Non voglio appartenere a una religione in cui mi è permesso avere un crocifisso.
Voglio che mi sia permesso esserne entusiasta.
G.K. Chesterton
L’arte si sa è un mestiere sui generis. Mentre noi arriviamo col fiatone a fine giornata, stressati, stanchi e con la lista delle cose da fare che si allunga a dismisura, per certi artisti la noia è compagna assidua di ogni giornata. Ma questa condizione tremenda e insopportabile è poi capace di generare quell’estro creativo per cui – noi stressati restiamo dei comuni mortali – e, invece, l’artista annoiato diventa un genio.
Non sono sicura che l’epiteto di genio possa applicarsi al signor Li Binyuan, ma di certo lui stesso si è dichiarato molto annoiato. Inoltre la laurea conseguita presso la China Central Academy of Fine Arts lo qualifica come artista. Qualche sera fa si è messo a correre nudo per le vie di Pechino portando con sé una gigantesca croce; ad aprile aveva già fatto il medesimo tipo di sortita, con una bambola gonfiabile. Non è dato sapere quale guizzo creativo abbia fatto sgorgare dall’animo del signor Li questa esplosione artistica, ma è dato sapere che ha gradito molto vedere il suo gesto dilagare con grande successo sui social networks. Pare che questo abbia anche lenito il fastidio della noia che lo attanagliava.
Ma ora, il signor Li è un po’ nei guai perché al governo di Pechino la sua «performance artistica» non è affatto piaciuta. Eh sì, andarsene a spasso con una croce così grande da quelle parti è scandaloso – verrebbe da pensare. E invece no, il problema è un altro: in Cina la nudità in pubblico è reato. Ed è stato nel leggere questo che i miei pensieri hanno cominciato a uscire dal seminato, cioè a perdersi in strane fantasie.
Un primo pensiero mi ha portato a riflettere sul concetto di «performance artistica»: la nudità associata alla croce è senza dubbio un gesto di tendenza. Ce lo insegnano quelle altre artiste della femminilità del movimento Femen, che hanno avuto l’intuizione geniale di spogliarsi e di mettere in croce pure la Barbie. La noia di un artista cinese vs la rivoluzione delle femministe dell’Est: ai posteri l’ardua sentenza su chi meriti il premio per la migliore messa in scena.
Un altro pensiero mi ha fatto venire in mente un video musicale: quello in cui una giovane ragazza se ne andava a spasso per le vie di New York con un cuore gigantesco, venendo snobbata se non emarginata da tutti. Solo quando il cuore in questione si rimpiccioliva a dimensioni modeste, un ragazzo la degnava di attenzione; e poi il medesimo giovanotto se la dava a gambe quando il cuore ricominciava a diventare smisuratamente grande. Paradossale: cosa ci può essere di pericoloso o fastidioso in un cuore gigante? Ma, di fatto, tutto ciò che è fuori scala – anche nel bene – suscita in noi diffidenza e anche preoccupazione.
Mi è, poi, venuto da pensare che la croce non è un cuore. E, infatti, nel caso della croce non bastano neppure le dimensioni modeste: che siano piccole o grandi, le croci che i cristiani portano addosso oggi sembrano in ogni caso un simbolo troppo sfacciato. Le togliamo dalle scuole, le togliamo persino dalle montagne e a qualcuno vengono pure fatte togliere di dosso. E mi viene da pensare che molti di coloro che pensano che sia oltraggioso, o comunque non rispettoso delle diversità culturali, esibire un crocifisso sarebbero decisamente più propensi a «perdonarci» l’ostentazione di questo simbolo se ci giustificassimo dicendo che si tratta di una «performance artistica». L’estro artistico – si sa – è un lasciapassare più potente del senso comune, della ragionevolezza e della memoria storica.
Ma questo malanimo nei confronti della croce è cosa non nuova, infatti lo stesso signor Chesterton racconta un episodio che lo vide coinvolto personalmente nel Primo Dopoguerra: nella sua città si era pensato di erigere un monumento ai caduti di guerra e alcuni avevano avanzato la proposta indecente che questo monumento fosse una croce. Neanche a dirlo, cominciarono a sollevarsi non proprio delle aperte proteste … ma … diciamo così … furono avanzate delle ragionevoli alternative.
«La prima cosa che è interessante notare, tipica dello spirito della modernità, è un atteggiamento tollerante, che, alla fin fine, è frutto di timidezza. Si potrebbe pensare che la libertà religiosa significhi la possibilità che ognuno possa discutere di religione a suo piacimento. In realtà, nessuno ha il diritto di parlarne» (da Autobiografia). I timidi di cui parla Chesterton non appartenevano certo alla classe popolare, perché – a onor del vero – la gente comune avrebbe avuto l’onestà intellettuale di dichiarare apertamente che la croce non gli stava bene. Erano i benpensanti e i capi di partito a suggerire l’ipotesi che un club per i reduci di guerra, o una fontana pubblica o – addirittura – una pompa di benzina fossero alternative più fruttuose di una nuda croce:
«Quelli che abitavano nelle casupole della Città Vecchia amavano la croce perché era cristiana oppure la odiavano perché era papista, e lo dicevano sempre. Ma i capi del partito anitipapista si vergognavano di parlare di antipapismo e non esprimevano con chiarezza il loro pensiero sulla malvagità del crocifisso, dilungandosi invece sull’utilità del distributore di benzina e della fontana pubblica». Il dibattito andò avanti e non poteva che essere così, spiega il signor Chesterton: «A ogni modo, la croce rappresentò il punto cruciale: sembra un gioco di parole, ma è la pura verità. È ben strano che pochi tra coloro che pensavano che la croce fosse il punto cruciale ammettessero che era cruciale proprio perché si trattava di una croce».
