Questo è il famoso articolo che Mohandas Gandhi lesse e provocò il cambiamento radicale del suo tentativo di dare l'indipendenza al suo paese.
Umberta Mesina l'ha tradotto per noi e la ringraziamo.
Qui sotto alcuni post del nostro blog che riguardano il rapporto tra Gandhi e Chesterton:
https://uomovivo.blogspot.com/2012/07/chesterton-e-gandhi.html
https://uomovivo.blogspot.com/2018/05/un-aforisma-al-giorno-e-chesterton-e.html
Marco Sermarini
______
Matthew Arnold, insieme a molto di arido e arbitrario, ha detto almeno due cose sanissime e utili: la prima è che noi, gli inglesi moderni, siamo troppo propensi a venerare “il macchinario”: vale a dire, i mezzi anziché il fine; e poi che dovremmo grandemente sviluppare l’abitudine di lasciare che i nostri pensieri “gironzolino intorno” a un argomento.
Questa pagina di questo giornale sembra essere un luogo mirabilmente e particolarmente adatto a “gironzolare intorno”. Ciononostante, se consentite alla mente di gironzolare intorno a qualunque cosa che sia venerata come “macchinario”,1 probabilmente finirete nei guai. Io stesso, per esempio, sono stato severamente rimproverato, di recente, per aver detto che ciò che volevo non erano voti ma democrazia. La gente parla come se questa fosse una specie di orribile apostasia dalla posizione liberale; invece, è una modestissima osservazione esattamente dello stesso genere che se dicessi che voglio non l’espresso per Brighton ma Brighton; Calais e non il traghetto per Calais; non una spedizione polare, ma il Polo Nord.
Il banco di prova di una democrazia non è se il popolo vota ma se il popolo comanda. L’essenza di una democrazia è che il tono e lo spirito nazionali del cittadino-tipo siano visibili ed evidenti nell’agire dello Stato: che la Francia sia governata in maniera francese o la Germania in maniera tedesca o la Spagna in maniera spagnola. Il voto può essere il mezzo più comodo per ottenere tale risultato; se però non lo ottiene, il voto è del tutto inutile. E a volte non lo ottiene. Mi azzardo a dire che il francese comune era molto più presente dietro alla coscrizione di Napoleone I di quanto l’inglese comune fosse presente dietro quella massa di assurdità anti-civica che è stato il Children Bill.2 L’arte della politica non consiste nel gestire una macchina, ma nel gestire una personalità. Il Parlamento è un “esso” (it) ma l’Inghilterra è una “lei”. Eppure è veramente sorprendente fino a che punto si sia perduto questo senso del colore nazionale o locale. Un tale in treno mi raccontava l’altro giorno che un qualche Insediamento-modello o Città-giardino o qualcosa del genere in cui era vissuto “aveva la vita vera di un antico villaggio inglese”. Quando gli ho chiesto della taverna, mi ha detto che avevano votato per avere una taverna astemia. Non sembrava accorgersi di come avesse cancellato l’intero quadro con una pennellata sola. Era come se avesse detto: “Com’è affascinante un antico villaggio inglese la sera, quando il muezzin chiama dallo scintillante pinnacolo della moschea!”.
È questa mancanza di atmosfera che sempre mi mette in imbarazzo quando gli amici vengono a chiedermi che ne penso del movimento del nazionalismo indiano. Non ho il minimo dubbio che i giovani idealisti che chiedono l’indipendenza per l’India siano delle ottime persone; la maggior parte dei giovani idealisti sono ottime persone. Non ho il minimo dubbio che molti dei nostri funzionari imperiali siano stupidi e oppressivi; la maggior parte dei funzionari imperiali sono stupidi e oppressivi. Quando però mi trovo davanti gli effettivi giornali e le effettive affermazioni dei nazionalisti indiani, mi sento molto più dubbioso e, per la verità, un po’ annoiato. La debolezza principale del nazionalismo indiano sembra essere il fatto che esso non è molto indiano e non è molto nazionale. È tutto un parlare di Herbert Spencer e il cielo sa che altro. A che giova lo spirito nazionale indiano se non sa proteggere la sua gente da Herbert Spencer? Non apprezzo la filosofia del buddismo3 ma non è così superficiale come quella di Herbert Spencer: ha delle idee proprie e reali. Uno dei giornali, a quanto vedo, si chiama The Indian Sociologist. Che stanno facendo, i giovani dell’India, da permettere che una bestia come un sociologo inquini i loro antichi villaggi e i loro gentili focolari?
