mercoledì 28 febbraio 2007

Ecco i nostri amici cattolici adulti.

Leggiamo su Il Giornale di oggi 28 Febbraio 2007 un interessante articolo degli amici Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. Ve lo passiamo paro paro.

Visto dall’esterno, il mondo cattolico può anche dare l’impressione di un blocco monolitico di soldati saldi nella fede e stretti attorno al Papa. Visto dall’esterno, appunto. Perché questa idea è frutto di un’illusione ottica, e la bagarre sui Dico attualmente in corso ne è la conferma. In questi giorni è un turbinare di intellettuali e politici cattolici che si affannano per insegnare a Benedetto XVI come si fa il Papa, al cardinale Ruini come si fa il presidente della Cei, all’episcopato in generale come si fa il vescovo. Ci si sono messi in tanti, dalla scuola dossettiana di rito bolognese ai preti disobbedienti passando per tutte le sfumature del cattolicesimo cosiddetto adulto, di cui il presidente del Consiglio Romano Prodi è uno dei campioni. Quali le cause? L’esistenza di una radicale frattura di carattere dottrinale circa il senso della democrazia e il suo rapporto con la verità.
Ma per capire le ragioni di ciò che sta avvenendo conviene partire dagli argomenti di due politici, peraltro eminentissimi, quali Rosy Bindi e Oscar Luigi Scalfaro. «Io amo pensare alla Chiesa che si occupa delle cose di Dio», ha bacchettato la signora ministro per la Famiglia. Dal suo canto, il presidente emerito della Repubblica ha messo in guardia i vescovi da eventuali pronunciamenti che vincolino i politici cattolici su materie eticamente sensibili come quella toccata dai Dico. «Io confido che non ci saranno» ha detto Scalfaro. «Se dovessero invece avvenire, distruggerebbero la possibilità stessa di una presenza dei cattolici in Parlamento in condizioni di dignità e libertà, quella libertà che consente l’assunzione individuale della libertà». In soldoni: il prete dica quello che vuole in chiesa, il laico agisca come meglio crede nel mondo. Roba da «libera Chiesa in libero Stato» di memoria anticlericale che fiorisce sulle labbra di persone che, almeno in quanto politici, continuano ad accreditarsi presso l’opinione pubblica come pii figli della Chiesa.
Questi «cattolici del dissenso» hanno matrici fra loro diverse: studiosi come Alberigo e Melloni sono un «prodotto» del laboratorio di Giuseppe Dossetti, appartengono a quella covata di intellettuali che considerano il popolo con lo stesso criterio giacobino-leninista di ogni minoranza rivoluzionaria: materia inerte da plasmare per il suo stesso bene.
La Bindi e Scalfaro, invece, vengono da un’esperienza popolare e sono rappresentativi di una vasta fetta del mondo cattolico. Vengono dall’Azione Cattolica, di cui lei è stata vicepresidente nazionale dal 1984 al 1989, e di cui lui esibiva fieramente il distintivo all'occhiello anche quando alloggiava al Quirinale. Per chi non lo ricordasse, l’Azione Cattolica - della cui appartenenza tanti militanti storici vanno giustamente fieri - per molto tempo ha voluto dire Luigi Gedda, i Comitati Civici, l’impegno in politica seguendo gli insegnamenti della Chiesa e della sua dottrina sociale, il sostegno di Papi come Pio XI e Pio XII.
Ma l’Azione Cattolica di cui sono l’esempio la Bindi e Scalfaro, quella rimasta nelle parrocchie dopo la débâcle degli anni Settanta, è tutt’altro. È figlia di un concetto, di un’operazione intellettuale: e già solo questo fatto dovrebbe mettere in allarme perché riconduce al metodo rivoluzionario dossettiano. La svolta fu la cosiddetta «scelta religiosa», che è la negazione della natura e della storia di un’associazione che ha formato intere generazioni di cattolici.
La «scelta religiosa», vista da un laico, sembrerà magari la quintessenza dell’esperienza cattolica. In realtà, nei disegni di chi la concepì era la decisione di rinunciare al desiderio di costruire una società che fosse il più possibile conforme al diritto naturale e rivelato, una società permeata dagli insegnamenti di Cristo. In altre parole, si decise che altro era la fede da praticare in forma privata o anche in associazioni, comunque private; e altro era l’impegno nella vita pubblica, dove essere cattolici contava tanto quanto non esserlo. Qualche cosa che va in direzione opposta rispetto al «Padre nostro», che recita: «venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà così in Cielo come in terra».
Sul semplice piano contabile, il risultato della «scelta» fu il crollo delle iscrizioni all’Azione Cattolica, che passarono da tre milioni a seicentomila. Ma, sul piano umano, data la rete capillare di cui l’associazione disponeva nelle parrocchie, il risultato fu una formazione sempre più intimistica e intellettuale che condusse i cattolici a pensare di poter fare ognuno per sé o per la propria parte politica: in sostanza, a non essere più Chiesa. All’inizio, solo sul piano dell’azione; poi anche su quello della teologia e della dottrina.
Così capita che la Chiesa si rivolga a un governo sordo ai suoi richiami, nonostante il presidente del Consiglio e molti ministri siano dei credenti «certificati», prodotti dal mondo cattolico ufficiale degli ultimi quarant’anni. Siamo di fronte a una vicenda completamente diversa dalle fratture degli anni Settanta, quando cristiani affascinati dal marxismo migravano nel Pci come indipendenti. Rosy Bindi e Romano Prodi sono punte di diamante di un progetto formativo e culturale che credeva di portare al timone della nazione uomini affidabili dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, giovandosi del favore di una fetta non marginale dello stesso episcopato italiano. Oggi dobbiamo constatare il totale fallimento di quell’idea: giunti al nodo gordiano di un tema «non negoziabile», come direbbe Ratzinger, i cattolici democratici fanno la loro scelta: sacrificano la dottrina sull'altare del consenso e del potere. Il punto è che questo modo di agire non è il frutto di una debolezza umana, o di uno stato confusionale, ma di una tragica coerenza fra una cattiva formazione dottrinale e l’agire politico. Quando Rosy Bindi dice: «Ogni tanto perdo le staffe e reagisco male se ascolto sciocchezze, ma credo almeno di avere una virtù: la coerenza delle mie idee» a suo modo dice la verità. La signora Bindi ritiene - come ha spiegato Pietro Scoppola ospite l’altra sera a Otto e Mezzo - che il compito della politica non sia affermare una verità e un bene sull’uomo, ma raggiungere un punto di sintesi. Non si potrebbe immaginare nulla di più lontano dalla millenaria dottrina della Chiesa. Ma il tragico è che questa visione è perfino più debole e relativista della concezione di molti laici, i quali hanno ormai capito che ridurre la democrazia a pura gestione formale delle opinioni, senza ancoraggio ad alcuna verità, è un suicidio della civiltà occidentale. Il risultato paradossale è un nuovo asse della politica dei prossimi anni, che non vedrà più contrapporsi atei e credenti. D’ora in poi il fronte separerà da un lato relativisti e seguaci della «democrazia formale» di Hans Kelsen; dall’altro, tutti coloro che sono onesti cercatori della verità. Per questo motivo è del tutto normale oggi vedere Rosy Bindi e Oscar Luigi Scalfaro giocare con la stessa maglia dei post comunisti e dei radicali.

martedì 27 febbraio 2007

Il Rugby, uno sport grandioso.


So che potrebbe sembrare un tributo occasionato dalla bella vittoria dell'Italia contro la Scozia sabato 24 Febbraio a Murrayfield, nel fantastico Torneo delle Sei Nazioni, ma è da tempo che l'Uomo Vivo voleva rendere omaggio a questo bellissimo sport che ha qualcosa di divino e quell'impronta di ordinata libertà, quel senso di lealtà, quel gusto della lotta che lo avvicinano tantissimo alle virtù degli antichi cavalieri.

Anche Chesterton dedicò belle pagine al rugby, se non ricordo male nell'Ortodossia.

L'Italia ha sconfitto onorevolmente e combattendo la Scozia, ma comunque vada quando ci si alza dopo aver visto una bella partita di rugby si ha la netta sensazione di essersi divertiti sostanzialmente senza mai perdere. E' bellissimo. L'unico dispiacere è quando la partita finisce, ce ne vorrebbe subito un'altra. Posso paragonare questa bellezza a quella della lettura delle opere di Gilbert, o di Giovannino Guareschi, o alla vista di un bel film o all'ascolto di buona musica, o al buon mangiare e buon bere, o a una giornata in montagna, o al risentire vecchie storie eroiche...

Alla bellezza, insomma, che è sempre un riflesso della Bellezza.

Allora, cliccando il titolo andate su www.youtube.com e assistete alle mete e ai calci di punizione di questa storica partita di rugby.

Ci riscattiamo da quel'italianità un po' meschina del calcio (che sarebbe uno sport molto bello ma...) delle veline, dei morti a gratis, delle pubalgie (=nullalgie, bisbocce notturne, smaltimenti di sostanze in eccesso...) nonostante ingaggi faraonici (per la cronaca, durante Inghilterra - Italia qualche settimana fa, il nostro Scanavacca ha preso una botta, è uscito per dieci minuti ed è rientrato con con quattro punti di sutura ed è ripartito... Wilkinson, il mediano d'apertura dell'Inghilterra, ne ha messi quattordici durante la partita con la Scozia ed è ripartito fresco come un petalo di rosa...).

Bella roba. La foto la dedichiamo alla mèta di Alessandro Troncon, sempre durante Scozia - Italia. Merita.

venerdì 23 febbraio 2007

"Dove finisce la legge e inizia la carità"


Il Giornale, quotidiano milanese, ospita ogni giovedì la rubrica bellissima "Punti di fuga", curata dal grandissimo Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. Questo articolo -se volete- è la continuazione, propria della nostra cultura cattolica, del post precedente, sulle culle antiaborto giapponesi. Il neretto è nostro. L'articolo lo trovate pure sul sito de Il Giornale (www.ilgiornale.it) e sul sito della Compagnia delle Opere (www.cdo.it). Quest'ultimo lo potete visitare cliccando il titolo qui sopra.


Pochi giorni fa in un dibattito televisivo l’onorevole Alemanno ha affermato che in un società civile non occorre normare tutto, che non tutti i comportamenti “virtuosi” devono essere stabiliti per legge. Ciò significa che deve predominare l’anarchia e il disordine dell’imprevisto?

Per rispondere a questa domanda possono aiutare due fatti, entrambi accaduti nell’ambito dell’assistenza ai malati di Aids.

