lunedì 25 maggio 2009

Uomini e tristezza - 8 - Perché il signor Gianfranco Fini non pensi che ciò che dice abbia un fondamento

LAICITA’/ Caro Fini, un parlamento fa le leggi che vuole. Firmato, Palmiro Togliatti

di Vincenzo Tondi della Mura

Da IlSussidiario.net

La dichiarazione del presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, secondo cui «il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso», sorprende e sconcerta per più motivi.
Anzitutto, si tratta di una dichiarazione che tende a delimitare l’autonomia decisionale del Parlamento, ponendo un inedito limite alla relativa attività, e pregiudica e discrimina i diritti dei singoli parlamentari. Questi, a differenza dei giudici, non sono nominati per concorso, né sono vincolati all’imparzialità, o – peggio ancora – alla neutralità culturale. Al contrario, esprimono inviolabili e insopprimibili afferenze ideologiche, politiche, etiche ed eventualmente religiose, che rappresentano i pari orientamenti del corpo elettorale. Del resto, è compito della rappresentanza politica assicurare una dignità parlamentare a dette afferenze, che possono caratterizzare il rapporto fra rappresentati e rappresentanti anche in via esclusiva (si pensi, nei sistemi proporzionali, ai partiti dalla forte impronta ideologica). Ed anzi, proprio tale collegamento garantisce il pluralismo degli interessi sociali e la legittimazione democratica del sistema. Con la conseguenza che alla coniugazione fra gli interessi particolari variamente rappresentati e l’interesse generale del Paese, provvedono i meccanismi di rappresentanza parlamentare di ogni singolo sistema politico-costituzionale.
Di cosa è fatta, dunque, una legge e quali sono i suoi limiti di “orientamento”? Alla domanda potrebbe rispondersi: di un giudizio politico sulla realtà, vincolato alla totalità degli elementi costituenti la realtà medesima; motivo per cui una legge è sempre perfettibile ed è oggetto di periodiche revisioni parziali o totali.
Per un verso, ogni regola è espressione di una valutazione politica del legislatore sulla rilevanza da attribuire a certi interessi anziché ad altri; tale valutazione, di conseguenza, non si può determinare astrattamente ed in vitro, ma solo in relazione a situazioni storiche diverse secondo i tempi ed i luoghi. Per altro verso, detta valutazione non può essere indiscriminata e libera da riferimenti vincolanti. Al contrario, essa è soggetta a stringenti limiti, che non sono solo quelli derivanti dalla Carta costituzionale, giacché anche questa, a sua volta, è vincolata in egual modo a quel complesso organico di principi fondamentali desumibili dai valori portanti di un popolo, di cui costituisce la traduzione giuridica. Nemmeno il potere di originare una Costituzione (cosiddetto potere costituente), dunque, può creare le norme dal nulla e rimanere libero da riferimenti alla realtà. Per convincersene, basterebbe interrogarsi su quali sarebbero state le conseguenze in Italia, ove, per assurdo, il Costituente del ’48 (espressione democratica dei partiti del Cln e della resistenza al regime fascista) avesse riproposto un impianto costituzionale di tipo nuovamente hegeliano e statalista.
In una diversa prospettiva, una volta estraniata la regola dai riferimenti culturali, etici e religiosi del sistema ambientale e del popolo d’appartenenza, essa sarebbe priva di un’adeguata giustificazione; con la conseguenza che, essendo incapace di trovare un riscontro sociale senza l’ausilio coattivo della forza pubblica, si dimostrerebbe tendenzialmente dispotica. Non per nulla le costruzioni teoriche della cosiddetta “ingegneria istituzionale”, reputando la regola alla stregua di qualsiasi meccanismo “esportabile” e “trapiantabile” anche in sistemi diversi da quello d’afferenza, nelle loro implicazioni non possono non rinnegare parte della realtà, anche se a rischio di eventuali discriminazioni e soppressioni. E così Giovanni Sartori può ben sostenere «l’esportabilità della democrazia costituzionale al di fuori del contesto della cultura occidentale», a condizione che la stessa sia liberata dall’«ostacolo delle religioni monoteistiche»; quasi che le specificità (anche religiose) dei singoli popoli rappresentino non già la radice delle relative civiltà, bensì l’impedimento una più generale pacificazione sociale.
Non è così che è nata la nostra democrazia costituzionale. In uno dei più intensi dibattiti in Assemblea costituente (quello, per intenderci, dove Benedetto Croce intonò “le parole dell’inno sublime” del Veni creator Spiritus), al termine del ricchissimo intervento di Giorgio La Pira a sostegno della tutela dei diritti fondamentali, prese la parola Palmiro Togliatti. Questi non contestò il «valore trascendente ed interiore della persona umana», che il costituente cattolico aveva posto a «fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino». Al contrario, sostenne che tale prospettiva non avrebbe potuto fare da «ostacolo» [testuale] alla ricerca «di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione»; ciò in quanto una pari confluenza verso una «piena valutazione della persona umana» era rinvenibile pure nella propria corrente socialista e comunista. Il «compromesso costituzionale» così realizzato, insomma, fu l’esito della confluenza di diversi umanesimi, non già il frutto della neutralizzazione delle relative specificità.
A rileggere quelle pagine non può non risultare ancor più stridente lo strano destino cui vanno incontro oggi gli “ingegneri” delle istituzioni. Nel tentativo di affrancare le regole sociali dalle evidenze della realtà e dai legami ai valori ed agli ideali portanti d’ogni convivenza umana, essi finiscono per censurare le ragioni della politica e dei luoghi istituzionali a questa deputati. Così facendo, tuttavia, privano quelle regole del proprio naturale (e spesse volte addirittura implicito) fondamento, aprendo la ricerca a nuove ragioni fondative, questa volta ad opera di organi neutrali, fuori dal circuito democratico e secondo metodologie prive di controllo. Per tale via, una volta depurato il Parlamento dal ruolo di favorire una necessaria integrazione fra le diverse opzioni culturali, etiche ed anche religiose presenti nel Paese, sono gli organi giurisdizionali a provvedere al tutto. Accade così che questi ultimi, intendendo decontestualizzare e neutralizzare il fondamento dei nuovi diritti invocati, si rivolgano a soluzioni interpretative ed a parametri internazionali generici, privi di un proprio specifico contenuto e suscettibili di opposte applicazioni a seconda degli interessi coinvolti.
Un po’ come nel caso della nota sentenza della Cassazione sulla vicenda Englaro. In tale pronuncia tanto la tutela della vita del relativo titolare, quanto l’autorizzazione all’interruzione dei trattamenti nutritivi necessari a consentirne la prosecuzione hanno trovato un pari fondamento nel principio della “dignità umana”; un principio, tuttavia, ormai scarnificato, privo di una propria configurazione autonoma, oggettiva ed unitaria, il cui significato è stato rintracciato in interpretazioni lontane anche geograficamente: la Corte Suprema del New Jersey, quella degli Stati Uniti, il Bundesgerichtshof tedesco e l’House of Lords britannico.

Verrebbe da ricordare la lezione di Étienne Gilson: “Fondare i valori: ecco l’assillo dell’idealista; per il realista, una passione inutile”.

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