A conti fatti, esiste una distinzione nazionale tra un popolo che reclama la propria antica vita e un popolo che chiede qualcosa che è stato inventato interamente da qualcun altro. C’è differenza tra un popolo conquistato che chiede istituzioni sue proprie e il medesimo popolo che chiede le istituzioni del conquistatore.
Supponiamo che un indiano dica: “Vorrei di tutto cuore che l’India fosse sempre stata libera dagli uomini bianchi e da tutte le loro opere. Ogni sistema ha le sue pecche e noi preferiamo le nostre. Ci sarebbero state guerre dinastiche; ma io preferisco morire in battaglia anziché in ospedale. Ci sarebbe stata tirannia; ma preferisco un re che vedrei a malapena a centinaia di re che dettano regole sulla mia dieta e i miei bambini. Ci sarebbe stata pestilenza; ma preferirei piuttosto per un’epidemia che per le fatiche e soprusi volti a evitare l’epidemia. Ci sarebbero state divergenze religiose nocive per la pace pubblica; ma penso che la religione sia più importante della pace. La vita è molto breve: uno deve vivere in qualche modo e morire da qualche parte; e la quantità di benessere fisico che un contadino ottiene nella vostra repubblica non è poi tanto maggiore del mio. Se non vi garba la nostra specie di conforto spirituale, noi però non l’abbiamo mai preteso. Andatevene e lasciate che ce lo godiamo noi”.
Supponiamo che un indiano dica questo: allora lo chiamerei un nazionalista indiano, o perlomeno un indiano genuino, e penso che replicare sarebbe molto difficile. Ma i nazionalisti indiani le cui opere ho letto dicono semplicemente, con eccitabilità via via maggiore: “Datemi un’urna elettorale. Fornitemi un portacarte ministeriale. Passatemi la parrucca del Lord Cancelliere. Ho il diritto naturale a essere primo ministro. Ho la pretesa soprannaturale di introdurre un Bilancio di previsione. La mia anima langue se mi si esclude dalla direzione del Daily Mail” o cose del genere.
A questo, io penso, non è così difficile replicare. Anche la più comprensiva delle persone sarebbe tentata di gridare con voce lamentosa: “ Ma che diamine, mio eccellente orientale (possa la vostra ombra non diminuire mai), tutte queste cose le abbiamo inventate noi. Se sono proprio tanto buone come le ritenete, dovete a noi il fatto di averne mai sentito parlare. Se veramente sono diritti naturali, voi non avreste mai pensato ai vostri diritti naturali se non fosse stato per noi. Se votare è veramente così solenne e divino (della qual cosa io sono piuttosto propenso a dubitare), allora è indubbio che noi abbiamo qualcosa dell’autorità che compete ai fondatori di una nuova religione, ai portatori della salvezza”. Quando l’indù prende quel tono arrogante e reclama il voto subito come se fosse una sacra necessità dell’uomo, io posso esprimere i miei sentimenti solo ipotizzando la situazione opposta. Mi sembra che sia proprio come se io andassi in Tibet e trovassi il Gran Lama o un’altra grande autorità spirituale e gli chiedessi di essere trattato come un mahatma o qualcosa del genere. Il Gran Lama molto ragionevolmente risponderebbe: “La nostra religione o è vera o è falsa; o vale la pena di averla o non ne vale la pena. Se tu ne sai più di noi, allora non vuoi la nostra religione. Se però vuoi la nostra religione, ti prego di ricordare che è la nostra religione: noi l’abbiamo scoperta, noi l’abbiamo studiata e noi sappiamo se un uomo è un mahatma o no. Se desideri uno dei nostri particolari privilegi, devi accettare la nostra particolare disciplina e superare i nostri particolari modelli per ottenerlo”.
Penserete forse che mi oppongo al nazionalismo indiano. Ed è qui che vi sbagliate: sto lasciando che la mia mente gironzoli intorno all’argomento. Ciò è allettante specialmente quando abbiamo a cge fare con uno scontro tra due civiltà compiute. E neanche sto negando l’esistenza di diritti naturali. Il diritto di un popolo a esprimere se stesso, ad essere se stesso nelle arti e nell’azione, a me sembra un diritto autentico. Se esiste l’India, essa ha il diritto di essere indiana. Ma Herbert Spencer non è indiano; la “sociologia” non è indiana; tutto questo strepito pedante circa la cultura e la scienza non è indiano. Spesso mi piacerebbe che non fosse nemmeno inglese. Ma questa è la nostra prima difficoltà teorica: non possiamo esser certi che il nazionalista indiano sia nazionale.
Gilbert Keith Chesterton, Illustrated London News, 2 Ottobre 1909, traduzione di Umberta Mesina ©.