Un po’ di tempo fa un pubblico ufficiale si presenta a una casa di accoglienza per malati di Aids dell’hinterland milanese esibendo un mandato di cattura: deve arrestare un malato. Infermieri e inservienti gli dicono che non è possibile: la situazione del malato è molto grave, giace su un letto e non può più muoversi. Constatato lo stato grave del malato, contatta per telefono il magistrato per sapere il da farsi. La legge non può fermare il suo corso: l’ordine di cattura viene confermato. Il malato arrestato viene condotto verso il carcere in un’ambulanza scortata dalla forza pubblica. Dopo un giorno però fa ritorno con la stessa ambulanza da cui probabilmente non è mai sceso. Si viene a sapere che nessuno si è sentito di prendersi la responsabilità di questo malato-arrestato, anche a causa della paura di un possibile contagio. Così, dopo uno strano e un po’ grottesco girovagare, il magistrato tramuta l’ordinanza in arresto domiciliare da scontare nella stessa casa di accoglienza e nello stesso letto dove era stato fino al giorno prima.

Il secondo episodio: un’addetta all’assistenza domiciliare trasporta in ospedale per una medicazione un malato di Aids in condizioni molto gravi, con una gamba amputata. Il medico quasi non vuole medicarlo rendendosi conto che non gli rimane molto da vivere. La ragazza rimane colpita e torna il giorno dopo, cosa inusuale, fuori dall’orario di lavoro, con un suo collega per andare a trovare il malato. Del malato si potrebbe dire con Jannacci “che ’l pareva nisun”. Non vuole mangiare, non lo lavano, giace abbandonato, quasi inerte in un angolo, non ha probabilmente nessuno al mondo. I due lo lavano, gli fanno la barba, vincono la sua riluttanza e gli danno da mangiare. In piccolo, avviene qualcosa che tante volte è accaduto alle suore di Madre Teresa: il malato con un fil di voce apre gli occhi e dice alla ragazza: “Grazie, ti voglio bene”. Pochi giorni dopo muore.

Si può trarre un insegnamento generale: se al di sotto e prima della legge ci sono le esigenze di giustizia, di bellezza, di verità inscritte nel cuore dell’uomo e i comportamenti che ne derivano, il nascere di un’amicizia libera e disinteressata tra chi compie un lavoro assistenziale e chi è assistito può cambiare il significato di un’esistenza; un insegnante che educa appassionato al destino dei suoi studenti, li apre alla vita e alla conoscenza con risultati inimmaginabili; una famiglia dove si viva un amore gratuito ospita la vita nascente e quella rifiutata da altri.

Perciò una norma è giusta solo quando cerca di interpretare i fatti virtuosi che accadono nella realtà, quando rispetta le esigenze umane elementari senza pensare di esaurirle: per una convivenza veramente civile, per la risposta ai bisogni più veri dell’uomo. Come dice Benedetto XVI: anche nella società più giusta la carità sarà sempre necessaria…

Una volta si chiamavano esposti.



Da AsiaNews prendiamo questa interessante notizia.

I giapponesi sono dei favolosi imitatori di tutto ciò che vedono. Qualcuno nel paese del Sol Levante ha pensato di copiare quello che una volta facevano i conventi cattolici, cioè accogliere i bambini purtroppo indesiderati.

Anche il Giappone apre alle “culle pubbliche contro gli aborti”. Dopo l’India, che ha lanciato la settimana scorsa lo “schema delle culle” contro gli aborti ed i feticidi femminili, il ministero nipponico della Salute ha approvato la decisione di un ospedale di Kumamoto di posizionare una “scatola per bimbi” aperta al pubblico.

La “scatola”, spiegano i dirigenti ospedalieri, è stata creata in modo da garantire l’assoluta privacy di quei genitori che vogliono abbandonare i propri neonati. In pratica, si tratta di un’incubatrice perennemente in funzione, controllata da un’infermiera dall’interno dell’ospedale, la cui apertura guarda sulla strada ed è protetta da un muro.

Secondo i rappresentanti dei ministeri della Salute, del Lavoro e del Welfare il programma “non solo non viola alcuna legge, ma va appoggiato perché protegge la salute anche dei figli non desiderati”. Ovviamente, aggiungono, dal punto di vista legale saranno gli ospedali a rispondere della sicurezza dei neonati: tuttavia, “il governo farà il possibile per aiutarli tramite campagne di adozioni e riduzioni fiscali”.

domenica 18 febbraio 2007

Umberto Eco e Chesterton, un caso strano...


Nella ricorrente ricerca dell'attualità di Chesterton, ieri abbiamo fatto il solito esperimento: Google, inseriamo Chesterton, clicchiamo (ahi!) su "news" e guarda che ti esce?
Il sito del quotidiano La Stampa, anzi la pagina del suo inserto culturale Tuttolibri, riporta la presentazione di un libro di Renato Giovannoli dal titolo "Elementare, Wittgenstein!", edito da Medusa (pagg. 368, € 29,00). Il titolo dell'articolo è "Il detective indaga come Aristotele".
Questa presentazione cita anche il nostro Chesterton.
Indovinate chi l'ha scritta?
Umberto Eco.
Bisogna dire che Chesterton era citato a proposito, e neppure velatamente criticato.
Permetteteci di dire che non succede tutte le mattine.
Se vogliamo discuterne, secondo noi è interessante. Parla del giallo, e Chesterton viene citato perché secondo lui poliziesco e Mistero stanno molto vicini...

Aspettiamo contributi.

L'articolo lo trovate cliccando il nostro titolo.

Benedetto XVI e la non violenza cristiana


"Giustamente questa pagina evangelica viene considerata la magna charta della nonviolenza cristiana, che non consiste nell’arrendersi al male – secondo una falsa interpretazione del "porgere l’altra guancia" (cfr Lc 6,29) – ma nel rispondere al male con il bene (cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena dell’ingiustizia. Si comprende allora che la nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della "rivoluzione cristiana", una rivoluzione non basata su strategie di potere economico, politico o mediatico. La rivoluzione dell’amore, un amore che non poggia in definitiva sulle risorse umane, ma è dono di Dio che si ottiene confidando unicamente e senza riserve sulla sua bontà misericordiosa. Ecco la novità del Vangelo, che cambia il mondo senza far rumore. Ecco l’eroismo dei "piccoli", che credono nell’amore di Dio e lo diffondono anche a costo della vita".

(Benedetto XVI, Angelus di domenica 18 Febbraio 2007 - il testo integrale sul sito del Vaticano, cliccando il nostro titolo)

Il Biffi - pensiero: "Gilbert Keith Chesterton è stato un dono fatto alla cattolicità (e all'umanità intera) direttamente da Dio".


"Non era facile esercitare l'arte pastorale a Milano in quegli anni, quando la contestazione ecclesiale ecclesiale aveva ancora l'impeto e la spregiudicatezza dei suoi inizi... Eppure il mio cuore restava in festa. Il segreto era che, per una grazia singolare, tendevo l'orecchio e percepivo l'allegria cosmica degli abitanti del cielo. (...) I cherubini e i serafini partecipano alle nostre sofferenze e alle nostre pene, ma non per questo si immalinconiscono" giacché "essi attingono direttamente dalla felicità eterna di Dio".

"Un cardinale che non gioca a bocce o non si affaccia mai a contemplare la luna, non scrive filastrocche per i bambini della scuola materna o non alleva canarini, ma compie solo quello che in ogni caso gli verrà attribuitio dalle biografie ufficiali, è più pericoloso per la cristianità di un eresiarca".

"Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti e ci angosciamo per lo scricchiolio che sentiamo sotto di noi".

"Il vero problema è dato dal mondo degli adulti che da trent'anni ha rinunciato ad educare, anzi ha teorizzato la non educazione e poi si meraviglia dei selvaggi che si ritrova in casa".

"Mangiare i tortellini con la prospettiva della vita eterna li rende migliori, più che mangiarli con la prospettiva di finire nel nulla".

"Noi non rimproveriamo alla società tragressiva di mirare al godimento e al benessere; le rimproveriamo piuttosto di non riuscirci".

"(...) Chesterton -col suo discorso libero, sensato, non conformista- si è dato da fare a mantenere nel mio animo intraprendente e curioso un minimo di sanità mentale: di una prerogativa cioè che mi appare (oggi più che mai) tanto necessaria quanto scarsamente diffusa".

"Gilbert Keith Chesterton è stato un dono fatto alla cattolicità (e all'umanità intera) direttamente da Dio".

Card. Giacomo Biffi

Il Cardinale Giacomo Biffi, Principe chestertoniano e guareschiano di Santa Romana Chiesa.



Leggo un interessantissimo contributo offerto ieri dal quotidiano Il Foglio, esattamente nell'inserto, a firma di Maurizio Crippa.
E' dedicato al Card. Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, che tanto ammiriamo, e non solamente per aver dedicato pagine memorabili a Chesterton, Guareschi e Tolkien, autori che ciascuno di noi dovrebbe avere presenti in un ideale DNA per la conservazione del buon funzionamento del cervello e del cuore.

Un saggio interessante, questo articolo, che potrete trovare nell'archivio de Il Foglio (al quale ci si deve registrare per accedere).

Vi consigliamo pure di leggere il volume "Pinocchio Peppone L'Anticristi e altre divagazioni", edito da Cantagalli. Vi troverete, oltre a Guareschi, Collodi, Solov'ev, Tolkien, Bacchelli, alcuni saggi critici sulla Rivoluzione Francese e sulle Insorgenze, sul Risorgimento italiano, anche il nostro carissimo

GILBERT KEITH CHESTERTON

ovvero

IL CONTRAVVELENO.

Bello, no? Contravveleno! Proprio bello! Mi chiamassero "contravveleno", magari! Ti immagini? "Piacere, Rossi!" ed io: "Piacere, Contravveleno!". Dai...
Evviva il Cardinale Biffi, evviva la Chiesa!

sabato 17 febbraio 2007

Giusto per capirci...


Ecco ancora il nostro caro Papa, difensore della nostra umanità, tornare sull'argomento del momento.
Più chiaro di così si muore...


"Un’attenzione prioritaria merita proprio la famiglia, che mostra segni di cedimento sotto le pressioni di lobbies capaci di incidere negativamente sui processi legislativi. Divorzi e unioni libere sono in aumento, mentre l’adulterio è guardato con ingiustificabile tolleranza. Occorre ribadire che il matrimonio e la famiglia hanno il loro fondamento nel nucleo più intimo della verità sull’uomo e sul suo destino; solo sulla roccia dell’amore coniugale, fedele e stabile, tra un uomo e una donna si può edificare una comunità degna dell’essere umano".

