...e allora ci è tornato in mente uno strano pensiero: ma Roberto Benigni (su cui potete dire quel che volete), oltre ad essere un ammiratore di Dante, lo fosse pure di Chesterton?
Che la sensazione non sia solo nostra è testimoniato anche da questo articolo che abbiamo trovato in un sito che si chiama Cronachesorprese.
L'articolo non è recente.
Che cosa ne pensate di Benigni... chestertoniano? Commenti come al solito liberi.
La tigre e la neve
Non pensavo di dover scrivere una cronaca così sorpresa su questo film.
La precomprensione che ne avevo da recensioni e giudizi era: il solito Benigni, un film godibile e di ottima qualità, confezionato con il solito canovaccio del Piccolo diavolo, di Johnny Stecchino, del Mostro, di La vita è bella. Il solito rimpiattino tra il monello e la sua musa, tra Pinocchio e la Fatina. Niente di male, ma il solito.
Ed è così. Il canovaccio non cambia, e nessuno vuole e si aspetta che cambi. Ormai ciò che accade al cinema tra Roberto Benigni e Nicoletta Braschi è una storia ben nota che ogni tanto fa piacere rispolverare, rivedere in azione in nuove situazioni e travestimenti. È un meccanismo teatrale, uno spiel tra caratteri che funziona e, dunque, si replica declinandolo finché la cronaca, la storia e la favola lo consentiranno.
Cosa c’è di più, questa volta? Quali sono le sorprese? Almeno tre, a mio parere.
La prima è che rimettere in pista l’identico macchinario di La vita è bella trasposto a Baghdad è un colpo basso, o da maestro, o tutti e due. Non so bene come siano andate le cose, non ho letto nulla in proposito ma credo che la fantastica scena al posto di blocco sia stata profetica. Almeno, non credo che avrebbe avuto l’animo non tanto di girarla quanto di idearla, dopo il fattaccio Sgrena Calipari.
La seconda è che la poesia non è soltanto un modo di trattare la vicenda ma diventa materia stessa del film, invade in ogni spazio e in ogni modo (personaggi e azione, dramma e ironia, paradosso e quotidiano) l’intera trama.
La terza la dico a rischio di sembrare monotono: credo che Benigni conosca molto bene Chesterton, e in particolare Manalive. Se non lo conosce, merita la massima attenzione, perché se il suo istinto poetico è arrivato autonomamente a conclusioni simili sarò costretto a riconsiderare tutto ciò che ha fatto in questi anni con un occhio diverso. La novità sostanziale del gioco Benigni - Braschi in La tigre e la neve è questa. Non sono solo la guerra e la malattia le difficoltà che devono essere superate. C’è qualcosa che viene prima a dividere i due, e che è ben più profondo dell’essere "coppia in crisi". Senza volerlo Benigni strapazza e incenerisce tutta la produzione muccinesca e muccinoide degli ultimi cinque anni di cinema italiano. Il bisogno dei due di ritrovarsi nel quotidiano non è un gioco per esorcizzare la noia e l’abitudine, per cercare e concedere il perdono per torti fatti o subiti, per dare sale e pepe all’esistenza, come se il problema della vita fosse trovare il giusto condimento a qualcosa che si dà già per scontato debba essere sciapo e deludente. Lo stesso simbolo che è nel titolo è evidentemente troppo oltre, indica senza esitazioni un orizzonte metafisico, non se ne vergogna. Il corpo della tigre, il suo sguardo fiero e spaventato, è l’Iraq, è la domanda disperata del poeta e amico Fuad che sembra l’unico a non chiedere nulla per sé e invece è quello che si trova veramente in pericolo. Ma l’anima della tigre è oltre. Dove va, nel cuore di Roma, in mezzo a una neve che non è neve, fuori dal circo che l’ha tenuta prigioniera? Cosa cerca? La stessa cosa che cerca Benigni a Baghdad, sperando contro ogni speranza. E che non è (soltanto) la salvezza dalla morte. L’azione del film, e dei due protagonisti, è un movimento verso il senso, che coincide con la salvezza di un rapporto. Quel movimento che il buon Fuad non può, o non riesce a fare.
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