Viganò che ringraziamo per la sua consueta gentilezza, le proiezioni di questo film ed i loro luoghi, perché chi può lo vada a vedere. E' un atto di amore alla Verità, che -lo si voglia o no- si scrive sempre con una nobilissima maiuscola.
Bravi, è bella pure la locandina...
mercoledì 22 aprile 2009
Un aforisma al giorno - 103
martedì 21 aprile 2009
Il Giudice del Malawi che ha negato l'adozione di Madonna cita a suffragio della propria decisione Chesterton.
Cliccando il nostro titolo verrete portati ad un articolo del Daily Mail, quotidiano inglese, che tratta dell'ultima vicenda di Madonna, la nota cantante americana, che voleva adottare una bambina del Malawi, stato africano stretto tra Zambia, Mozambico e Sudafrica. Il Giudice Esme Chombo, che vedete in fotografia, avrebbe negato l'adozione per motivi sostanziali ma appellandosi ad un articolo della legge del Malawi che impone che chi adotta un bimbo del paese africano risieda nello stesso. Madonna non avrebbe la residenza in Malawi e così le è stata negata l'adozione di quest'ultima bambina.
Esme Chombo ha motivato il diniego appellandosi a Chesterton che diceva: "Non abbattere mai uno steccato fin quando non sai la ragione per cui era stato fatto" ed ha spiegato l'importanza della residenza in Malawi per chi adotta, dicendo anche che un'adozione può anche avere delle conseguenze gravi sulla vita del bambino e che quindi essa va adeguatamente ponderata.
Qui sotto trovate la parte importante dell'articolo, cliccando il titolo lo avrete per intero. Ovviamente tutto in inglese.
Judge who quotes G.K.Chesterton and said No to ‘Ms Madonna’
The judge who presided over Madonna’s adoption hearing impressed the world with her eloquent and heartfelt judgment, which was unceremoniously pinned to the door of Lilongwe’s High Court after Friday’s ruling.
She is Mrs Esme Chombo, a quiet conservative woman in her early 60s who has more than ten years of experience in adoption cases.
She was unequivocal in her ruling that Madonna did not meet a residency requirement, the main reason for her refusing the adoption application, and quoted writer and journalist G.K. Chesterton in support of her decision.
She said: ‘As wisely put by G.K. Chesterton, “Don’t ever take a fence down until you know the reason why it was put up,” and spelt out the importance of residency in Malawi for foreigners wanting to adopt the country’s children.
She said: ‘Ms Madonna may not be the only international person interested in adopting the so-called poor children of Malawi.
‘By removing the very safeguard that is supposed to protect our children, the courts, by their pronouncements, could actually facilitate trafficking of children.
‘Anyone could come to Malawi and could quickly arrange for an adoption that might have very grave consequences.’
Mrs Chombo has heard hundreds of adoption cases as resident magistrate in the southern Malawi city of Blantyre.
One of her fellow lawyers told The Mail on Sunday: ‘She is a woman of great integrity and experience. Malawi’s adoption laws are currently rather vague and there is a law commission report before Cabinet which should change that.’
Mrs Chombo, one of Malawi’s few female judges, earns about £3,000 a month. Her husband is an executive with a sugar-producing firm.
lunedì 20 aprile 2009
Evoluzionismo - Il moscerino della frutta sfida Darwin: è davvero tutto scritto nel DNA?
Da IlSussidiario.net
Mario Gargantini intervista Carlo Soave
«Sembra di rivedere Lamarck, vivo e vegeto: – così commenta la notizia Carlo Soave, docente di fisiologia vegetale all’università degli studi di Milano - un carattere indotto da una modificazione ambientale viene trasmesso alla progenie. Siamo di fronte al fenomeno dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti». Si tratta di un’eventualità proibita dal darwinismo classico. Ma non è tutto: il gene, cioè il DNA, che codifica per il fattore “colore degli occhi” è rimasto tale e quale come era nei moscerini con gli occhi bianchi. Cosa è cambiato allora e come questo cambiamento si trasmette alla progenie?