(Benedetto XVI, Udienza ai rappresentanti pontifici in America Latina, 17 Febbraio 2007).

Il testo integrale lo trovate "cliccando" (ahi!) il titolo qui sopra...

giovedì 15 febbraio 2007

Editori coraggiosi


Nel mondo, mentre in Italia pubblichiamo e vendiamo (quasi) solo metri e metri sopra al cielo, romanzi rosa shocking, roba assurda di tutti i tipi (lo so che a qualcuno non piacerà sentirlo dire), si continua a pubblicare Chesterton!
Ecco il link ad Amazon. Questo addirittura è un libro che raccoglie le primissime fatiche del giovanissimo Chesterton.

Come al solito si "clicca" (ahimé, abbiamo una lingua così bella, e diciamo "cliccare"...) sul titolo di questo post (arieccoci) e vai alla pagina di Amazon americana.

Cercasi editore coraggioso disposto a pubblicare roba seria (cioè Chesterton). Noi siamo disponibili a promuoverla gratis, anche andando in giro a piedi, con il rastrello e il pigiama dell'Uomo Vivo indosso.

Chi si vuole unire a questo pellegrinaggio poco ideale e molto grasso? La Società Chestertoniana raccoglie adesioni.

martedì 13 febbraio 2007

Segnalazioni sull'affare DICO - 2

Dico, il Papa: "Società a rischio"
Ruini annuncia un "editto".

Un altro articolo di Andrea Tornielli sul Il Giornale di oggi.
Spiega cosa vuole fare la Conferenza Episcopale Italiana. Una presa di posizione vincolante per i cattolici.

Ottimo lavoro. Chiarezza. Parla la Chiesa.

Cliccate il titolo ed eccovi l'articolo.

Segnalazioni sull'affare DICO - 1

La questione DICO sta montando e allora noi cattolici dobbiamo essere informati e farci sentire senza paura o timidezze.
La prima segnalazione è un articolo di Andrea Tornielli su Il Giornale del 10 Febbraio 2007.

Vogliono imbavagliare il Papa.

Per leggere cliccare il titolo e si viene riportati all'articolo sul sito de Il Giornale.

lunedì 12 febbraio 2007

Non possumus - La puntata del 9 Febbraio 2007 di Otto e Mezzo


"Non possumus" è il monito del quotidiano dei vescovi per le unioni di fatto. Ma dietro lo scontro sui pacs cosa sta cambiando nel rapporto della Chiesa con la politica? E con lo Stato italiano?

Sono intervenuti alla trasmissione Otto e Mezzo del 9 Febbraio 2007 Ezio Mauro, direttore del quotidiano La Repubblica, Piero Ostellino, fondista ed ex direttore de Il Corriere della Sera, e soprattutto il nostro spumeggiante amico Mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino - Pennabilli. Vale la pena di vederla sul sito della televisione La7.

Cliccate (orrore, scusate!) il titolo e verrete rinviati alla pagina.

Se trovaste difficoltà (la vita ne è zeppa, ma diecimila difficoltà non fanno un dubbio), andate sul sito de La7 (www.la7.it) e cercate sulle pagine di Otto e Mezzo la puntata del 9 Febbraio.

Dico: Ruini, presto nota impegnativa per cattolici.

Il presidente della Cei, Camillo Ruini, annuncia a proposito dei Dico "una parola meditata, una parola ufficiale, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti". Il cardinale non ha precisato i tempi di questa nota dei vescovi italiani. Lo ha detto a margine del convegno nazionale dell'Opera romana pellegrinaggi.

12 febbraio 2007 11.03

venerdì 9 febbraio 2007

Chesterton: l’innocenza e il paradosso

Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore, il caro amico Paolo Gulisano, il bel saggio pubblicato sul numero 255 del Dicembre 2006 del periodico della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor "KOS", in occasione del 70° anniversario della morte dello scrittore.


Lo scrittore inglese, famoso in Italia soprattutto per i racconti di Padre Brown, produsse in realtà una quantità copiosissima di scritti. Affascinato fin da adolescente dal soprannaturale e dal miracoloso, crebbe con una incrollabile fiducia nell’innocenza e nella sanità mentale, senza cadere vittima di ingenuità o facile ottimismo. Per questo le fiabe per bambini gli apparvero sempre ricche di ragione e tradizione, e alimentarono in lui un personalissimo gusto del paradosso. Tutti elementi, questi, che ritrovò nella fede cristiana più autentica

