mercoledì 26 settembre 2007

Il Papa e il capitalismo.

Il Papa, all'Angelus di domenica scorsa, ha pronunciato le parole che trovate qui sotto che interessavano temi economici e morali.
Ovviamente ognuno ha tirato acqua al suo mulino, ma il Papa ha ribadito la dottrina cattolica su questi temi, con una chiarezza cui forse non siamo abituati.
Ha usato anche il paradosso, e questo e il contenuto delle sue affermazioni sono estremamente chestertoniani (leggi: distributismo, che non c'entra niente col socialismo, il collettivismo, il comunismo eccetera eccetera).

A voi. Meditiamo.

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 23.09.2007

Cari fratelli e sorelle!

Questa mattina ho reso visita alla diocesi di Velletri della quale sono stato Cardinale titolare per diversi anni. È stato un incontro familiare, che mi ha permesso di rivivere momenti del passato ricchi di esperienze spirituali e pastorali. Nel corso della solenne Celebrazione eucaristica, commentando i testi liturgici, ho avuto modo di soffermarmi a riflettere sul retto uso dei beni terreni, un tema che in queste domeniche l’evangelista Luca, in vari modi, ha riproposto alla nostra attenzione. Raccontando la parabola di un amministratore disonesto ma assai scaltro, Cristo insegna ai suoi discepoli quale è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali, e cioè condividerli con i poveri procurandosi così la loro amicizia, in vista del Regno dei cieli. "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza – dice Gesù – perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9). Il denaro non è "disonesto" in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di "conversione" dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – "da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà" (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.

Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: "la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi" (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile.

Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore "ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.

giovedì 20 settembre 2007

Chesterton è attuale - 10


Andrea Monda, carissimo amico chestertoniano, cita Chesterton su Romasette.it
Bravo, Andreone!

Cliccare il titolo e leggere l'articolo. Facile.

Chesterton è attuale - 9


L'Agenzia Fides cita giustamente Chesterton (la strafamosa frase di Eretici sulle spade e sull'erba...) in un articolo sull'eugenetica.

Cliccare il titolo e leggere l'articolo. Abbastanza facile.

La lunga battaglia del mongolo Giuseppe per avere una chiesa nel proprio villaggio

Da AsiaNews, per imparare.

I 20 cattolici di Dzuunmod ogni domenica fanno un lungo viaggio per andare a messa nella più vicina chiesa, a 60 chilometri. Ora Giuseppe il carpentiere cerca di convincere il Consiglio locale ad autorizzare una chiesa e, con l’occasione, parla della sue fede.

