dal FOGLIO del 19/08/2006
Tra Chesterton e Huizinga qualche breve nota sull’intervista televisiva di Benedetto XVI
Non c’è argomento più stucchevolmente new age di quello del volo degli angeli e non c’è persona più radicalmente contrapposta a tutte le pseudo-culture che vengono generalmente etichettate con quella sigla di papa Ratzinger, eppure nel chiudere l’intervista televisiva, la seconda dall’inizio del suo pontificato, concessa a un pool di network tedeschi e trasmessa domenica scorsa, il pontefice ha fatto riferimento proprio agli angeli invitando anche gli uomini mortali a librarsi in volo. Alla singolare domanda: “quale ruolo hanno nella vita di un Papa lo humour e la leggerezza dell’essere?”, Benedetto XVI ha infatti risposto: “io non sono un uomo a cui vengano in mente continuamente barzellette. Ma saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo tanta importanza”.
E’ una battuta che merita più di una battuta. Innanzitutto il Papa ha ben presente il fatto che l’umorismo è una cosa molto seria, non è “dire barzellette”. Si tratta invece di “saper vedere”. Nella sua enciclica Deus Caritas est ha affermato che ciò che conta, ciò di cui l’uomo ha sempre bisogno, è “un cuore che vede”. L’umorismo, questa capacità di visione, di rovesciare la prospettiva e cogliere la gioia (e anche il divertimento, dice il Papa) insita nell’esistenza umana, si rivela quindi un metodo, una strada, una saggezza che risulta vitale e “molto importante”, per ogni uomo, anche per il Papa e “il suo ministero”. L’umorismo del resto è, anche etimologicamente, fratello dell’umiltà e tutti e due provengono dall’humus, dalla terra. Solo chi ha i piedi ben piantati per terra, chi riconosce la sua “adamiticità” (Adamo, cioè il “terroso”, secondo la Genesi), può volare alto, fino al cielo. E’ questo il miracolo paradossale dell’umorismo, come spiega Benedetto XVI con la citazione finale (un vero “colpo d’ala” verrebbe da dire) sul volo degli angeli.
Lo scrittore citato è Gilbert Keith Chesterton, geniale scrittore inglese scomparso settanta anni fa e che, quasi a contrastare il diffuso oblio che lo circonda, il Papa di continuo “cita” senza nominare con parole e gesti, allusioni e battute. Più che di citazioni dirette, come quest’ultima sugli angeli e la condanna della seriosità, si tratta di una vera e propria simbiosi, un’identità di vedute, una condivisione di prospettive che rendono superflui i richiami espliciti. Leggerezza e candore sono per esempio due caratteristiche comuni a entrambi, una leggerezza che fa rima con sottigliezza, profondità e acume, e un candore “spudorato”, che spinge per esempio il pontefice a confessare quanto sia faticoso il suo ministero (“ma in ogni caso cerco di trovare anche in questo la gioia”) e, al contrario, quanto lui sia debole di fronte a tale impegno: “Devo dire che io non mi sento molto forte tanto da mettere in agenda ancora molti grandi viaggi...vorrei andare con il “dosaggio” che mi è possibile”. Sia lo scrittore-umorista che il papa-teologo hanno poi ben presente che il mondo moderno non vive una crisi morale quanto piuttosto ha subito un tracollo mentale. E’ la ragione non l’etica ad uscire sconfitta dal XX secolo e proprio per questo motivo, come ha ripetuto davanti alle telecamere tedesche, “credere è diventato più difficile, poiché il mondo in cui ci troviamo è fatto completamente da noi stessi e in esso Dio, per così dire, non compare più direttamente.”. Entrambi concordano sul fatto che un mondo senza Dio non è un mondo di atei illuminati ma di bui creduloni. Lo scriveva Chesterton nel suo saggio Eretici del 1905, lo ripete un secolo dopo il Papa, estendendo il discorso alla questione islamica: “Dall’altra parte l’Occidente viene toccato fortemente da altre culture in cui l’elemento religioso originario è molto forte, e che sono inorridite per la freddezza che riscontrano in Occidente nei confronti di Dio. E questa presenza del sacro in altre culture, anche se velata in molte maniere, tocca nuovamente il mondo occidentale, tocca noi, che ci troviamo al crocevia di tante culture. E anche nel profondo dell’uomo in Occidente e in Germania sale sempre nuovamente la domanda di qualcosa “di più grande””.
Insomma, per comprendere questo pontificato, accanto all’assolutista Agostino (secondo il neo-teologo Bersani), occorre rileggersi qualche saggio dell’umorista Chesterton, oppure, se proprio si vuole mantenere un’aria di serietà, si potrebbe riprendere in mano un piccolo saggio di Huizinga del 1935, La crisi della civiltà, scritto dal geniale storico olandese in quell’ora drammatica per l’Europa, avendo di fronte l’addensarsi le nubi dell’orrore nazista (Ha questo mondo le sue notti, e non sono poche, questa la citazione di Sam Bernardo posta in epigrafe), orrore che già dieci anni prima del conflitto mondiale rivela la sua natura scientifico-tecnologica e spinge l’autore ad affermare che “La barbarie può associarsi ad un’alta perfezione tecnica […] La divinità supreme dell’epoca nostra, meccanizzazione e organizzazione, ha portato vita e morte. Hanno reso tutto il mondo solidale, hanno stabilito dei contatti dappertutto, creato dappertutto la possibilità della collaborazione, della concentrazione di forze, della comprensione reciproca. In pari tempo hanno portato con sé inceppamento, ristagno, irrigidimento dello spirito preso fra i congegni che ci donavano.” Sono parole di Huizinga ma potrebbero essere del teologo e cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI che alle televisioni tedesche ha ribadito: “Il progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma anche la sua capacità morale. E penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico e quello della nostra capacità morale, che non è cresciuto in modo proporzionale”.
Settant’anni fa lo storico olandese si chiedeva: “La natura materiale è schiava delle catene che l’uomo ha foggiato. Che ne è però della vittoria sulla natura spirituale?” e osservava, cupamente, che “Il sintomo più grave è “l’indifferenza alla verità”, riscontrabile dappertutto”. E’ un’indagine lucida e coerente quella di Huizinga che lo conduce alle medesime conclusioni del Papa tedesco: : “Nelle antiche civiltà troviamo un comune ideale: l’onor di Dio – sia pure in diversi modi concepito – la giustizia, la virtù, la sapienza. Lo spirito dell’epoca nostra può darsi dica che questi sono concetti metafisici invecchiati e non bastevolmente definiti. Rinunciando a tali concetti l’unità della cultura è posta in dubbio. Ciò che rimane al suo posto è invero solo una somma di desideri tra loro contrastanti. […] il concetto di cultura si attua solo allorché l’ideale che ne determina l’indirizzo è più elevato degli interessi rivendicati dalla comunità stessa. La cultura deve avere un indirizzo metafisico; altrimenti non esiste”. Ci vuole una formazione del cuore, dice Benedetto XVI, un cuore che sia anche capace di ridere; non a caso il capolavoro di Huizinga è senza dubbio il suo saggio sull’Homo Ludens.
Andrea Monda
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