Nell’estate di settant’anni fa si spegneva, nel tranquillo villaggio inglese di Beaconsfield, Gilbert Keith Chesterton, ovvero uno tra i più significativi autori della cultura inglese ed europea del Novecento. Saggista, apologeta cristiano, giornalista, narratore appassionante che incantò generazioni di lettori; fu persino tra i fondatori di un movimento economico-politico, il Distributismo, che cercò nell’Inghilterra degli anni Trenta una via alternativa che vedesse la realizzazione della Dottrina Sociale Cristiana attraverso un processo di ridistribuzione più equa dei beni di produzione e delle ricchezze.
Intellettuale libero e anticonformista, dalla produzione ricchissima, il nome di Chesterton è tuttavia collegato, per lo meno in Italia, quasi esclusivamente al personaggio di Padre Brown. Quando negli anni 1970-1971 la televisione di Stato produsse una serie di sceneggiati aventi per protagonista questo prete detective, interpretato dal grande attore Renato Rascel, l’audience media fu di diciotto milioni di spettatori a puntata. Nelle storie di Padre Brown, nei racconti, nei romanzi, nei saggi storici e in quelli politici, in tutto ciò, in tutta la vita e le opere di questo scrittore trapela una visione nuova e originalissima (e per molti aspetti tutta ancora da riscoprire e valorizzare) dell’apologetica. Per Chesterton infatti il cristianesimo si fa cultura e non diventa subalterno al mondo, ma lo giudica, e se Dio vuole lo cambia e lo migliora. Il tutto, e questo è l’aspetto più affascinante, senza asprezze, senza conflittualità, senza anatemi. È l’apologia dell’amore, che non cerca lo scontro ma l’incontro, è la difesa della Verità nella Carità. Chesterton mostrò come si testimonia la fede in una società a essa largamente indifferente, non solo non più cattolica, ma nemmeno più cristiana. È un’apologia che si avvale del sorriso dell’innocenza e dei paradossi che smascherano le menzogne, grandi e piccole. La lettura di Chesterton, sia che si tratti dei romanzi che dei saggi, lascia sempre nel lettore una grande serenità e un sentimento di speranza che scaturisce non certo da una visione della vita irenistica e mondanamente ottimistica (che è in realtà quanto di più lontano dal pensiero di Chesterton, che denuncia dettagliatamente tutte le aberrazioni della modernità) ma dalla cristiana, virile fortezza dell’esperienza religiosa. La proposta di Chesterton è quella di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell’uomo e di adoperare fiduciosamente l’intelletto - ovvero il buon senso - nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica. Raramente capita di leggere delle pagine in cui si parla di fede, di conversione, di dottrina, tanto chiare ed incisive quanto prive di ogni eccesso sentimentalistico e moralistico. Ciò deriva dall’attenta lettura della realtà di Chesterton, il quale sa che la conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione, sintetizzabile in questo suo giudizio: “Il mondo moderno ha subìto un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale”. Di fronte a questo scenario Chesterton sceglie il cattolicesimo, e afferma che esistono almeno diecimila ragioni per giustificare questa scelta, tutte valide e fondatissime ma riconducibili a un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero, la responsabilità e il compito della Chiesa consistono dunque in questo: nel coraggio di credere, in primo luogo, e quindi di segnalare le strade che conducono al nulla o alla distruzione, a un muro cieco o a un pregiudizio. “La Chiesa - dice Chesterton -difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori”. Anche il grande Josè Luis Borges ne era un grande estimatore. È particolarmente significativo riportare il giudizio del grande scrittore argentino, che è quello di un non credente scettico che trascorse l’intera vita a indagare il Mistero: “L’adolescenza di Chesterton corrisponde agli anni disperati e crepuscolari del simbolismo e del decadentismo. Da tale negazione lo salvarono la grande voce americana di Whitman e quella di Stevenson, che moriva su un’isola del pacifico e ‘cantava come canta un uccello nella pioggia’. Affermare che una persona bonaria e affabile come G.K.C. fu anche un uomo segreto, che sentiva l’orrore delle cose, può sorprenderci, ma la sua opera, contro la sua volontà, lo testimonia…”. Così paragona le piante di un giardino ad animali incatenati, il marmo a una luce lunare solidificata, l’oro a un rogo congelato e la notte a una nube più vasta del mondo e a un mostro fatto di occhi. Avrebbe potuto essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità o finse di averla trovata. Dalla fede anglicana passò a quella cattolica, che, secondo lui, è basata sul buon senso. Arguì che la stranezza di tale fede si attaglia alla stranezza dell’universo, come la strana forma di una chiave si adatta perfettamente alla strana forma della serratura. In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo a un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta. È assai significativo che le sue due splendide epopee, The Ballad of the White Horse (1911) e Lepanto (1912), commemorino vittorie di cristiani su pagani. La prima celebra una battaglia tra Alfredo il Grande e i vikinghi; nella seconda compaiono successivamente il Sultano di Costantinopoli, Maometto nel suo terribile paradiso, Filippo II, il Papa nella sua cappella segreta, Miguel de Cervantes che rinfodera la spada sognando già Don Chisciotte, e l’ombra costante di don Giovanni d’Austria, tutto inteso alla gloria. Senza pregiudizio per il grande amore che portava all’Inghilterra e alla Francia, Chesterton vide sempre in Roma il centro del mondo. Leggiamo in una sua lettera: “È insensato andare a Roma se non si possiede la convinzione di tornare a Roma”. L’opera critica di Chesterton - i libri su Dickens, Browing, Stevenson, Blake e il pittore Watts - non è meno incantevole che penetrante; i suoi romanzi, scritti all’inizio del secolo, uniscono il mistico al fantastico, ma la sua fama attuale si deve soprattutto a quelle che si potrebbero chiamare le Gesta di Padre Brown. Bisogna prevedere un’epoca in cui il genere giallo, invenzione di Poe, sia scomparso, poiché è il più artificiale di tutti i generi letterari e il più simile a un gioco. Chesterton stesso ha lasciato scritto che il romanzo è un gioco di facce e il romanzo giallo un gioco di maschere… Malgrado questa osservazione e la possibile eclissi del genere, sono certo che i racconti di G.K.C. saranno sempre letti, poiché il mistero che suggerisce un fatto impossibile e soprannaturale è interessante quanto la soluzione di ordine logico che ci danno le ultime righe”. L’opera di Chesterton è una sorta di medicina per l’anima, anzi, più precisamente può essere definita un antidoto. Lo stesso scrittore aveva in realtà usato la metafora dell’antidoto per indicare l’effetto sul mondo della santità: il santo ha lo scopo di essere segno di contraddizione e di restituire sanità mentale a un mondo impazzito. “Ancora ogni generazione cerca per istinto il suo santo - aveva detto -, ed egli è non ciò che la gente vuole, ma piuttosto colui del quale la gente ha bisogno… Da ciò il paradosso della storia che ciascuna generazione è convertita dal santo che la contraddice maggiormente”. Il modo con cui Chesterton ha contraddetto la generazione del suo tempo è stato quello dell’essere felice. Una felicità autentica, che per essere tale non prescinde affatto dal dolore, dalla fatica e dalle lacrime. Il tempo di Chesterton è quello che va dall’ultimo quarto dell’Ottocento (nacque a Londra nel 1874) alla prima, tragica parte del Novecento (si spense, come detto, nel 1936), da quando Londra era il cuore e la mente della civiltà occidentale e dell’ordine da lei stabilito sotto il regno della Regina Vittoria, fino agli orrori della Grande Guerra e all’affermarsi delle peggiori ideologie novecentesche. Nella potente, pragmatica e razionalista Inghilterra vittoriana, Gilbert crebbe con un gusto profondo per il miracoloso, per il soprannaturale. Nella sua celebre opera apologetica Ortodossia ebbe a scrivere: “La mia prima ed ultima filosofia, quella alla quale ho creduto con ininterrotta certezza, l’ho imparata da bambino. L’ho imparata generalmente da una nutrice: solenne e predestinata sacerdotessa della democrazia e della tradizione. Le cose in cui in cui credevo e credo più fermamente, allora come adesso, sono le cosiddette fiabe. Le fiabe a me sembrano del tutto ragionevoli. Non sono fantasie: al loro confronto, ogni altra cosa è fantastica. Se paragonati a loro, la religione e il razionalismo sono anormali, per quanto la religione sia anormalmente giusta e il razionalismo anormalmente errato. La Terra delle Fate non è altro che l’assolato Paese del Buon Senso”. La conclusione cui Chesterton arriva è quindi che “non è la terra che giudica il cielo, ma il cielo che giudica la terra”. Si può dire che Chesterton fosse un ingenuo, un bambino che non voleva crescere, affetto da quella che si potrebbe definire la “Sindrome di Peter Pan”? Niente affatto: l’innocenza, che fu tra tutte le virtù chestertoniane la più limpidamente evidente e la più affascinante per amici, conoscenti e per i tantissimi lettori, non è da confondersi con l’ingenuità o con l’infantilismo ignaro del mondo e dei suoi variegati aspetti. Cosa fosse la realtà che lo circondava Chesterton lo sapeva benissimo, fin da quei primi anni pieni di fiabe e di teatri delle marionette, come rivela ancora nella Autobiografia: “La mia vita si è srotolata nell’epoca dell’’evoluzione’, parola che, in realtà, significa semplicemente ‘farsi palese’. Molti evoluzionisti dell’epoca, in apparenza, credevano veramente che l’evoluzione fosse il palesarsi di un divenire. Da allora, in un’accezione molto particolare, sono: giunto a credere nello ‘sviluppo’. Ciò per me significa che si rende manifesto quanto in nuce esiste già. Ora può sembrare una pretesa tanto ardita quanto dubbia se affermo che nella mia infanzia, c’ero già tutto. Perlomeno, molti di quelli che mi conoscevano da vicino possono dubitarne fortemente. Ma io voglio dire che la mia capacità di giudizio esisteva già allora; io non ne ero cosciente, ma la possedevo già. In breve, esisteva nell’infanzia nella condizione detta implicita”. Uscito dall’infanzia, Gilbert si trovò a vivere in un mondo duro, pieno di male, spietatamente competitivo, che non era fatto per lui. All’università fallì, si sentiva un ousider, e piombò nel tunnel della depressione e del solipsismo.Ne uscì, tuttavia, con fatica e con gioia, perché riuscì, nonostante tutto, a scorgere la possibilità di preservare l’innocenza dell’infanzia. La prova del dolore gli aveva lasciato due certezze, una del Vecchio e l’altra del Nuovo Testamento. La prima riposa in quella frase ripetuta nella Genesi ad ogni creazione di quanto vi è nel mondo: “Dio vide che era cosa buona”. La creazione, il mondo, sono opera di Dio, e opera buona. Il male, la corruzione, sono successive, ma tutto quanto è stato fatto da Dio è stato fatto come cosa bella, buona e giusta. Questo smentiva ogni pretesa manicheistica e liberava dall’ossessione del male. Il destino dell’uomo moderno non era necessariamente quello indicato nel più inquietante dei romanzi di Stevenson,un autore tanto amato da Gilbert, Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde, ossia andare incontro a una scissione, a una destrutturazione. Tutto stava nel saper riprendere la strada che portava al Bello e al Vero, e il metodo era stato indicato nel Vangelo: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”. Gilbert era riuscito a trovare la via d’uscita ai suoi tormenti nella semplice quanto ardua verità del cristianesimo. Ora sapeva che tutta la meravigliosa, pura ricchezza dell’infanzia non sarebbe andata perduta. “Ciò che è meraviglioso nella fanciullezza - scrisse - è che in essa tutto è meraviglia. Non è semplicemente un mondo pieno di miracoli, ma un mondo miracoloso. Questa forte emozione mi viene data da quasi tutto ciò di cui io mi ricordo veramente, non dalle cose che io penserei più degne di essere ricordate”. Non la pretesa di mantenere una forzosa ingenuità, ma la capacità di guardare al mondo con uno sguardo autentico: “Soltanto l’adulto vive una vita di finzione e di simulazione. È lui che ha la testa in una nube”. Gilbert decise di combattere per dissipare le nubi della confusione e della menzogna: se la difesa dell’innocenza era il punto di partenza, l’arma d’attacco per smascherare la falsità che oscura agli occhi umani il Vero divenne il paradosso. Il paradosso in Chesterton è un apparente mancanza di senso che in realtà rivela l’anti-buonsenso che avvelena la quotidianità: “In bene o in male, l’Europa, dalla Riforma in poi, e più specialmente l’Inghilterra, sono state, in un peculiare senso, la dimora del paradosso. Intendo nello stesso peculiare senso che il paradosso sia una dimora, e che gli uomini vi si sentano a casa propria. L’esempio più familiare è il vanto degli inglesi di essere pratici perché non sono logici. (…) Ma il nocciolo della questione non sta qui, sta nel paradosso come in una banalità. Non che gli uomini pratici stiano ritti sulla testa, il che potrebbe qualche volta essere stimolante, anche se sorprendente ginnastica, ma che loro riposino sulla testa, e perfino dormano sulla testa. È un punto importante, perché l’utilità del paradosso sta nel risvegliare la mente”.
La sua prosa fu sempre brillante, toccante, appassionante, e ciò a motivo del fatto che scriveva per rendere omaggio alla verità. Non semplicemente e riduttivamente uno “scrittore cristiano”, dove con questo termine la critica vuole solitamente collocare l’autore credente in una determinata nicchia, con una etichettatura utile a catalogarlo (e a circoscriverlo), ma un artista che traeva dalla propria fede le ragioni, le passioni, le motivazioni per esprimere pienamente il proprio genio, e per il quale lo sguardo della fede sul mondo era il motivo primo di ispirazione, la guida alla ragione. La vita come enigma è il senso del Libro di Giobbe, definito da Chesterton, che vi aveva trovato ristoro e salvezza nella crisi terribile degli anni giovanili, come il più grande poema religioso dell’umanità. Enigma, o mistero, non nel senso di qualcosa di ignoto, di in conoscibile, di assurdo, ma come una risposta che attende una domanda, una domanda posta nel modo giusto. Chesterton notava che in Giobbe l’affermazione che convince il dubbioso non è l’immagine dell’ordinata bontà del creato, quale l’aveva raffigurata la religiosità rigorosamente razionale del XVIII secolo, bensì la descrizione della sua immensa e arcana irrazionalità. E la sorpresa stupita di fronte a un Dio che supera incommensurabilmente i nostri calcoli e le nostre previsioni intellettuali è all’origine dell’atto di fede. Aveva scritto nel suo libro The Defendant: “La letteratura della gioia è infinitamente più difficile, molto più rara e molto più trionfante della letteratura del dolore avvolto in gramaglie”. Chesterton realizzò anche nei suoi racconti polizieschi, in particolare quelli che hanno come protagonista Padre Brown, una forma d’arte perfettamente legittima, addirittura elevandola al rango di moderna epica: l’investigatore è il moderno eroe che vive la sua Iliade nei meandri delle strade della città. ”Il romanzo poliziesco - spiegò - ci offre uno spaccato realistico della vita umana, e si basa sul fatto che “la moralità è il più oscuro e ardito dei complotti”. Gran parte della sua fama mondiale venne a G.K.C. proprio da uno di questi personaggi, inizialmente solo una delle diverse figure di investigatore a cui pensava. Si trattava di un piccolo prete dalla faccia tonda, umile, dimesso, ma dalla mente pronta, straordinariamente acuta, in grado di gareggiare con i più abili poliziotti e delinquenti non in astuzia, ma in intelligenza. Un prete cattolico, personaggio che appare per la prima volta in un racconto del 1910, diversi anni prima quindi della sua conversione. Chesterton per primo fu stupito del successo di questo personaggio, e si trovò quasi obbligato a dargli continuità. Padre Brown aveva una sua ben precisa fonte di ispiazione: un sacerdote di origine irlandese, Padre John O’Connor, che lo scrittore aveva conosciuto nel 1903 e con il quale era subito nata una profonda amicizia. Gilbert rimase colpito dal suo tatto, dal suo spirito, dalla sua brillante intelligenza. Lo descrisse piccolo di statura, come Padre Brown, con “un’aria discreta da elfo”, senza l’apparenza dimessa del suo personaggio. I due cominciarono a frequentarsi, a fare lunghe passeggiate insieme nella campagna di Beaconsfield, un piccolo paese a metà strada tra Londra e Oxford dove Chesterton si trasferì poco dopo il matrimonio con Frances, a causa della salute cagionevole di lei. Visti da lontano, il mastodontico Gilbert e il minuto Padre O’Connor dovevano rassomigliare parecchio a Padre Brown e Flambeau, il famoso criminale internazionale convertito dal prete e trasformato nel suo inseparabile collaboratore, e il cui ateismo era capitolato di fronte alla ragionevolezza della fede. Negli anni in cui cominciò a frequentare Padre O’Connor la fede cristiana di Gilbert era ancora imprecisa, ma non come quella di uno scettico, bensì come quella di un bambino che attende risposte dai grandi. La sua religiosità era soprattutto vetero-testamentaria. Non aveva frequentato in quegli anni nessuna chiesa cristiana, anche se per amore alla moglie cominciò ad accompagnarla alle funzioni anglicane. Lo stesso amore, e la paura di darle un dolore con tale scelta, fecero sì che dilazionasse per quasi vent’anni la scelta di entrare in quella Chiesa Cattolica che lo aveva affascinato e conquistato grazie a Belloc e Padre O’Connor . Quel cattolicesimo che imparò ad amare e ad apprezzare, prima che nei suoi contenuti dottrinari, per quelle qualità di umiltà, semplicità e intelligenza che pose nel personaggio del prete investigatore. In un racconto, La forma errata, che fa parte della raccolta L’innocenza di Padre Brown, un medico razionalista che ha compiuto un delitto e che si riconosce scoperto e sconfitto, esprime al piccolo prete il suo stupore stizzoso, con una presunzione non ancora del tutto piegata: “Caro Padre Brown, Vicisti, Galilee. In altre parole, maledizione ai suoi occhi troppo penetranti. Sarà mai possibile che vi sia qualcosa di vero nelle sciocchezze alle quali lei crede?”. In Padre Brown non c’è mai compiacimento dei propri successi: c’è il dolore per tutto il male che c’è nel mondo, un dolore sereno mitigato dalle tre virtù cardinali che egli incarna con semplicità: la fede, che non viene mai meno e che egli comunica e trasmette con naturalezza; la speranza, che anima la sua attività di prete e investigatore, con l’intenzione di salvare il peccatore, se non di impedire il peccato; la carità, ovvero l’amore, la capacità di offrire il perdono di Dio, il desiderio di vedere non la morte (o la punizione) del colpevole, ma la sua conversione.
La coppia di investigatori Padre Brown-Flambeau può apparire molto diversa da quella più famosa partorita dall’immaginazione dello scrittore scozzese Arthur Conan Doyle, ovvero Sherlock Holmes e il dottor Watson, e qualche critico vi ha voluto leggere un’aperta contrapposizione. Chesterton, nella sua bonomia, non entrò mai in polemica con Doyle, che aveva percorso un cammino opposto al suo, abbandonando la fede cattolica nella quale era nato, diventando un ferreo razionalista (come Holmes) per poi finire col praticare lo spiritismo e cercando di provare scientificamente l’esistenza dei folletti. Le storie di Padre Brown proseguirono il loro corso, non incrociandosi mai con il triste scettico di Baker Street. Entrambi gli investigatori continuarono ad affrontare i più intricati misteri, affrontandoli con l’uso della ragione. L’unica differenza tra Padre Brown e Holmes era che il piccolo prete sapeva che questa è un dono di Dio, che funziona al meglio quando è rischiarata dalla Grazia. Essere difensori della fede, al di là dell’espressione che può sembrare sorpassata, significava per Chesterton difendere anzitutto le tre virtù cardinali, fede speranza e carità. In The Defendant aveva spiegato che:“L’azione di difesa di una qualunque delle virtù cardinali suscita oggi ilarità, quasi si trattasse di un vizio. Le ovvie verità morali sono state così a lungo dibattute che hanno cominciato a sfavillare come tanti fulgidi paradossi. È soprattutto attorno a chi difende l’umiltà che aleggia, in questa epoca di idealismo egoista, qualcosa di indissolubilmente dissoluto”. Difendere e testimoniare la fede diventa dunque un’azione assolutamente controcorrente, autenticamente anticonformista, scandalo e follia agli occhi del mondo. Chesterton, nel 1922, dopo anni di apologetica giornalistica, di gialli appassionanti, di saggi storici, si decise a compiere una scelta che aveva maturato a lungo. Anni dopo, parlandone nella sua Autobiografia, così spiegava le ragioni della sua decisione: “Quando la gente chiede a me o a qualsiasi altro: ‘Perché vi siete uniti alla Chiesa di Roma?’, la prima risposta essenziale, anche se in parte incompleta, è: ‘Per liberarmi dai miei peccati’. Perché non v’è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati. Ciò trova la sua conferma nella logica, spaventosa per molti, con la quale la Chiesa trae la conclusione che il peccato confessato, e pianto adeguatamente, viene di fatto abolito, e che il peccatore comincia veramente di nuovo, come se non avesse mai peccato. (…) Dio lo ha fatto veramente a Sua immagine. Egli è ora un nuovo esperimento del Creatore. È un esperimento nuovo tanto quanto lo era a soli cinque anni. Egli sta nella luce bianca dell’inizio pieno di dignità della vita di un uomo. L’accumularsi di tempo non può più spaventare. L’uomo può essere grigio e gottoso, ma è vecchio solo di cinque minuti. L’idea cioè di accettare le cose con gratitudine, e non di prenderle senza curarsene. Così il Sacramento della Penitenza dà una vita nuova, e riconcilia l’uomo con tutto ciò che vive: ma non lo fa come lo fanno gli ottimisti e i predicatori pagani della felicità. Il dono viene fatto ad un prezzo ed è condizionato alla confessione. Ho detto che questa religione, rozza e primitiva, di gratitudine, non mi salvò dall’ingratitudine del peccato, che per me è orribile al massimo grado, forse perché è ingratitudine. Ho trovato soltanto una religione che osasse scendere con me nella profondità di me stesso”. Fu così che divenne cattolico:il difensore della fede ora aveva una bandiera da tenere alta, con umile fierezza, con mite determinazione. Il senso del bisogno che la Chiesa combatta per il mondo era molto forte in Gilbert, e trova la sua più compiuta e significativa espressione in un articolo pubblicato sul New Witness, nel quale ribattè l’insinuazione di un giornale secondo il quale la Chiesa avrebbe dovuto “muoversi coi tempi”; pochi scritti come questo possono dare al cristiano di oggi il senso del proprio compito nel mondo: “La Chiesa non può muoversi coi tempi; semplicemente perché i tempi non si muovono. La Chiesa può solo infangarsi coi tempi e corrompersi e puzzare coi tempi. Nel mondo economico e sociale, come tale, non c’è attività, eccettuata quella specie di attività automatica che è chiamata decadenza: l’appassire dei fiori della libertà e la loro decomposizione nel suolo originario della schiavitù. In questo, il mondo si trova per molte cose allo stesso piano dell’inizio dell’oscuro medioevo. E la Chiesa ha lo stesso compito di allora: salvare tutta la luce e la libertà che può essere salvata, resistere a quella forza del mondo che attrae in basso, e attendere giorni migliori. Una Chiesa vera vorrebbe certo fare tutto questo, ma una Chiesa vera può fare di più. Può fare di questi tempi di oscurantismo qualcosa di più di un tempo di semina; può farli il vero opposto dell’oscurità. Può presentare i suoi ideali in tale e attraente e improvviso contrasto con l’inumano declivio del tempo da ispirare d’un tratto agli uomini qualcuna delle rivoluzioni morali della storia, così che gli uomini oggi viventi non siano toccati dalla morte finché non abbiano visto il ritorno della giustizia. Non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo”. Un apologeta, dunque, un cristiano che brandiva la penna come una spada, certamente, ma anche con uno stile prodigioso e con una umanità commovente, che è riassunta in queste sue parole: “È assolutamente necessario essere un uomo buono: avere il senso dell’amicizia e dell’onore e una tenerezza profonda. Soprattutto è necessario essere apertamente e indecorosamente umani, confessare appieno tutte le pietà e le paure primordiali di Adamo”.