«Quello che cambia è ciò che sta intorno al DNA, le proteine che lo avvolgono, in aggiunta a metilazioni reversibili di alcune basi del DNA: in una parola, è quello che oggi si definisce un cambiamento epigenetico». Questo termine, epigenetico, sta diventando di grande attualità in biologia: con esso si indicano quei caratteri dei viventi che non hanno un corrispettivo di tipo genetico, quel set di informazioni che non si trovano nelle sequenze del DNA. Fino a qualche tempo fa l’informazione epigenetica poteva essere studiata in modo solo descrittivo; oggi invece è possibile individuare quali strutture molecolari vi sono implicate. Si è visto che un ruolo importante è svolto proprio dai componenti che circondano il DNA, denominati istoni, e che agiscono come una sorta di packaging, necessario per immagazzinare il DNA in una forma ordinata e con occupazione di spazio ottimizzata. Si tratta di proteine che hanno anche ulteriori funzioni: a seconda della loro natura chimica, cioè se sono acetilate o metilate, esse possono attivare o disattivare i geni. Nuovi metodi di indagine riescono ora a rivelare direttamente quali geni sono stati attivati o disattivati dagli istoni.
«In fondo non c’è nulla di sostanzialmente nuovo: anche una cellula di pelle è diversa da una cellula di fegato anche se hanno lo stesso identico DNA; le cellule però sono diverse per le loro marcature epigenetiche e queste marcature specifiche sono trasmesse alle cellule figlie: una cellula di fegato produce cellule di fegato e una di pelle, cellule di pelle. Quindi le marcature epigenetiche sono trasmissibili. Inoltre gli organismi viventi si adattano durante la loro vita ai cambiamenti ambientali e gli adattamenti si ottengono tramite modificazioni epigenetiche. L’esperimento del gruppo di Zurigo, insieme a numerosi analoghi esperimenti precedenti, dimostra che modificazioni epigenetiche indotte dall’ambiente sono trasmissibili alla progenie e sono stabili, cioè si mantengono nelle generazioni future anche in assenza della condizione ambientale che le ha indotte».
Ma tutto ciò colpisce al cuore la teoria neodarwiniana? Paro si è affrettato a dichiarare che la teoria di Darwin non è messa in discussione, che siamo di fronte solo ad aspetti complementari e che i meccanismi evolutivi sono i medesimi sia nel caso di caratteri generati e trasmessi per via epigenetica che per quelli di origine genetica. Soave tuttavia si mostra più critico. «In fondo cosa c’è di diverso tra una mutazione genetica classica (come quelle indotte dai raggi X) e una mutazione epigenetica, un’epimutazione? Una differenza importante c’è: è che una particolare situazione ambientale induce in molti individui sempre la stessa epimutazione e quindi i contesti ambientali hanno un ruolo non marginale nell’evoluzione; mentre le mutazioni classiche sono casuali, indipendenti da ciò che la situazione ambientale richiede e diverse in ciascun individuo. Tutto ciò fa vacillare uno dei pilastri della teoria neodarwiniana dell’evoluzione».
Una cosa bella e chestertoniana a Pisa...
Gli amici di Pisa ci chiedono di dare voce a quest'incontro che cade l'8 Maggio 2009.
Diamo loro voce molto volentieri, visto che della partita è anche l'amico Fabio Canessa, che ci ha intrattenuto lo scorso Chesterton Day.
Come vedete, il programma è impegnativo, anche per la presenza di ciccia! Bella idea, quella dei pisani!
Naturalmente chiamiamo a raccolta tutti i chestertoniani toscani, e aspettiamo foto, video e quant'altro della serata.
domenica 19 aprile 2009
Pillole per persone pallide - i siti di Giuseppe Noia e Carlo Bellieni
Quello del professor Giuseppe Noia: http://www.noiaprenatalis.it
e quello del professor Carlo Bellieni: http://carlobellieni.splinder.com
Visitateli, sono una fonte inesauribile di notizie vere, di Verità, di giudizi cattolici, di pillole per persone pallide, come avrebbe detto il nostro Gilbert. Leggete e diffondete. Sono fatti da due Uomini Vivi, due che non accettano di essere morti mentre sono ancora vivi.
Chesterton è attuale - 36 - Carlo Bellieni, l'igiene e la bioetica
ROMA, domenica, 19 aprile 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica di Bioetica riportiamo la risposta alla domanda di un lettore da parte del dott. Carlo Bellieni, dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
* * *
Perché la bioetica si occupa solo di “casi estremi” (clonazioni, chimere, eutanasia…) e appare assente (almeno sui giornali) da un giudizio sui fatti più quotidiani?
E’ una domanda giusta, che mostra attenzione verso il rischio di invischiarci in tranelli, e dimenticare il lavoro di giudizio sulla vita reale. Per questo qui a seguito mostreremo come l’etica ci raggiunga anche nelle vicende più semplici di tutti i giorni.