Ulaanbaatar - Mongolia (AsiaNews/Ucan) – Ha scelto il nome cattolico di Giuseppe perché è un carpentiere, come il padre di Gesù, presso la locale Scuola cattolica S. Paolo. Ora a Dzuunmod, capitale della provincia Centrale a 60 chilometri da Ulaanbaatar, cerca di convincere il Consiglio cittadino che ai cattolici occorre una chiesa e di far conoscere cosa sia il cristianesimo.
“Ogni domenica – ha spiegato al Consiglio il 29 agosto – per la messa dobbiamo andare a Ulaanbaatar con il bus, è molto costoso e ci porta via l’intero giorno”. E’ un viaggio di 3-4 ore, secondo le condizioni della strada e il tempo. Giuseppe dice che ha preparato il discorso al Consiglio leggendo il Libro di Geremia.
Nella città vivono 20 cattolici battezzati, metà dei quali hanno tra 16 e 25 anni. Altri 5 si preparano al battesimo per Pasqua.
“Ogni domenica andiamo a messa – racconta a UCA News – e anche ad altri piacerebbe venire. Ma non abbiamo ancora il permesso per fare attività religiosa nella nostra città”. I fedeli si incontrano una volta a settimana per meditare la Bibbia e pregare insieme, ma senza questo permesso non possono “parlarne a nessuno”.
E’ convinto che i mongoli possano capire con facilità il cattolicesimo, perché è simile in molti punti agli insegnamenti tradizionali del Paese. Per esempio ritiene che i dieci comandamenti riecheggiano i Dieci meriti bianchi e i Dieci peccati neri che ogni mongolo conosce. “Un mio amico, monaco buddista di 86 anni, capisce ogni cosa del cristianesimo e ama il Papa e la Beata Madre Teresa”.
La Chiesa cattolica non è proibita, ma i cattolici per fare attività religiosa debbono chiedere il permesso al Consiglio cittadino sia di ogni bag (la più piccola unità amministrativa) che della soum (entità governativa superiore) che della provincia. Giuseppe ritiene che questo “sia un bene, perché così gli abitanti dei villaggi non vedono la Chiesa come qualcosa imposto loro dal governo, ma possono scegliere se avere o no una chiesa nel loro villaggio”. Così, inoltre, “noi cattolici possiamo parlar loro della nostra fede e di noi ed eliminare le incomprensioni”.
Già a marzo ha chiesto l’autorizzazione. Allora “abbiamo avuto l’approvazione dei due consigli inferiori e abbiamo perso per un solo voto nel consiglio provinciale. Questa volta al Consiglio bag abbiamo avuto 56 voti su 87 a favore della nostra chiesa. Confidiamo in Dio di poterla avere”. Ritiene che chi ha votato contro la chiesa non conosca bene il cattolicesimo o ne abbia un’esperienza negativa, anche perché “molti mongoli non conoscono le grandi differenze tra i diversi gruppi e sette cristiani”. La gente ricorda che altri gruppi cristiani hanno cercato di convertirli distribuendo sacchi di farina o regalando denaro o ninnoli. O che 12 anni fa alcuni ragazzi si sono suicidati credendo che sarebbero risorti dopo tre giorni.
“Di certo gli anziani non vogliono che queste cose accadano ancora. Per questi terribili malintesi molti ritengono che il cristianesimo sia pericoloso. Ora abbiamo spiegato con molta attenzione in cosa crediamo e come viviamo”.
Giuseppe prende sempre nota di quanto accade. Ha due figli e dice che “quando saranno grandi, qui la Chiesa sarà diffusa e forte. Ma loro devono conoscere come è successo, quanto i loro genitori hanno lavorato e combattuto per questo”.

martedì 18 settembre 2007

Oggi ricorre il 147° anniversario della Battaglia di Castelfidardo.


De Pimodan

De La Moriciere


Cari amici,
oggi ricorre il 147° anniversario della Battaglia di Castelfidardo, la battaglia che pose fine allo Stato Pontificio nelle Marche, e che sinceramente provoca in me sempre una certa emozione.
Sarà che sono così vicino al luogo della Battaglia, sarà che ho cercato di documentarmi da tutte le fonti, oneste e meno oneste, sta di fatto che questo anniversario mi è sempre motivo di una certa commozione.
Il luogo della Battaglia è un posto molto ameno, e vi sono ancora tracce di questo evento. E' una ridente collina sulla quale vive, ormai in comune di Castelfidardo ma vicinissima alla cara città di Loreto (cara a noi cattolici italiani e ancor più a noi marchigiani, che la consideriamo un po' come casa nostra, per la presenza della Santa Casa di Loreto, dove il Mistero si è fatto uno tra noi ed uno di noi), un bellissimo ed antichissimo bosco.
Lì combatterono i pontifici in numero soverchiamente inferiore ai piemontesi. I pontifici erano guidati dal generale De La Moriciere e dal generale De Pimodan, quest'ultimo morto in battaglia nella villa che sorge sul colle, all'interno della selva.
La battaglia si svolse lungo l'erta del colle, sul piano sottostante che divide il colle di Loreto e il colle della Selva.
C'erano volontari provenienti da tutto il mondo, a difendere il buon diritto del Papa Re: bretoni, francesi, belgi, inglesi, scozzesi, polacchi, irlandesi (il famoso Battaglione San Patrizio, distintosi per il valore, per le vittorie conseguite in quel breve periodo di guerra nel mese di settembre 1860).
Oggi c'è un sacrario che purtroppo porta solo i nomi dei caduti piemontesi, anche se lì sotto ci sono parte dei caduti pontifici (la restante parte, con un altro gruppo di caduti piemontesi, si trova nella Chiesa di Santa Maria della Pietà a Macerata).
Sarebbe bello che si parlasse anche di loro, di questi giovani che diedero la vita per un ideale bello. Non erano mercenari. Io pensandoci mi commuovo sempre un po'. Che grande cuore che ebbero!