È ben strano, infatti. Ed è anche tipico della noia e della pigrizia che pervade tutti noi – non solo il signor Binyuan – dimenticarci di come parliamo e del perché parliamo in un certo modo. Noi diciamo «cruciale», e non lo facciamo perché siamo ferventi religiosi. Lo facciamo perché riconosciamo – con una lapalissiana evidenza consapevole – il senso della croce come simbolo. Ed è da lì che occorre partire, ancor prima di mettersi a ragionare su chi in croce ci è morto. La croce è innanzitutto un conflitto, che il signor Chesterton sintetizza così: «La croce è una figura ad angoli retti coraggiosamente volti in opposte direzioni. […]. La croce riassume l’idea di un conflitto che si estende nell’eternità. In altre parole, la croce, come fatto e come simbolo, esprime la necessità di uscire dal cerchio che è tutto e niente» (da L’uomo eterno).
Sì, perché l’unica alternativa geometrica alla croce è il cerchio e il cerchio è un girotondo che torna su se stesso. E, dunque, qual è la nostra visione del mondo? Come vogliamo trattare le cose che ci riguardano? Vogliamo girarci intorno o incrociarle? Il conflitto o la peripezia, alla fine è questo il punto. La croce, sostanzialmente, ci parla di qualcosa che viene al «dunque» e perciò edifica e procede. È il cardo e decumano, la base dell’urbanistica. Sono i quattro punti cardinali del marinaio e gli assi cartesiani del matematico. Che la croce sia una questione cruciale ci è sotto gli occhi costantemente: quando nostro figlio usa la riga e la squadra per fare i compiti di geometria, quando guardiamo le mappe sul navigatore e persino quando giochiamo a battaglia navale. È a partire da questo dato concreto, tangibile ed edificante (nel vero senso del termine) che dovrebbe – in un secondo momento – suscitare in noi degli interrogativi, delle domande (forse della meraviglia) il fatto che il Dio fatto Uomo ce lo abbia consegnato come simbolo del suo essere venuto al dunque delle cose, per noi.
Cosa accadrebbe se in una città fatta solo di cerchi concentrici, all’improvviso comparisse un incrocio? Il signor Li Binyuan, che appartiene alla cultura per eccellenza devota al cerchio, quella orientale, ha per un attimo dato questa impressione simbolica: ha mostrato il conflitto di una croce a chi ha una visione del mondo legata a una perenne e immutabile ciclicità. Non era nelle sue intenzioni, ma il suo gesto strampalato ed esibizionistico aveva – ironicamente – proprio un senso:
«II buddismo è centripeto; il cristianesimo è centrifugo: prorompe. Il circolo è, per sua natura, infinito e perfetto, ma resta fissato nelle sue dimensioni; non può essere né più grande né più piccolo. La croce, che ha nel suo cuore una collisione e una contraddizione, può stendere le sue quattro braccia all’infinito senza alterare la sua forma. Per il paradosso centrale che essa contiene può crescere senza cambiare. Il cerchio torna su se stesso ed è bloccato. La croce spalanca le sue braccia ai quattro venti: è un segnale-guida per liberi viaggiatori» (da Ortodossia).
Che ci fa un uomo nudo con una croce sulle spalle? Per un attimo, a Pechino qualcuno, colto di sorpresa da un’inaspettata comparsa, si è posto questa domanda con un guizzo di autenticità più sincera di quanta ne mostriamo noi in Occidente quando ci mettiamo a discutere (sempre girandoci intorno) di un evento che ha segnato la nostra Storia.
PS: se a qualcuno è rimasta la curiosità di sapere come andò a finire la vicenda sul monumento ai caduti che vide coinvolto il signor Chesterton, mi affretto a svelare il tutto: «Vi fu una sorta di plebiscito sui giornali in cui era quasi impossibile sapere cosa votare, ma che si concluse con un’esigua maggioranza a favore della costruzione di un club per i reduci. Il club, per cui aveva votato la maggioranza, non venne mai costruito. La croce, per cui la minoranza aveva dimenticato di votare, invece fu costruita. Quando cessò il clamore dei giornali e ognuno andò per i fatti suoi, un prete raccolse i fondi, da solo e senza chiasso, ottenne denaro sufficiente per innalzare la croce e la fece costruire» (da Autobiografia).
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