Uno degli ambiti in cui la riflessione bioetica merita un approfondimento è quella che potremmo chiamare “l’etica dell’igiene”: il vero e proprio “culto” della pulizia sviluppatosi negli anni del dopoguerra è un concetto assolutamente buono o nasconde dei tranelli? Non è male dedicare un piccolo spazio a questo tema solo in apparenza secondario.
1. Certamente l’introduzione nelle case dei Paesi occidentali di acqua corrente e servizi sanitari ha determinato una netta diminuzione di malattie infettive. Tuttavia bisogna riflettere sul netto salto di abitudini: dalla carenza di abluzioni quotidiane dovuta al fatto che l’acqua era un bene prezioso, all’alto numero di esse con seguito di cura per il corpo legata a cosmetici e veri e propri farmaci. Certamente oggi il “lavarsi” è diventato un piacere, e questo ha i suoi vantaggi, la cura del corpo è cosa buona e l’igiene salva numerosissime vite. Bisogna tuttavia riflettere su dei fatti che sembrano essere il rovescio della medaglia del nuovo fenomeno:
a. La doverosa pulizia del corpo ai fini di prevenzione di malattie necessita di poche accortezze, certo superate oggi in qualità e quantità da moltissimi individui.
b. L’eccesso di abluzioni porta ad un enorme consumo di acqua, in gran parte potabile, e ad un’immissione nelle acque reflue di sostanze tensioattive e talora non biodegradabili.
c. La perdita dei ferormoni prodotti dalla pelle (K Stern, in Nature 1998) con conseguente perdita di una forma di comunicazione interpersonale non basata sul linguaggio orale, a vantaggio di profumi e odori indotti dal mercato.
d. La mancanza di contatto con germi “buoni” che talora sono la premessa per la protezione contro quelli patogeni con maggior rischio di susseguenti infezioni e di allergie, secondo la nota “hygiene hypothesis” (MS Kramer, in Clinical and Experimental Allergy, 2009)
Bisogna allora riflettere su quanto l’uso di cosmetici e saponi, necessari solo in parte a scopo di prevenzione di malattie, sia una reale scelta e quanto sia indotto dal mercato pubblicitario. Nuove nicchie di mercato si aprono infatti giorno dopo giorno per questo tipo di mercanzia, un tempo priorità del mondo femminile, e oggi estesa a maschi, ma anche presente verso i bambini, e – non ultimi – gli animali domestici.
2. Il reale punto caldo però è valutare quanto la propensione estrema per l’igiene sia legata a cliché neanche indotti dal mercato, ma da una cultura omologante. Lungi da noi esortare alla trasandatezza, ma l’avversione verso la “sporcizia” ha certo travalicato i limiti dell’igiene. Si considera sporcizia un minimo di forfora, l’acne giovanile fisiologica, il comune sudore, i cosiddetti “peli superflui”, come se non fossimo più in grado di fare i conti con i normali processi e cambiamenti del nostro corpo. Probabilmente il problema è qui: siamo spaventati dal nostro stesso corpo, che ormai amiamo considerare solo nei cliché di una perfezione utopica. L’ideale oggi è l’uomo glabro o la donna senza nessun segno dell’età.
Tutto questo ci rimanda ad una più profonda paura, che non è tanto la paura di invecchiare, quanto quella di non rientrare nel cliché standard per avere diritto ad una reale cittadinanza in questo mondo. E’ l’omologazione universale, che inizia già in età infantile, quando le bambine si trovano a giocare con bambole-modello dall’aspetto anoressico, e i maschietti con cartoni animati “palestrati”: tutti ovviamente senza segni di età né di imperfezioni. Modelli perfetti ed utopici che lanciano solo un messaggio: fai di tutto per diventare come noi. Tanto ecologismo moderno critica giustamente un mondo omologante, artificialmente “pulito”, in cui si abolisce la biodiversità, e in cui si accetta solo frutta esteticamente perfetta indipendentemente dalle proprietà nutritive e dagli antiparassitari usati.