Ci sarebbero altre mille cose da dire. Vi rimando al bel libro di Patrick Keyes O'Cleary "La rivoluzione italiana - Come fu fatta l'unità della nazione", Ares, Milano, 2000. Lì la storia è raccontata bene.

venerdì 14 settembre 2007

Il Vaticano: no all’eutanasia anche su malati in “stato vegetativo”, sono sempre persone

Documento della Congregazione della dottrina della fede: dare acqua e cibo non è una terapia, che in alcune situazioni può essere sospesa, ma un mezzo naturale di conservazione della vita. La questione era stata sollevata dai vescovi degli Usa.


Città del Vaticano (AsiaNews) – Anche le persone “in stato vegetativo permanente” hanno diritto ad avere cibo e acqua, anche con mezzi artificiali: tali strumenti infatti sono “sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico”, che può invece essere interrotto qualora non abbia alcuna possibilità di portare alla guarigione del malato del quale prolunga inutilmente le sofferenze. Il Vaticano torna oggi a ribadire il no all’eutanasia, comunque mascherata, ricordando al tempo stesso non solo il rifiuto che va opposto al cosiddetto accanimento terapeutico e riconoscendo la possibile esistenza di situazioni particolari – come l’incapacità di assimilazione da parte del malato – che rendono accettabile anche la sospensione della somministrazione di acqua e cibo.

Sono queste le indicazioni che – con esplicita approvazione papale - vengono dalle risposte e dal commento che la Congregazione per la dottrina della fede ha dato a due domande poste dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti sulla questione dei malati in “stato vegetativo permanente”.
Evidentemente provocate dal caso Terry Schiavo, la donna in “stato vegetativo permanente” morta negli Usa alla fine del marzo 2005 proprio in seguito alla sospensione del nutrimento e dell’acqua.

“La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali – afferma dunque il dicastero dottrinale vaticano - è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente”.

Tali mezzi “ordinari” non vano sospesi neppure quando “medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza”. Un paziente in “stato vegetativo permanente” , infatti, “è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali”.

Una lunga nota di commento della stessa Congregazione ripercorre le indicazioni offerte in materia dai papi – a partire da Pio XII – e dallo stesso dicastero. In esse, in particolare, si rileva come “i pazienti in ‘stato vegetativo’ respirano spontaneamente, digeriscono naturalmente gli alimenti, svolgono altre funzioni metaboliche, e si trovano in una situazione stabile. Non riescono, però, ad alimentarsi da soli. Se non vengono loro somministrati artificialmente il cibo e i liquidi muoiono, e la causa della loro morte non è una malattia o lo “stato vegetativo”, ma unicamente l’inanizione e la disidratazione. D’altra parte la somministrazione artificiale di acqua e cibo generalmente non impone un onere pesante né al paziente né ai parenti. Non comporta costi eccessivi, è alla portata di qualsiasi sistema sanitario di tipo medio, non richiede di per sé il ricovero, ed è proporzionata a raggiungere il suo scopo: impedire che il paziente muoia a causa dell’inanizione e della disidratazione. Non è né intende essere una terapia risolutiva, ma una cura ordinaria per la conservazione della vita”.

Nell’affermare che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione della dottrina della fede “non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur, sussistendo però l’obbligo di offrire le cure minimali disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali. Questi casi eccezionali nulla tolgono però al criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo ‘stato vegetativo’ si prolunghi”.

giovedì 13 settembre 2007

Embrioni, chimere e fandonie.

Riprendo il commento di Assuntina Morresi dal sito www.stranau.it sulla vicenda degli embrioni chimera.
Qualcuno apra gli occhi a questo mondo impazzito.
I neretti sono nostri, se permettete.

