lunedì 22 luglio 2024

L'Uomo che fu Giobbe, un articolo di Daniele Capuano che guarda nel "Giovedì" (con qualche incrocio).


Giobbe deriso dalla moglie
(Giovacchino Assereto)

Alla ricerca di cose chestertoniane, ho notato che c'eravamo persi un interessante articolo su L'Uomo che fu Giovedì.

Ecco il collegamento dell'articolo da titolo

L’UOMO CHE FU GIOBBE. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL PIÙ GRANDE DEI ROMANZI DI G. K. CHESTERTON,, 

di Daniele Capuano sul blog di approfondimento culturale Minima&Moralia.


Il brano iniziale: 

L’uomo che fu giovedì è forse il romanzo più vitale di Chesterton perché, pur essendo il più intensamente e vistosamente allegorico, è anche il più enigmatico, ambiguo e provocatorio (in quanto provoca, in tutti i sensi, la proliferazione dei commenti e delle note al margine). La sua natura di incubo è un esplicito riferimento alla condizione spirituale dell’autore e di gran parte della gioventù edoardiana alla fine del XIX secolo: uno scetticismo morboso che intaccava profondamente la percezione dell’essere, dell’ens, così decisiva per la guarigione intellettuale e morale del giovane Chesterton.

Che sullo sfondo vi sia il libro di Giobbe, che il grande scrittore inglese usò istintivamente su di sé, come avrebbe poi consigliato Jung ai suoi pazienti depressi, è innegabile. Ma la meditazione religiosa e filosofica è forse ancor più radicale, e investe il senso stesso della creazione e della redenzione. Il male è anarchia, dunque è il risultato del libero arbitrio esercitato senza discernimento, in modo puramente distruttivo, diabolico: il poeta Gabriel Syme, amante dell’ordine, ovvero del kosmos, decide di entrare nella polizia filosofica, una sorta di tribunale dell’Inquisizione in forma di intelligence: l’invisibile capo lo consacra al martirio, ovvero al retto uso della volontà in un mondo dominato dal male.

Il resto dell'articolo è nel collegamento sopra.

L'autore è Daniele Capuano che viene descritto così da Adriano Ercolani (a noi noto per questo e per questo motivo): 

"Da ragazzi, pressoché ventenni, avemmo l’opportunità di collaborare a un’imponente antologia letteraria, libro di testo universitario presso l’Università Gregoriana, Novecento letterario italiano ed europeo, curata da Giovanni Casoli, nostra stimata guida intellettuale".

A suo tempo mi chiesi perché ad Ercolani piacesse Chesterton, e trovai la risposta che riporta pure per Daniele Capuano al medesimo uomo; anch'egli è a noi noto, si tratta di Giovanni Casoli.

Ecco chi è Giovanni Casoli (per i distratti):

http://uomovivo.blogspot.com/2018/09/chesterton-in-altre-parole-giovanni.html?m=1


Altre testimonianze:


Ed ecco un post sulla famosa antologia di Casoli:


Come dissi a suo tempo, Casoli è autore di pagine molto belle su Chesterton, tra le più acute e affettuose. 

Un motivo in più per leggere questo articolo di Capuano (che ci era sfuggito nel 2018, anno della sua pubblicazione) che tocca con precisione alcuni motivi per la comprensione dell'opera, sia quelli occasionanti (la dedica, le circostanze ad essa connesse, i cenni dell'opera che fa Chesterton nella sua Autobiografia, ecc.) che quelli relativi al senso dell'opera (il nesso con il Libro di Giobbe è imprescindibile, ne iniziammo a parlare nel 2007 in occasione del Chesterton Day con il giovane don Guido Bennati che scavò quest'idea nella sua tesi di baccellierato).