3. L’etica dell’igiene allora ci riporta alle parole di Gilbert K. Chesterton che così faceva dire al suo personaggio padre Brown: “certe volte credo che i criminali abbiano inventato l’igiene. O forse i riformatori dell’igiene hanno inventato il crimine. Tutti parlano di stanzette puzzolenti e sudici tuguri in cui si può scatenare il crimine, ma è proprio il contrario. Sono definite luride non perché vengono commessi delitti, ma perché i crimini vengono scoperti. E’ nei luoghi netti, candidi, ordinati, puliti, che il delitto può scatenarsi: non c’è fango per trattenere le orme” (G.K. Chesterton, Lo svelto. In “Tutte le storie di Padre Brown”. 1945).
4. C’è dunque da aver paura di un mondo basato su un’utopica perfezione, perché non lascia spazio alla diversità, alla varietà, alla malattia. Dunque arriviamo al legame tra l’ “etica dell’igiene” (considerare il corpo pulito solo secondo i suddetti canoni socialmente imposti e non secondo quelli di una rigorosa igiene preventiva) e l’etica della qualità della vita, cioè della vita considerata accettabile solo a certe condizioni.
Certo, il discorso sull’etica dell’igiene (e la critica all’etica della qualità della vita) ci porta al cuore della questione etica, là dove nascono gli abusi: la paura di non valere se non per quello che produciamo. Per questo ci mascheriamo e ci vorremmo lavar via ogni traccia di ciò che non ci rende “socialmente accettabili”. Ma non dimentichiamo che nei Vangeli si parlava con tristezza di quelli che ripulivano l’esterno delle tombe con mani di stucco bianco (Luca 11, 43-44), e così speravano che non si pensasse a quello che c’era dentro, metafora dell’ipocrisia, ma anche dell’attenzione eccessiva al culto del corpo.
5. Come abbiamo visto, le nostre scelte quotidiane – addirittura la cura del corpo – sono improntate su una scelta di campo etico. Purtroppo, per tornare alla domanda iniziale, a certi poteri dà agio limitare il discorso alle ultime “provocazioni etiche” (cannibalismo, clonazioni, suicidio assistito, ecc.) perché così tutti i sommovimenti che pur destarono scalpore al loro albore (aborto, fecondazione artificiale, ecc.) vengano dati per tacitamente accettati. A noi sta allora mantenere vigile l’attenzione e il giudizio e usare la ragione.
[I lettori sono invitati a porre domande sui vari temi di bioetica scrivendo all'indirizzo: bioetica@zenit.org. I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]
sabato 18 aprile 2009
Il laicismo, nuova religione del Belgio, viene rintuzzato dal Papa.
venerdì 17 aprile 2009
Chesterton è attuale - 36 - Il Washington Times su Chesterton
giovedì 16 aprile 2009
Buon Compleanno, Santità!
Giungano al Santo Padre i più cari e sinceri auguri di buon compleanno, e che il Signore ce lo conservi per qualche centinaio d'anni!
mercoledì 15 aprile 2009
Chesterton è attuale - 35 - Claudio Magris e padre Brown
Un'intervista di Alberto Laggia allo scrittore Claudio Magris ci fa scoprire il suo interesse e la sua stima per Chesterton. E' su Famiglia Cristiana n° 16 del 19.04.2009 a questo indirizzo. Ecco il passaggio interessato:
«È una delle grandi verità della Bibbia: l’unione tra "argilla" e "soffio divino", tra carne e spirito. Cito sempre a difesa del cattolicesimo quella frase che Chesterton fa dire a padre Brown: "C’è una cosa che distingue le grandi religioni dalle superstizioni: il loro autentico, genuino materialismo". Se il Verbo si fa carne significa che si fa anche ghiandola sebacea, sudore, sinapsi di neuroni, sangue. Carne e spirito diventano, insomma, la stessa cosa. Non dovremmo mai dimenticarlo».
martedì 14 aprile 2009
Un aforisma al giorno - 102
domenica 12 aprile 2009
Ancora auguri di Buona Pasqua e altro.
ancora tanti auguri in questo bel giorno di Pasqua di Resurrezione.
Volevamo anche dirvi che il 7 aprile 2009 è morto Stanley Jaki, che non tutti sanno che era un grande chestertoniano oltre che un grande uomo.
Nei prossimi giorni diremo qualcosa su di lui.
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sabato 11 aprile 2009
Chesterton in altre parole - Ancora su Marshall McLuhan
Torneremo sull'argomento, anche sul tomismo di McLuhan, così demodè ma così necessario, oggi.