Paolo Gulisano

Bibliografia

Chesterton G.K., Autobiografia Piemme.
Chesterton G.K., Come si scrive un giallo, Sellerio.
Chesterton G.K., Dieci detective, Guanda.
Chesterton G.K., Eretici, Piemme.
Chesterton G.K., I paradossi di mr. Pond, Vallardi A.
Chesterton G.K., I racconti di padre Brown San Paolo Edizioni.
Chesterton G.K., Il bello del brutto, Sellerio.
Chesterton G.K., Il club dei mestieri stravaganti Newton & Compton.
Chesterton G.K., Il Napoleone di Notting Hill, Piemme.
Chesterton G.K., Il pugnale alato e altri racconti, BUR, Biblioteca Universali Rizzoli.
Chesterton G.K., L’osteria volante, Piemme.
Chesterton G.K., La resurrezione di Roma, IPL.
Chesterton G.K., La saggezza di padre Brown, Piemme.
Chesterton G.K., La sfera e la croce, Piemme.
Chesterton G.K., Le avventure di un uomo vivo, De Agostini.
Chesterton G.K., L’uomo che fu giovedì, Nord.
Chesterton G.K., Ortodossia, Morcelliana.
Chesterton G.K., Perché sono cattolico (e altri scritti) Gribaudi.
Chesterton G.K., S. Tommaso d’Aquino, Piemme.
Chesterton G.K., Svelare il mistero Gribaudi.
Chesterton G.K., Trevisan F., Il pazzo e il re, Fede & Cultura.
Gulisano P., Chesterton e Belloc. Apologia e profezia, Ancora editrice.

mercoledì 7 febbraio 2007

"Non possumus".

L'editoriale del quotidiano L'Avvenire di ieri 6 Febbraio 2007.
L'Avvenire è il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana. Il giornale dei Vescovi. Un riferimento per i cattolici italiani.
L'editoriale tratta della bozza di legge portata avanti dall'attuale Governo (c'è da capire quali e quante idee danzino nelle teste degli attuali uomini di governo, per non parlare dei membri della maggioranza, opera improba) e del giudizio del quotidiano.

Leggere per capire la posizione ragionevole.

Noi, al contrario del Ministro Rosy Bindi, in latino ce la cavavamo abbastanza da essere sempre promossi.