Mi permetto però di rilevare come Chesterton dia in un certo senso l'interpretazione autentica del personaggio Domenica; il libro è indubbiamente enigmatico e a mio avviso occorre leggerlo e rileggerlo e conoscere i passaggi fondamentali della giovinezza del suo autore, ed inoltre forse non tutti hanno letto questo passaggio tratto dalla sua Autobiografia che contiene la giusta interpretazione del personaggio citato:

Più volte mi è stato chiesto cosa intendessi con il mostruoso orco da pantomima battezzato Domenica; e alcuni hanno suggerito, non senza ragione, potesse trattarsi di una versione blasfema del Creatore. L'intera storia rappresenta l'incubo delle cose, non come sono, ma come apparivano al giovanotto quasi-pessimista negli anni '90 dell'800. E l'orco, che sembra tanto brutale, ma in un certo senso misterioso e clemente e bendisposto, non è tanto Dio, nel significato della religione o dell'assenza di essa, quanto la Natura come appare al panteista, il cui panteismo si sforza di uscire dal pessimismo. Se mai la storia possiede un senso, intendeva esordire con un ritratto del mondo nella sua peggiore rappresentazione e dimostrare che, invece, il quadro non era poi così nero come sembrava. Senza una continuazione, il ricordo potrebbe apparire privo di senso come tutto il libro e per ora posso solo riportare i due fatti, di cui, in un qualche modo, vorrei dare testimonianza. Tentavo innanzitutto di trovare un ottimismo nuovo, non in relazione a un maximum, ma a un minimum di bene.
Non mi curavo tanto del pessimista che si lamentava perché c'era poco bene: mi rendeva furioso, al punto di voler farlo fuori, quel pessimista che si chiedeva qual era il bene nel be-ne. Inoltre, fin dai primi giorni, e non certo per le più nobili ragioni, sapevo troppo per far finta di potermi sbarazzare del male. Verso la fine del libro aggiunsi un personaggio che, con piena conoscenza di causa, nega il bene e lo sfida. Molto tempo dopo, padre Ronald Knox mi disse, con quel suo fare curioso che gli è caratteristico, che era certo che l'intero testo sarebbe stato utilizzato per dimostrare che ero panteista e pagano e che il criticismo storico del futuro non avrebbe avuto difficoltà a provare che l'episodio dell'Accusatore era una semplice intromissione messa in opera dai preti.
In realtà non era così, anzi era ben diverso. A quell'epoca, come tutti per mille miglia intorno, sarei stato seccato se un prete si fosse impicciato dei fatti miei o avesse modificato qualcosa del mio manoscritto. Avevo fatto quell'affermazione nel racconto, che testimoniava il male estremo (che è semplicemente la colpa imperdonabile di non volere perdono), non perché l'avessi imparato da uno dei milioni di preti che non avevo mai incontrato, ma perché l'avevo imparato da solo. Già ben sapevo che, se solo l'avessi voluto, avrei potuto tagliarmi fuori dall'intera vita dell'universo. Mia moglie, quando le si chiede chi l'abbia convertita al cattolicesimo, immancabilmente risponde: «Il diavolo».
Ma questo avvenne molto più tardi e non ha alcun rapporto con la filosofia brancolante, e ansiosa di risposte, della storia in questione. Vorrei piuttosto citare l'elogio che mi fu fatto da un uomo di tipo completamente diverso, che, per una qualche ragione, fu uno dei pochi a trovare il bandolo della matassa del disgraziatissimo romanzo della mia giovinezza. Era un celebre psicoanalista, dei più all'avanguardia e dei più scientifici. Non era un prete, tutt'altro, possiamo dire, come quel francese che rispose alla domanda se aveva pranzato sulla nave: «Au contraire». Non credeva nel diavolo, Dio non voglia! (Se esiste un Dio che possa volerlo.) Era invece uno studioso attento e competente nel suo campo, e mi fece rizzare i capelli in testa, quando disse che aveva trovato il mio romanzo giovanile un rimedio utilissimo per i suoi pazienti, soprattutto il lungo processo con cui il diabolico anarchico si rivela un rispettoso cittadino travestito. «Conosco molti che erano vicini alla pazzia» mi disse con tutta serietà, «e che trovarono la pace per aver capito L'Uomo che fu Giovedì». Era sicuramente eccessivo, nella sua generosità, anzi forse era lui a essere pazzo. Ma confesso che mi lusinga che in quel periodo di personale follia, io possa essere stato di un piccolo aiuto ad altri pazzi come me.

Marco Sermarini

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