Inviato dal dispositivo wireless BlackBerry®
venerdì 10 aprile 2009
Chesterton è attuale - 34 - L'Inghilterra va riscoperta, dicono gli inglesi, come fece l'Uomo Vivo
Allora la giornalista suggerisce il "metodo Innocenzo Smith" per rivalutare il bello che si ha già intorno. Sostiene la McDonagh, abbiamo bisogno di "uno stimolo allarmante" per apprezzare ciò che abbiamo. E cita per l'appunto la storia del nostro grande eroe, Manalive, cioè Uomovivo.
Leggete, è interessante vedere e stupirsi del fatto che Gilbert abbia qualcosa da insegnarci, sempre.
Questa è una vera notizia! - Le avventure di Padre Brown rivisitate dai ragazzi delle Scuole Medie Inferiori
di Novella Milanesi
(n.milanesi@cremaonline.it)
giovedì 9 aprile 2009
Chesterton in altre parole - 24 - Marshall McLuhan e Chesterton
Herbert Marshall McLuhan era l'autore di studi che molti amano sintetizzare nella famosa frase "il mezzo è il messaggio", riguardanti la comunicazione e l'uso dei mezzi di comunicazione di massa. Pochi sanno che egli era molto religioso e cattolico. Qualcuno saprà che a farlo conoscere in Italia è stato principalmente Giampiero Gamaleri.
Marshall McLuhan, canadese di Edmonton, scrisse il primo saggio su Chesterton nel 1936 (l'anno della morte di Gilbert), quando lo studioso era in procinto di esere accolto nella Chiesa Cattolica. Esso fu pubblicato sulla Dalhousie Review, una rivista di critica ancora esistente, e il suo titolo era G. K. Chesterton: un mistico concreto (Gennaio 1936). Il 30 Marzo del 1937 McLuhan veniva battezzato e diventava cattolico. Questo è l'unico saggio su Chesterton a firma di McLuhan tradotto e pubblicato in Italia, oggi disponibile all'interno del volume La Luce e il Mezzo - Riflessioni sulla religione, pubblicato da Armando Editore (€ 16.00).
Pochissimi sapranno che questo non è l'unico saggio su Chesterton: sappiamo che ne ha scritti almeno altri due che sono stati ospitati dalla prestigiosa Chesterton Review, la rivista del Chesterton Institute for Faith and Culture, l'Istituto di padre Ian Boyd. Esattamente essi sono tratti il primo dal numero Spring / Summer 1975 e si intitola The Origins of Chesterton’s Medievalism, il secondo dal numero Spring / Summer 1976 e si intitola Formal Causality in Chesterton.
Quello che McLuhan dice di Chesterton è molto interessante, e lo è anche perché riesce a farci capire molto del Nostro, oltre che di tante altre cose. Ci torneremo sopra appena possibile.
Il saggio tradotto in italiano termina con queste parole:
"Se Chesterton fosse stato un mero intellettuale con una normale quantità di energie, certamente sarebbe stato preso sul serio da quei tremila europei acculturati; Lo stesso si potrebbe dire di Dickens. Ma in un'epoca di basso ottimismo, di credi che si sgretolano e di fedi vacillanti, egli ha camminato con sicurezza e selvaggiamente, elogiando la vita e benedicendo i decadenti. E' diventato una leggenda quando ancora erta in vita. Nessuno potrebbe desiderarlo diverso da come è".
mercoledì 8 aprile 2009
Cari Chestertoniani d'Italia, ecco gli auguri di Gilbert e... i nostri!
martedì 7 aprile 2009
lunedì 6 aprile 2009
Legge 40 e eutanasia, voci fuori dal coro dell'informazione
Da IlSussidiario.it
ELUANA/ Caro Direttore, premiare Beppino è troppo: mi dimetto dall'Unione Cronisti: lettera di Salvatore Izzo.
LEGGE 40/ Caro Fini, non c'è una sola etica costituzionale
LEGGE 40/ Eleonora Porcu: i paradossi di una bocciatura ideologica: Intervista a Eleonora Porcu, docente di ginecologia all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna.
LEGGE 40/ Gambino: La Corte al bivio tra la buona e la cattiva strada: Intervista al professor Gambino.
domenica 5 aprile 2009
Dal blog del prof. Carlo Bellieni - 2
Viva il Papa (lo dicono i medici)!
The papal position on condoms and HIV
Solito articolo di critica su quanto detto dal Papa in Africa. Ma quello che è interessante è la lunga serie di lettere alla redazione da tutto il mondo... tutte in supporto del Papa!
Notare per la accuratezza la lettera di Renzo Puccetti.