Per essere riportati all'articolo "cliccate" il titolo di questo "post" (mamma mia, quanta cacofonia...).

martedì 6 febbraio 2007

Chesterton è attuale - 2

Dibattito alla Camera del 31 gennaio scorso sui PACS. Il deputato dell'UDC Luca Volontè cita Chesterton: "Siamo al punto in cui «le spade devono essere sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d'estate». Con questo paradosso si compie la profezia di cento anni fa fatta da Chesterton".
Che buon pro gli faccia...

L'intervento è tratto dal sito www.noipress.it.

Cliccando il nostro titolo si viene riportati alla pagina.

Chesterton è sempre attuale - 2

Riprendiamo il tema dell'attualità di Chesterton. Facciamo la solita ricerca su Google e anche questa settimana troviamo cose interessanti che ci riportano a Chesterton.
Qui un articolo di Gianteo Bordero su alcuni argomenti attuali che inizia con una famosa citazione di Chesterton.

Cliccate il titolo e verrete rimandati all'articolo.

L'agguato della ragione


Ritorniamo a Joseph Pearce e alla sua tournee italiana dello scorso Novembre 2006 con una interessante intervista pubblicata l'11 Gennaio 2007 da Tempi.
L'intervista è del grandissimo Bobo Persico, chestertoniano serio. Serio per due motivi: il primo è che quando parla di Chesterton fa realmente sul serio, e il secondo è che si definisce chestertoniano anche perché è socio della Società Chestertoniana Italiana, che elabora questo blog.
Bel tipo Pearce: da giovane teorizzava la cacciata dei cattolici dall'Ulster, oggi insegna all'Ave Maria University. Tutta "colpa" di un club di laici molto realisti.

L'articolo è raggiungibile dal nostro titolo qui sopra. E' facile. Credetemi.

lunedì 5 febbraio 2007

La religione della gratitudine



Alla ricerca di tutto ciò che in giro si muove sul nostro Gilbert, vi segnaliamo il bel saggio uscito sull'ultimo numero del mensile 30 Giorni a firma del filosofo Massimo Borghesi, dal titolo in alto.
Il saggio verte sull'opera chestertoniana Autobiografia, e ne riportiamo un breve interessante brano significativo che possa invogliare i nostri lettori a leggerlo:

"L’Autobiografia costituisce, da questo punto di vista, un’opera apologetica che rende manifesto il percorso esistenziale e speculativo che porta a Orthodoxy (Ortodossia, 1908), l’opera in cui Chesterton difende in modo arguto e geniale la fede cattolica, e agli altri lavori dell’autore. In Ortodossia la verità del cattolicesimo è dimostrata a partire dal presupposto che esso rappresenta la sanità, psichica e mentale, dell’uomo; l’equilibrio delle sue facoltà spirituali. La verità coincide qui con la sanità, l’errore con la follia. Si tratta di un metodo che rifiuta la dissociazione postkantiana tra logica e psicologia, e che trova la sua applicazione anche nel Franz Rosenzweig di Dell’intelletto comune sano e malato. Leggendo l’Autobiografia comprendiamo come questa scoperta sia stata fatta da Chesterton sulla propria pelle. Anche per lui la via del dubbio si è trasformata nella via della disperazione e della follia. Da queste lo ha liberato il cattolicesimo ridonandogli la meraviglia perduta della sua fanciullezza".

Complimenti al professor Borghesi per le belle ed originali riflessioni che aiutano a riportare Chesterton all'attenzione che si merita.

L'articolo intero è leggibile cliccando qui.

domenica 4 febbraio 2007

Il Papa è il miglior difensore della nostra società autolesionista.


Una parte delle parole del Santo Padre all'Angelus di oggi, Giornata della Vita.

Cari fratelli e sorelle!

Quest’oggi si celebra in Italia la Giornata per la vita, promossa dalla Conferenza Episcopale sul tema: "Amare e desiderare la vita". Saluto cordialmente quanti sono convenuti in Piazza San Pietro per testimoniare il loro impegno a sostegno della vita dal concepimento fino al suo termine naturale. Mi unisco ai Vescovi italiani per rinnovare l’appello più volte lanciato anche dai miei venerati predecessori a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, affinché si mostrino accoglienti verso il grande e misterioso dono della vita. La vita, che è opera di Dio, non va negata ad alcuno, neppure al più piccolo e indifeso nascituro, tanto meno quando presenta gravi disabilità. Allo stesso tempo, facendo eco ai Pastori della Chiesa in Italia, invito a non cadere nell’inganno di pensare di poter disporre della vita fino a "legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà".
(...).

sabato 3 febbraio 2007

Cattolici, attenti! La Chiesa difende la famiglia naturale.


Pubblichiamo un articolo-intervista uscito su Il Giornale di ieri a firma dell'amico Andrea Tornielli, che riporta il pensiero del caro vescovo di San Marino - Montefeltro mons. Luigi Negri.
Dice delle cose che molti dicono e si chiedono. Molto condivisibili. La faccenda dei pacs è molto più seria di quanto non sembri a molti, che ritengono -sbagliando- che sia una questione di "tolleranza". Come fu per il referendum sulla legge 40.


«Deluso dai cattolici dell’Unione»

di Andrea Tornielli - venerdì 02 febbraio 2007, 07:00

Quella dell’Udeur è stata «una testimonianza di coerenza» e i cattolici dovrebbero considerare i «valori non negoziabili» più importanti «degli schieramenti e delle alleanze politiche». Lo afferma il vescovo di San Marino e Montefeltro, Luigi Negri.
Che cosa pensa della votazione di mercoledì?

«Il primo sentimento è quello di una delusione profonda. Sono prevalse una serie di valutazioni di carattere contingentemente politico e dispiace ascoltare da parte di molti esponenti della maggioranza parole che tendono a ridurre la portata della decisione. Ovviamente si può dissentire dalle posizioni espresse dalla Chiesa, ma non ci si può nascondere che si stanno confrontando due visioni opposte della vita e della famiglia e sarebbe più leale dibattere di questo invece di minimizzare. Purtroppo si sta andando verso il riconoscimento legislativo di una nuova e precisa realtà sociale che non è la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, così come è descritta anche dalla nostra Costituzione».

Il cardinale Ruini ha più volte proposto di intervenire sui diritti individuali con eventuali modifiche del codice civile...

«Quella rappresenta dal nostro punto di vista l’unica via percorribile. Bisogna però anche ricordare che molti dei diritti individuali che oggi si vogliono sancire per le coppie di fatto sono già previsti e presenti nella legislazione italiana. Ciò che appare irrealistico e ideologico è il ritenere che questo problema rappresenti una priorità, dopo che per la famiglia non è stato fatto niente di serio e le istituzioni dovrebbero comprendere la necessità di intervenire per il bene e per il futuro del nostro Paese. Mi ha colpito una ricerca della Fondazione per la sussidiarietà, dalla quale emerge come più del sessanta per cento delle famiglie italiane ritiene l’educazione un fattore fondamentale e chiede un miglioramento del servizio scolastico. C’è poi il problema del lavoro. Si radicalizza invece una questione che interessa un’estrema minoranza».

Nella maggioranza di governo militano molti cattolici. Che cosa si aspetta da loro?

«Credo che esista per loro un grave problema di coscienza, visti gli autorevoli interventi del Papa, del presidente e del segretario della Conferenza episcopale. Benedetto XVI ha inserito la famiglia tra i valori “non negoziabili”. La Chiesa non difende una concezione di famiglia “cattolica” o “cristiana”, difende la concezione naturale di famiglia, quella che è alla base della nostra civiltà. Non si tratta, dunque, di una battaglia confessionale, ma del confronto tra due concezioni radicalmente diverse di famiglia».

È stato detto più volte che i Pacs «scardinano» la famiglia. Non crede che la famiglia tradizionale oggi sia già scardinata?

«Certo che la famiglia è in crisi. Ma ciò a cui assistiamo oggi è la volontà di assestare anche a livello istituzionale e giuridico questa crisi, portata avanti dall’ideologia laicista e da chi l’ha servita, esattamente come è successo per il divorzio e per l’aborto. E come, temo, possa accadere in futuro per l’eutanasia. C’è un mondo laicista e anticristiano che ritiene di essere maggioranza culturale e politica e dunque legifera come tale. La sfida è quella di dimostrare che questa tendenza non è maggioritaria dal punto di vista culturale e forse non lo è nemmeno in Parlamento. Certo, occorre che i cattolici si facciano riconoscere. In questo senso quella dell’Udeur è stata una testimonianza di coerenza. Non posso non augurarmi che tutti coloro che si riconoscono nell’antropologia cattolica si ritrovino. Ci sono valori “non negoziabili” ben più importanti degli schieramenti e delle alleanze politiche».

Il ministro Bindi ha detto che il governo vuole «sostenere la famiglia con politiche vere» e che la legge non creerà matrimoni di serie B.

«Che un cattolico dica che il progetto di legge sui Pacs rientra in un progetto in difesa della famiglia è insopportabile. Una vera soluzione democratica terrebbe conto di quali sono le vere esigenze delle famiglie – il problema della casa, di sgravi fiscali, della libertà di educazione, dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro – e non delle istanze di una minoranza numerica e culturale, peraltro ampiamente risolvibili con le leggi che già ci sono o con qualche ritocco al codice civile».

giovedì 1 febbraio 2007

Finanza islamica e sharia, il suicidio dell'Europa


Un interessantissimo intervento dell'esperto di islam padre Samir Khalil Samir sj, sacerdote cattolico egiziano, autore di molti libri sulla materia. Lucidissimo contributo, da diffondere.
Il progetto di portare la finanza islamica in Gran Bretagna è un grande bluff. Ma è segno della falsa tolleranza europea che si
sottomette sempre più alla sharia. Solo il progetto cattolico può salvare quanto di buono c'è nell'occidente.
Dalla Agenzia di Stampa AsiaNews, del caro amico Padre Bernardo Cervellera.

Beirut (AsiaNews) - L'Islam sta invadendo l'Europa, con i milioni di immigrati, ma anche con i milioni di dollari dei paesi musulmani. È di ieri la notizia che il governo britannico prepara un quadro legislativo per incoraggiare lo sviluppo della finanza islamica. Il progetto è definito una "priorità alta" dal Ministero del tesoro. In una dichiarazione all'AFP, il segretario al Tesoro, Ed Balls, ha detto che occorre assicurarsi che "il sistema fiscale e i regolamenti incoraggino lo sviluppo di prodotti conformi alla sharia" e di fare del Regno Unito "un centro mondiale della finanza islamica". Anche Libano e Gran Bretagna stanno lavorando per rilanciare e creare la più importante banca islamica nel Regno Unito. Entrambi le mosse sono certo un passo per attirare capitali islamici, ma sono anche un ulteriore segno dell'inchinarsi alle rivendicazioni della sharia, che
mostrano quanto l'Europa sia ormai preda del progetto di islamizzazione da parte del fondamentalismo musulmano.

