Raffaele Iannuzzi recensisce "Il libro del cielo e dell'inferno" di Borges e Adolfo Bioy Casares e cita l'ammirazione di Borges per Chesterton "cappellaio magico del cattolicesimo".
Maria Grazia Gotti
A mezzo secolo dalla prima pubblicazione torna in libreria il visionario «Il libro del cielo e dell'inferno» di Borges e Adolfo Bioy Casares
Quel paradiso dove si combatte
Insopportabile l'idea dell'eterno riposo: l'amore di Dio va conquistato giorno dopo giorno
di RAFFAELE IANNUZZI
Il momento più ardito e sparigliante, prodotto dall'intelligenza gnostica e sapienziale di Jorge Luis Borges, corrisponde all'aperta, limpida e infante ammirazione che lo sciamano argentino dimostrò sempre nei confronti dell'altro cappellaio magico del cattolicesimo, Gilbert Keith Chesterton. Leggere il capitolo dedicato dal genio argentino all'altro fratello genio inglese, convertito al cattolicesimo della ragione e della tradizione,contenuto in "Otras inquisiciones" è come respirare aria di alta quota, sapendo di poter incontrare, nel pellegrinaggio d'altura, sguardi di raro chiarore. Borges e Chesterton: il mondo della terra desnuda e traviata dal bordello intellettuale, non adùso a discipline di scuola, e la foggia del gioioso e paradossale malinconico, apologeta della fede solida degli Antichi Padri. Un'attrattiva paradossale, che attraversa molto del meta-racconto, partorito a metà degli anni Quaranta e realizzato nel novembre 1960 (i tempi borgesiani ci sono tutti...), che reca un titolo portentoso, scarnificante: "Libro del cielo y del infierno". Un Libro, intanto, come Libri erano quelli metafisici e teologici dell'Aquinate e di poeti immensi come Blake; un Libro dedicato a ciò che non sopporta definizione di sorta: il cielo e l'inferno. Co-autore - di più: co-generatore -, l'amico Adolfo Bioy Casares, con un senso unitario di macchina generatrice e di oggettiva potenza, quasi spinoziana (Spinoza, ebreo eretico e metafisico artigiano, pulitore di lenti, un vero e proprio tavolo da lavoro per Borges...): un libro-documento inesatto, impreciso, a-filologico, scabroso e selvaggio. Senza Verità da annunciare, ma incastri da venerare e salvezze mentali da generare. Del resto, gli anni '40 sono una brutta tana per i lupi della mente eretica, e la fine degli anni '50 sono l'altro polo della modernità, schifosa per Borges, nientificante e senza nitore metafisico. Borges cerca - diversamente da un altro grande sudamericano, Gomez Davila - il segno ulteriore nelle pieghe, ma non il tutto nel frammento. Ecco, allora, che il soldato, qui citato, parla come il suo genio pretende: "In cielo, mi piacerebbe partecipare ogni tanto a una guerra, a una battaglia" (Detlev von Liliencron, 1901). E, da altra angolazione, la Teologia Cattolica, con tanto di Dizionario, Tomo V, del 1967, spezza le reni all'incertezza dei mortali, e si merita la citazione, non di maniera. Non è dottrinarismo, né filologia, si tratta del tentativo raffinato e spinoso, urticante per giunta, di tenere nel corpo dell'esperienza umana quanto noi, oggi, non riusciamo neppure a pensare: l'Eternità si assapora scrutando i passi rachitici verso la salvezza dei nostri contemporanei. Tutto oggi sembra cedere; ma, ieri come oggi, è sempre la solita aura imprevista dai più: Apocalisse vuol dire "Ri-velazione". Tutto ciò merita l'ironia di Huxley: "C'è tanta gente malata ed esausta che, generalmente, il Paradiso è concepito come luogo di riposo". Facile e sterile l'analogia, scaraventata sul tavolo del quotidiano: l'inferno è qui, non lo vedi? Sì, lo vedo e, proprio per questo, non voglio renderlo un feticcio. Desidero - e anche Borges sembra serrare così le fila - stanarlo ed accostarlo ad un paradiso senza finzioni, prossimo alla diatriba teologica, se vogliamo, ma genuinamente problema. "Prò-blema" è ciò che ci sta di fronte ed urge come pungolo e pietra di scandalo. "Paradiso, la parola ci giunge dall'Oriente; da pardas, giardino, luogo di delizie, in lingua zend" (Farrel Du Bosc, "Nugae", 1919). Ma se per noi Paradiso è solo luogo, tutto finisce in storia e intelletto, mentre la mistica ci narra la vicenda di un Mistero che, sì, attraversa le carni umane, ma con esse non si stringe in un'alleanza ultimativa. La politica, i semi culturali, le ferite della storia sono, essi sì, luoghi, della vita e della morte; ma non indicano di per sé nè l'inferno, né il paradiso. Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar - "l'uomo più colto del '900", secondo l'altro grande teologo gesuita, Henri de Lubac - sostenne che forse il paradiso l'avremmo trovato vuoto, perché Dio è infinita Misericordia e non può condannare nessuno. Uno scandalo teologico? Certo, ma serve a scuotere le menti pigre, come Borges, in realtà non voleva fare, perché il primo campione della pigrizia generativa era proprio lui. L'inferno non aiuta a pensare, se non c'è una testa aperta alla domanda che non muore, quella sulla verità di noi, qualunque sia il saldo della nostra esistenza. Un libro come questo, che vede due amici e un unico Genius loci in azione, accoglie tutto quel che appetiti insaziabili hanno potuto raccattare e ingoiare, dunque allertiamoci: l'arazzo è rovesciato. Che il lettore paziente legga tutto con occhi vagabondi e non cerchi di rovistare nel Disegno metafisico globale della verità occidentale o altro di simile. Chesterton, ancora: "Il cedimento della modernità non è morale, ma razionale". Ecco, allora, che troviamo temi giganteschi affrontati come segue: "Mio padre era solito dirmi: "Pensa a un essere capace di inventare l'inferno""(John Stuart Mill, 1873). Niente banalità: ecco Hitler, Stalin, & C. La posta in gioco è grave. "Non è così lungo il viaggio, cristiano; il Paradiso è a meno di un passo". E così: "Adesso basta, amico. Se vuoi leggere ancora, diventa tu stesso libro e dottrina"(Angelus Silesius, 1624-1677).
L'articolo si trova qui: http://www.iltempo.it/2011/06/14/1264912-quel_paradiso_dove_combatte.shtml?refresh_ce
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