Ciao a tutti,

quella passata è stata la settimana delle chimere, nel senso di embrione misto uomo/animale. Il loro nome esatto è "embrione ibrido citoplasmatico", chimera è il nome con cui i giornali hanno chiamato questa nuova entità. Il cinque settembre è stato annunciato il via libera dall'Hfea (l'Autorità britannica che regola la fecondazione in vitro e la ricerca sugli embrioni) alla loro creazione.

Si dovrebbero fare utilizzando un ovocita di mucca a cui è stato sostituito il Dna animale con quello umano. Ma nell'ovocita modificato rimane un po' di Dna animale - in organelli chiamati mitocondri - e quindi il patrimonio genetico finale è misto.
E' una clonazione con ovocita animale, e siccome la clonazione è vietata secondo la legge 40, in Italia questa roba è vietata, nonostante quello che si legge in giro.

L'esperimento non funzionerà: la clonazione non ha mai funzionato per la specie umana, funziona malissimo per gli animali, figuriamoci se si mischiano pure i Dna. Ma nel frattempo tanti soldi saranno buttati in fumo, tante illusioni date ai malati - che non si cureranno certo con cellule miste uomo/animale - e soprattutto nella mentalità comune si sta sdoganando qualsiasi cosa, facendola passare come progresso scientifico.
Si, perchè se il criterio è: "se ci viene in mente qualcosa da fare, proviamo, per vedere quel che succede", bene, sappiate che questa NON è scienza, ma roba da paese dei balocchi. In campo scientifico NON si fanno tutti gli esperimenti che vengono in mente, ma quelli che hanno ragionevoli possibilità di riuscita, quelli fattibili.
Questo degli embrioni interspecie, non lo è.

giovedì 6 settembre 2007

Il San Francesco recensito da Papa Montini.




Vi presentiamo una recensione del libro di Chesterton da parte di don Giovanni Battista Montini, divenuto poi Papa Paolo VI.
E' la biografia di San Francesco d'Assisi, scritta nel 1923, un anno dopo la conversione di Gilbert.
Paolo VI lesse non la versione originale ma la traduzione francese dell’opera di Chesterton.
La recensione è apparsa sulla rivista Studium, vol. 22 (1926), n. 10 (ottobre), pp. 543-546 e la si può trovare nel volume Scritti Fucini (1925-1933), curato di Massimo Marcocchi e pubblicato nel 2005 dalle Edizioni Studium di Roma e dall’Istituto Paolo VI di Brescia.
La segnalazione è del preziosissimo chestertoniano iropartenopeo Angelo Bottone (http://bottone.blogspot.com) che ringrazio ancora una volta pubblicamente.
Angelo Bottone è la persona che ci ha reso nota la recensione di Papa Montini all'Ortodossia di Chesterton e che trovate su questo blog.
Vorremmo sempre questa partecipazione al blog.

Saint François d’Assisi di Gilbert K. Chesterton, Paris, Plon, traduzione dall’inglese di Isabelle Riviére.