La tradizione britannica d'accoglienza, la generosità del suo diritto d'asilo, la sua tolleranza religiosa e il suo attaccamento alla libertà e alla diversità culturale, da più di vent'anni hanno fatto di Londra la capitale politica e finanziaria dell'islamismo internazionale. Di fatti, è facilissimo finanziare reti attraverso ilmondo, a partire di un Paese che protegge 4000 associazioni caritatevoli e una cinquantina di banche islamiche. La zakât, l'imposta legale musulmana, raccoglie ogni anno circa 5 millioni di euro, senza parlare dei doni privati, la sadaqa. Inoltre, la politica britannica lascia strada libera agli estremisti, ma le tiene sotto osservazione.

Tale progetto ha in sé qualcosa di irrazionale almeno per due motivi.

Il primo è che la banca islamica è un grande bluff. Essa si basa sul principio che il Corano proibisce il prestito ad interesse. In realtà il libro sacro non accetta la "riba", l'usura (l'interesse non era noto al tempo del Corano!). Del resto, anche la Chiesa condanna l'usura.

Il secondo motivo è che i fondatori delle banche islamiche – nate circa 50 anni fa – sono due personalità fondamentaliste che avevano poca dimestichezza con l'economia. Essi sono Abul A'la Mawdudi (1903-1979) e Sayyed Qutb (1906-1966), un ideologo dei Fratelli Musulmani.

Non avendo idea dell'economia contemporanea, hanno fatto un enorme sbaglio, perché non hanno calcolato l'inflazione, per cui un prestito senza interesse è sempre una perdita. I moderni dopo di loro hanno sviluppato la teoria che nella banca islamica non c'è interesse, ma compartecipazione. Così alla fine dell'anno ci si divide gli utili dei guadagni globali delle banche. In realtà, il mondo islamico ha dovuto sempre trovare dei trucchi per ripagare debiti ed interessi. In passato vi sono stati anche forti scandali, in particolare in Egitto, coperti poi dall'Arabia saudita, per salvare il principio della banca
islamica.

Banca islamica e integralismo musulmano

Questa idea ricalca il progetto integralista secondo cui il sistema islamico è il migliore. Partito dai Fratelli Musulmani e poi
sviluppatosi, tale progetto nasce dall'umiliazione dell'Islam di fronte al mondo moderno. I fondamentalisti dicono: "Applicare il Corano è la cosa migliore ed è la nostra forza. Noi eravamo i più forti fino a che l'abbiamo applicato. Poi abbiamo smesso di credere nel Corano, abbiamo seguito l'occidente il quale in ritorno ci ha colonizzati, e siamo divenuti deboli, anzi i più deboli di tutti. Se attuiamo uno stato islamico saremo di nuovo i più forti".

Nel dare spazio alla finanza islamica, non si può dimenticare che essa fa parte di questo progetto di islamizzazione dell'Europa e del mondo. Esso vuole salvare l'occidente dalla decadenza morale in cui è caduto, attraverso l'applicazione della legge divina del Corano. Ma ciò significa che l'applicazione comprende anche i particolari quali la lapidazione, il tagliare la mano a chi ruba, la poligamia, l'obbligo per la donna di trovare almeno 4 testimoni maschi per difendersi dall'accusa di adulterio… Significa anche rispettare gli orari delle cinque preghiere, avere delle moschee ben visibili con i minareti,
rispettare le regole del cibo halâl, diffondere "il vestito islamico" cioè il velo, ecc. L'aspetto finanziario è solo uno di questi.

È probabile che all'Europa interessi soprattutto l'elemento economico: i soldi non hanno odore e quindi ben vengano anche quelli islamici. Ma non ci si accorge che l'economia è legata alla politica e alle idee del fondamentalismo e del terrorismo islamico.

La debolezza dell'Europa sta in questo cedere in tutti i campi: in nome della multiculturalità si accetta che il mondo islamico calpesti lo stile di vita occidentale. A Londra, per esempio, si accetta che la poliziotta non dia la mano al suo capo solo perché e maschio.. Ma come farà ad arrestare un ladro maschio in futuro? O come aiuterà un uomo in pericolo? A Parigi, in certi ospedali, si esige dei medici o chirurgi femmine per curare le donne musulmane.

In Europa c'è esitazione, compromesso, sottomissione, tutti giustificati dall'ideale della "tolleranza religiosa". Ricordiamo la cancellazione a Berlino dell'opera di Mozart (per la paura di offendere l'Islam); il divieto a Ginevra della rappresentazione del teatro di Voltaire su Maometto; le vignette danese su Maometto; le reazioni al discorso del papa a Regensburg, ecc.. In tutti questi fatti si è visto che l'occidente è disposto a criticare tutto, ma non l'Islam. Vale la pena chiederci: abbiamo o no il diritto di criticare l'Islam? Se la Chiesa critica i pacs, ecc.. accusano la Chiesa di essere intollerante. Se l'Islam difende la poligamia, o lapida gli omosessuali, lo si accetta con tranquillità.

Tolleranza, relativismo e debolezza

Da parte dell'Islam radicale, si sfrutta questo atteggiamento rispettoso e timoroso per esigere, affermare, aprire spazi nella cultura occidentale. Nello stesso tempo, nessun musulmano "moderato" parla a voce alta, mostrando che l'Islam si può interpretare in diversi modi. Sul tema del velo, ad esempio, solo alcuni hanno osato affermare che esso non è per nulla un obbligo islamico. Un altro fatto è la questione della carne halal: non c'è bisogno di macellerie islamiche, perchè il Corano dice che la carne macellata dai cristiani è halal! Eppure si concede volentieri la macelleria islamica, la refezione separata, ecc.. In realtà tutto ciò è un ricatto del mondo islamico radicale verso l'occidente che, essendo debole, si adegua e si prostra.

Questa tolleranza è la conclusione di un relativismo in cui l'occidente è immerso, che fa dire ai musulmani: davvero questi occidentali sono senza alcun principio...

La questione della finanza islamica mostra da una parte la folle idea del radicalismo musulmano di "islamizzare l'economia". Ma esso mostra anche un occidente debole: esso, pur avendo lottato per secoli sui diritti umani, è più interessato al fenomeno economico che al fenomeno etico. Ma in questo modo l'occidente viene a fare lo stesso gioco del radicalismo e del terrorismo.

Il suicidio dell'Europa

Una civiltà non muore per vecchiaia, ma per suicidio. La civiltà europea sta morendo così, sottomettendosi alle regole del gioco del radicalismo islamico che la vuol distruggere. Possiamo dire con chiarezza che il male dell'Europa non è l'Islam; il male dell'Europa è dentro l'Europa stessa. Il papa lo ha sottolineato tante volte, soprattutto a Regensburg. Il male del continente europeo è il relativismo, non avere principi chiari, aver perso la fiducia in se stessi, proprio per la mancanza di un fondamento assoluto, come avviene nella fede. Il pragmatismo economico, etico, senza principi, sta uccidendo l'occidente. Questa è la vera radice del problema. E il motivo di questa debolezza è l'aver escluso la fede nell'orizzonte della sua ricerca e ragione.

Ormai in Europa si confrontano 3 progetti di società:

1. quello secolarista, che è pragmatico e non ha principi inviolabili, ma cerca solo il benessere edonista;
2. il progetto cattolico, con dei principi – espressi nel vangelo e nella tradizione cristiana – che vanno ripensati sempre, e che propone una riforma della società occidentale, per recuperare tutto il buono dell'illuminismo;
3. il progetto islamico radicale che si presenta con grandi ricatti e forza di condizionamento, e afferma che la soluzione è quella di Dio espressa nel Corano e nella sharia.

Il mondo secolarizzato vede bene che l'Islam cancelli gli elementi cristiani (ricordiamo la polemica sui crocefissi esposti negli
ospedali e nelle scuole), perché vi vede un elemento del suo progetto di secolarizzazione. Ma in realtà l'Islam cerca l'islamizzazione, non la secolarizzazione. L'Islam rigetta il cristianesimo, ma per sostituirlo con la legge musulmana.

Va detto però che solo il progetto cattolico è completo. Il progetto secolarista evacua la fede; quello islamico evacua la modernità, la razionalità e il buon senso; il progetto cattolico passa tutto al vaglio per ritenere ciò che è buono nell'occidente e nel mondo. Questo progetto è più difficile, perché richiede un discernimento continuo, non solo da parte dell'autorità religiosa ma anche e soprattutto da parte di ogni cristiano nella fedeltà all'autorità. E' difficile, ma è anche più bello, perché è un progetto umanistico che ha al centro la persona umana!

Samir Khalil Samir, SJ

Benedetto XVI: «I santi non cadono dal cielo".


L'Udienza di mercoledì 31 Gennaio 2007.