Chesterton è un nome che sta per divenire celebre anche fra noi: fra poco sarà uno degli scrittori che caratterizzano il gusto e il pensiero del nostro ambiente. Il suo nome è fra i più noti della recente letteratura inglese; inglese è la maniera assolutamente semplice di trattare gli argomenti che sembrerebbero capaci a (….) [è caduta una riga nell’originale. Nota del curatore] tedeschi di stancare le più consumate competenze: inglese l’umorismo che condisce d’un fine sapore dialettico e talvolta polemico la narrazione. Ma noto è soprattutto il Chesterton perché tra i convertiti al cattolicismo la sua evoluzione spirituale è singolarissima e tipica insieme; nulla di più moderno della sua educazione spirituale, agnostica e artistica, filiazione dell’epoca positivistica che aveva spinto il suo disinteresse per i problemi massimi dello spiriti fino a farne un vezzo d’aristocratica eleganza di pensiero, e che forse per questo stesso atteggiamento ricercato aveva lasciato rivedere in sé l’avidità della forma estetica dell’arte, della bellezza, e s’era rifugiata, uscendo dal tempio del vero, ai piedi dei simulacri del bello; Chesterton si dice greco ed arcadico. Ma insieme nulla di più antico, di più tradizionale del contenuto delle sue riconquiste religiose. In un libro che sarà presto dato alle stampe in lingua italiana, Orthodoxy, Chesterton narra la sua conversione, avvenuta nel 1900 circa, quando aveva venticinqu’anni: libro il cui fascino è tutto costituito da un unico motivo, umoristico ed ironico all’apparenza, apologetico e drammatico in realtà, la scoperta, cioè, dell’antica sapienza come espressione ultima dei desideri nuovi. Egli si paragona ad uno che navigando perde la bussola e crede, sbarcando, d’aver scoperto un continente nuovo e vi pianta la bandiera come terra di conquista ed esplorazione; è sbarcato là donde era partito!
"Ho cercato, come tanti piccoli ragazzi solenni, di precedere la mia epoca ma ho trovato che ero di diciannove secoli indietro … Ho cercato un’eresia di mia invenzione ed ho scoperto l’ortodossia. Ho cercato nei clubs anarchici e nei templi di Babilonia ciò che avrei potuto trovare nella parrocchia più vicina."
Con questo criterio di scoprire il nuovo nel vecchio, la fecondità perenne della vita nell’immobilità della fede, l’Autore si pone il caso concreto della modernità del santo più paradossale, più assurdo che un inglese moderno possa immaginare.
Infatti dalle prime pagine del libro Chesterton chiarisce il proprio punto di vista e il proprio scopo. Egli non narra, spiega: non documenta, riflette: non analizza, riassume. In che modo? Gustosissima la risposta, che serve d’introduzione all’opera; parlare d’un santo come d’un uomo, cioè senza parlare di Dio? no: sarebbe come parlare d’un esploratore polare tacendo del polo. Parlare di lui non vedendo chiaro che là dov’è oscuro, cioè spiegarne la vita del santo mediante i misteri soprannaturali? ci vorrebbe un santo allora per scrivere la vita d’un santo. No. Egli tenterà di mettersi nei panni d’un curioso benevolo, d’un profano "moderno ed ordinario", e, così, con occhi, esterrefatti ma sinceri, guardare e capire. Chesterton, cioè cerca di realizzare al massimo grado la congiunzione del lettore moderno con l’autentico S. Francesco, di stabilire quindi, all’infuori dei modi convenzionali, sia storici che artistici, sia pietistici che avversi, un contatto tra il pubblico inglese e il personaggio che sembra più estraneo alle tendenze, ai pensieri, ai gusti di quello. Il contrasto sarà contatto: sarà maniera originale per rompere lame contro i pseudo-dogmi del libero pensiero avvilito nella schiavitù dei pregiudizi del secolo: sarà arte per ravvivare il fantasma storico in un’avvincente figura immortale.
Louis Gillet commenta così questa tattica dell’autore: "Egli non racconta: sopprime una folla d’aneddoti; la sua preoccupazione è di spiegare le cose e di render sensibile un certo ordine di fatti morali. Lo si sente sempre in presenza d’uno di quei gravi pubblici inglesi, d’uno di quei gruppi d’operai, d’impiegati, di londinesi purosangue che si radunano attenti, il sabato, all’angolo di una via, attorno d’un predicatore all’aria libera, come di formano da noi attorno ad una canzone. Occorre per farvi intender da loro un linguaggio speciale, ricondurre ciò che ignorano a delle cose ch’essi conoscono, parlar loro del comune di Assisi come se si trattasse di Clapham o di Putney. Bisogna prendere un tono ch’essi comprendono, talvolta commosso, sempre chiarissimo, uno svolgimento concreto, ardito e qualchevolta burlesco. Tutto è vinto, se l’oratore ha potuto provocare nell’uditorio questa smorfia di allegria che apre e rischiara i visi oscuri, come un barlume d’intelligenza. Di là lo stile particolare di Chesterton, le sue digressioni … la sua mescolanza di toni, i suoi ghiribizzi, i suoi scatti, i violenti partiti presi, le semplificazioni estreme del soggetto, i salti e le giravolte del racconto, e quella eloquenza o sorpresa che va dalla poesia e dal lirismo alle trivialità del popolino>.
Non si potrebbe esprimere meglio la stilistica di questo libro. Ma non è per essa che il libro è degno di segnalazione; la letteratura francescana moderna se ha un difetto, un noioso difetto, è proprio per le sue sdolcinate affettazioni stilistiche, e, con un isterismo personalistico e imperdonabilmente convenzionale, cerca indarno la maestria dell’arte e i carismi della mistica. Il libro è notevole per quello che dice, per quello che, pur non dicendo, fa pensare e scoprire. Raramente la potenza espressiva dell’autore fonde arte e pensiero in passi sublimi, ma sono sublimi davvero (alla fine dei capitoli II-VIII-IX e X). Di solito invece il pensiero prevale, e si può dire che tutte le risorse della volubile espressione son messe in gioco per far risaltare quello.
Perciò si può riassumere in alcuni concetti fondamentali il modo con cui Chesterton considera realisticamente S. Francesco.
S. Francesco è un poeta, non solo nel senso che sente e canta la poesia, ma soprattutto che vive poeticamente (pp. 77, 94, 139, 142, 159, 232). La poesia è espressione immediata dell’intuizione del reale, a differenza della prosa che è discorsiva e analitica. Vivere poeticamente significa avere per molla motrice non tanto la riflessione quanto la rapida spinta dell’amore. S. Francesco è quindi un amante, nel vero senso, nel più alto senso della parola (p. 11).
Donde la temeraria immediatezza nel dare, nel fare, nel fidarsi, nel mettersi nelle condizioni più assurde: donde quella sua celerità impetuosa che sembra non avergli mai concesso di separare un pensiero dalla sua pronta esecuzione; quella coerenza completa fino alla riproduzione letterale ed integrale del principio con cui sostanziava ogni suo gesto, ogni suo atto (pp. 55, 121, 172, 186, 194).
Donde ancora la sfida a tutte le compassate e opprimenti leggi del senso comune, e la creazione continua d’un’originalità individualissima, che sembra ed è follia; che affronta tutte le stravaganze con la semplicità di chi non ambisce d’esser veduto e di chi tollera con letizia invincibile d’esser avvilito dal pubblico disprezzo in un annientamento tale da oltrepassare i limiti della distruzione morale d’uomo e convertirsi piano piano in altrettanta stupita ed entusiastica ammirazione (pp. 88, 100, 103, 104, 117, 156, 182).
Perciò Francesco è un novatore; profittando della completa vittoria sulla natura, o meglio sul naturalismo che sconsacra e quindi deprava la natura, egli riannoda, dopo secoli di lotta, di penitenze, di ascetiche e talvolta manichee macerazioni, vincoli di pace con la creazione; ad essa ormai è pervenuta, attraverso la coscienza dell’uomo fatto cristiano, la buona novella della redenzione che solleva, non nemica, ma sorella, dell’uomo: dell’uomo che ha rinunciato a trovarsi alcun fine degno di sé, ma che ormai non potendola più vedere ed amare se non in Dio e per Dio, la trova divinamente bella, la possiede senz’esserne posseduto, la gode senz’esserne contaminato (pp. 29, 78, 125, 133).
V’è chi ha criticato quest’ultima affermazione, che cioè l’avvento francescano segni la fine d’una secolare quaresima, ed inauguri un periodo di onesto godimento: ché tutta l’ascetica francescana è imperniata sulla penitenza, e le correnti storiche del francescanesimo si nutriranno e si distingueranno appunto per il minore o maggiore spirito di rinuncia e di sacrificio che le muove.