Cari fratelli e sorelle,
proseguendo il nostro viaggio tra i protagonisti delle origini cristiane, dedichiamo oggi la nostra attenzione ad alcuni altri collaboratori di san Paolo. Dobbiamo riconoscere che l'apostolo è un esempio eloquente di uomo aperto alla collaborazione: nella Chiesa egli non vuole fare tutto da solo, ma si avvale di numerosi e diversificati colleghi. Non possiamo soffermarci su tutti questi preziosi aiutanti, perché sono molti. Basti ricordare, tra gli altri, Èpafra (cfr Col 1,7; 4,12; Fm 23), Epafrodìto (cfr Fil 2,25; 4,18), Tìchico (cfr At 20,4; Ef 6,21; Col 4,7; 2 Tm 4,12; Tt 3,12), Urbano (cfr Rm 16,9), Gaio e Aristarco (cfr At 19,29; 20,4; 27,2; Col 4,10). E donne come Febe (cfr Rm 16, 1), Trifèna e Trifòsa (cfr Rm 16, 12), Pèrside, la madre di Rufo — della quale san Paolo dice: «È madre anche mia» (cfr Rm 16, 12-13) — per non dimenticare coniugi come Prisca e Aquila (cfr Rm 16, 3; 1Cor 16, 19; 2Tm 4, 19). Oggi, tra questa grande schiera di collaboratori e di collaboratrici di san Paolo rivolgiamo il nostro interessamento a tre di queste persone, che hanno svolto un ruolo particolarmente significativo nell'evangelizzazione delle origini: Barnaba, Silvano e Apollo.
Barnaba significa «figlio dell'esortazione» (At 4,36) o «figlio della consolazione» ed è il soprannome di un giudeo-levita nativo di Cipro. Stabilitosi a Gerusalemme, egli fu uno dei primi che abbracciarono il cristianesimo, dopo la risurrezione del Signore. Con grande generosità vendette un campo di sua proprietà consegnando il ricavato agli apostoli per le necessità della Chiesa (cfr At 4,37). Fu lui a farsi garante della conversione di Saulo presso la comunità cristiana di Gerusalemme, la quale ancora diffidava dell'antico persecutore (cfr At 9,27). Inviato ad A ntiochia di Siria, andò a riprendere Paolo a Tarso, dove questi si era ritirato, e con lui trascorse un anno intero, dedicandosi all'evangelizzazione di quella importante città, nella cui Chiesa Barnaba era conosciuto come profeta e dottore (cfr At 13,1). Così Barnaba, al momento delle prime conversioni dei pagani, ha capito che quella era l'ora di Saulo, il quale si era ritirato a Tarso, sua città. Là è andato a cercarlo. Così, in quel momento importante, ha quasi restituito Paolo alla Chiesa; le ha donato, in questo senso, ancora una volta l'apostolo delle genti. Dalla Chiesa antiochena Barnaba fu inviato in missione insieme a Paolo, compiendo quello che va sotto il nome di primo viaggio missionario dell'apostolo. In realtà, si trattò di un viaggio missionario di Barnaba, essendo lui il vero responsabile, al quale Paolo si aggregò come collaboratore, toccando le regioni di Cipro e dell'Anatolia centro-meridionale, nell'attuale Turchia, con le città di Attalìa, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe (cfr At 13-14). Insieme a Paolo si recò poi al cosiddetto Concilio di Gerusalemme dove, dopo un approfondito esame della questione, gli apostoli con gli anziani decisero di disgiungere la pratica della circoncisione dall'identità cristiana (cfr At 15,1-35). Solo così, alla fine, hanno ufficialmente reso possibile la Chiesa dei pagani, una Chiesa senza circoncisione: siamo figli di Abramo semplicemente per la fede in Cristo.
I due, Paolo e Barnaba, entrarono poi in contrasto, all'inizio del secondo viaggio missionario, perché Barnaba era dell'idea di prendere come compagno Giovanni Marco, mentre Paolo non voleva, essendosi il giovane separato da loro durante il viaggio precedente (cfr At 13,13; 15,36-40). Quindi anche tra santi ci sono contrasti, discordie, controversie. E questo a me appare molto consolante, perché vediamo che i santi non sono «caduti dal cielo». Sono uomini come noi, con problemi anche complica ti. La santità non consiste nel non aver mai sbagliato, peccato. La santità cresce nella capacità di conversione, di pentimento, di disponibilità a ricominciare, e soprattutto nella capacità di riconciliazione e di perdono. E così Paolo, che era stato piuttosto aspro e amaro nei confronti di Marco, alla fine si ritrova con lui. Nelle ultime Lettere di san Paolo, a Filèmone e nella seconda a Timoteo, proprio Marco appare come «il mio collaboratore». Non è quindi il non aver mai sbagliato, ma la capacità di riconciliazione e di perdono che ci fa santi. E tutti possiamo imparare questo cammino di santità. In ogni caso Barnaba, con Giovanni Marco, ripartì verso Cipro (cfr At 15,39) intorno all'anno 49. Da quel momento si perdono le sue tracce. Tertulliano gli attribuisce la Lettera agli Ebrei, il che non manca di verosimiglianza perché, essendo della tribù di Levi, Barnaba poteva avere un interesse per il tema del sacerdozio. E la Lettera agli Ebrei ci interpreta in modo straordinario il sacerdozio di Gesù.
Un altro compagno di Paolo fu Sila, forma grecizzata di un nome ebraico (forse sheal, «chiedere, invocare», che è la stessa radice del nome «Saulo»), di cui risulta anche la forma latinizzata Silvano. Il nome Sila è attestato solo nel Libro degli Atti, mentre il nome Silvano compare solo nelle Lettere paoline. Egli era un giudeo di Gerusalemme, uno dei primi a farsi cristiano, e in quella Chiesa godeva di grande stima (cfr At 15,22), essendo considerato profeta (cfr At 15,32). Fu incaricato di recare «ai fratelli di Antiochia, Siria e Cilicia» (At 15,23) le decisioni prese al Concilio di Gerusalemme e di spiegarle. Evidentemente egli era ritenuto capace di operare una sorta di mediazione tra Gerusalemme e Antiochia, tra ebreo-cristiani e cristiani di origine pagana, e così servire l'unità della Chiesa nella diversità di riti e di origini. Quando Paolo si se parò da Barnaba, assunse proprio Sila come nuovo compagno di viaggio (cfr At 15,40). Con Paolo egli raggiunse la Macedonia (con le città di Filippi, Tessalonica e Berea), dove si fermò, mentre Paolo proseguì verso Atene e poi Corinto. Sila lo raggiunse a Corinto, dove cooperò alla predicazione del Vangelo; infatti, nella seconda Lettera indirizzata da Paolo a quella Chiesa, si parla di «Gesù Cristo, che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo» (2 Cor 1,19). Si spiega così come mai egli risulti come co-mittente, insieme a Paolo e Timoteo, delle due Lettere ai Tessalonicesi. Anche questo mi sembra importante. Paolo non agisce da «solista», da puro individuo, ma insieme con questi collaboratori nel «noi» della Chiesa. Questo «io» di Paolo non è un «io» isolato, ma un «io» nel «noi» della Chiesa, nel «noi» della fede apostolica. E Silvano alla fine viene menzionato pure nella Prima Lettera di Pietro, dove si legge: «Vi ho scritto per mezzo di Silvano, fratello fedele» (5,12). Così vediamo anche la comunione degli Apostoli. Silvano serve a Paolo, serve a Pietro, perché la Chiesa è una e l'annuncio missionario è unico.
Il terzo compagno di Paolo, di cui vogliamo fare memoria, è chiamato Apollo, probabile abbreviazione di Apollonio o Apollodoro. Pur trattandosi di un nome di stampo pagano, egli era un fervente ebreo di Alessandria d'Egitto. Luca nel Libro degli Atti lo definisce «uomo colto, versato nelle Scritture... pieno di fervore» (18,24-25). L'ingresso di Apollo sulla scena della prima evangelizzazione avviene nella città di Efeso: lì si era recato a predicare e lì ebbe la fortuna di incontrare i coniugi cristiani Priscilla e Aquila (cfr At 18,26), che lo introdussero ad una conoscenza più completa della «via di Dio» (cfr At 18,26). Da Efeso passò in Acaia raggiungendo la città di Corinto: qui arrivò con l'appoggio di una lettera dei cristiani di Efeso, che raccomandavano ai Corin zi di fargli buona accoglienza (cfr At 18,27). A Corinto, come scrive Luca, «fu molto utile a quelli che per opera della grazia erano divenuti credenti; confutava infatti vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo» (At 18,27-28), il Messia. Il suo successo in quella città ebbe però un risvolto problematico, in quanto vi furono alcuni membri di quella Chiesa che nel suo nome, affascinati dal suo modo di parlare, si opponevano agli altri (cfr 1 Cor 1,12; 3,4-6; 4,6). Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi esprime apprezzamento per l'operato di Apollo, ma rimprovera i Corinzi di lacerare il Corpo di Cristo suddividendosi in fazioni contrapposte. Egli trae un importante insegnamento da tutta la vicenda: sia io che Apollo - egli dice - non siamo altro che diakonoi, cioè semplici ministri, attraverso i quali siete venuti alla fede (cfr 1 Cor 3,5). Ognuno ha un compito differenziato nel campo del Signore: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere... Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio» (1 Cor 3,6-9). Rientrato a Efeso, Apollo resistette all'invito di Paolo di tornare subito a Corinto, rimandando il viaggio a una data successiva da noi ignorata (cfr 1 Cor 16,12). Non abbiamo altre sue notizie, anche se alcuni studiosi pensano a lui come a possibile autore della Lettera agli Ebrei, della quale, secondo Tertulliano, sarebbe autore Barnaba.
Tutti e tre questi uomini brillano nel firmamento dei testimoni del Vangelo per una nota in comune oltre che per caratteristiche proprie di ciascuno. In comune, oltre all'origine giudaica, hanno la dedizione a Gesù Cristo e al Vangelo, insieme al fatto di essere stati tutti e tre collaboratori dell'apostolo Paolo. In questa originale missione evangelizzatrice essi hanno trovato il senso della loro vita, e in quanto tali stanno davanti a noi come modelli luminosi di disinteresse e di generosità. E ripensiamo, alla fine, ancora una volta a questa frase di san Paolo: sia Apollo, sia io siamo tutti ministri di Gesù, ognuno nel suo modo, perché è Dio che fa crescere. Questa parola vale anche oggi per tutti, sia per il Papa, sia per i cardinali, i vescovi, i sacerdoti, i laici. Tutti siamo umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo per quanto possiamo, secondo i nostri doni, e preghiamo Dio perché faccia Lui crescere oggi il suo Vangelo, la sua Chiesa.

La dittatura del desiderio.

A proposito di "dittatura del desiderio", che colpisce in vario modo, questa non l'avevamo mai sentita. L'abbiamo letta sul sito www.stranau.it che l'ha tirata fuori dal sito di The Guardian, quotidiano inglese vicino alle posizioni laburiste. Assuntina Morresi, autrice della segnalazione, dice giustamente che pensava ad uno scherzo. Il guaio è che non lo è.


"Non sarò felice finchè non avrò perso le gambe". L'autrice del pezzo racconta che fin da piccola si è sempre immaginata senza gambe. Ammette che i medici le hanno diagnosticato un "body identity integrity disorder (BIID)", e chi soffre di questo disordine vuole togliersi le gambe, anche se sono sane. Nel pezzo la donna racconta di essere riuscita, finalmente, a farsi amputare una gamba (procurandosi un'infezione dopo aver cercato di congelare la gamba per obbligare i medici all'amputazione) e adesso è veramente molto felice. Il marito l'ha aiutata, perchè ha capito che lei voleva proprio questo. I suoi figli (10 e 15 anni) ancora non sanno la verità, ma la sapranno quando saranno più grandi. Prima o poi toglierà anche l'altra gamba. Non ha dubbi sulla strada che ha scelto, e per la prima volta in vita sua si sente realizzata.

Cliccando il titolo si apre la pagina web del quotidiano inglese da cui è tratta la notizia.