Con questo non si può però dire che all’Autore sfugga il carattere penitenziale di S. Francesco. Egli vi consacra un altro concetto fondamentale del suo lavoro. S. Francesco è colui che conduce lo spirito cristiano dall’adorazione di Cristo all’imitazione di Cristo; che pratica la povertà come arte della liberazione, che vi insiste fin quasi a sospendere la sua dolcezza inseparabile; che cerca con avidità di essere espulso dal mondo in cui vive, che tenta indarno d’incontrare il martirio; che mette tanta audacia nell’abbracciare il dolore da trasformare l’ascetica in mistica, la penitenza in letizia, la pena in diletto; che finalmente raggiunge nell’estasi della passione la perfetta somiglianza con Gesù crocifisso (pp. 82, 150, 152, 154, 175, 193, 199).
Da queste idee sommarie scaturiscono altre vigorose e profonde concezioni sulla personalità interiore del Santo. Capitale quella della dipendenza, cioè della sospensione di tutte le cose in Dio, che dà ragione dell’onnipresenza divina nel mondo francescano, e della bontà originale delle cose; dell’umiltà correlativa alla grandezza e alla bassezza di tutto ciò ch’è creato; della cieca fiducia che i figli devono avere nella paterna provvidenza divina; del misticismo infantile ed ottimistico che della fiducia in questa provvidenza si imbeve e si inebbria (pp. 106, 113, 128, 190). Bellissima quell’altra concezione della trasformazione dell’uomo giusto "per la quale colui per cui tutto ciò che esiste illustra e illumina Dio, diviene colui per cui Dio illustra e illumina tutto ciò che esiste> (p. 109). Ma di questi pensieri tutto il libro è fiorito, e benché piccolo di mole sembra tanto più prezioso dei grossi volumi che i servitori dell’erudizioni e i manipolatori della tradizione francescana suntuosamente prodigano per incantare il pubblico.
Tale ristrettezza di trattazione scusa le lacune del libro e prima di tutte quella narrazione ordinata della vita del Santo, come sopra dicemmo; ciò non toglie, a nostro avviso, che a torto, per esempio si rimproveri dal Gillet la mancata visione del movimento sociale che fa capo a S. Francesco (Revue des deux Mondes – I novembre 1925). Chesterton illustra il senso sociale che S. Francesco ebbe della religione: la sua pratica reale del concetto d’uguaglianza tra gli uomini; il suo spontaneo rispetto, incapace di rivoluzione e svalutatore d’ogni militarismo fosse pure quello crociato, ad ogni sorta di uomini, il carattere economico e giuridico del suo nuovo ordine, donde procederà la riforma ecclesiastica e sociale del medioevo (pp. 38, 57, 142, 145, 241).
Ma tutto questo ci conduce a fare un’osservazione su quest’opera, che pur non priva di difetti, ci sembra molto pregevole. Se cioè essa veramente come l’Autore la definisce, sia un’introduzione alla vita di S. Francesco o piuttosto una conclusione esplicativa e sintetica insieme. Essa infatti per il suo andamento intellettualistico, si serve di troppe allusioni ai fatti e ai personaggi della biografia del Santo per essere capita da chi già non conosca, per studio di buone fonti, la biografia stessa. Essa insomma presuppone una conoscenza della vita di S. Francesco per essere gustata e per gustare tutto il materiale prima esaminato.
È infatti, secondo il nostro modesto parere, una di quelle di prefazioni che si debbono leggere dopo la lettura del libro.
Per questo ci sembra che a quanti avvertono sintomi di sazietà per tutte le cose e le fiere che ci ha procurato il centenario francescano, questo libro sia consigliabile per far loro amare ancora il povero S. Francesco.

g. b. m.

mercoledì 5 settembre 2007

Preti irlandesi, ora le scuse.

L'ho visto sul blog dell'amico iropartenopeo Angelo Bottone http://btblog.blogspot.com e ve lo rilancio.
Cari compagni, massoni, anticlericali, gay...
Cari giustizialisti...

C'è chi ha citato in questi giorni l'Irlanda come esempio di Paese europeo che ha affrontato il problema degli abusi sessuali commessi da sacerdoti o religiosi. Un'occhiata a quello che è successo nell'Isola di smeraldo, dopo che l'orgia di accuse durata una decina d'anni si va ormai placando, può effettivamente insegnare qualcosa.
Il 7 giugno scorso, Paul Anderson, 34 anni, è stato condannato a quattro anni di carcere per avere accusato Padre X, un sacerdote dell'arcidiocesi di Dublino rimasto anonimo, di aver abusato sessualmente di lui 25 anni fa, durante la preparazione alla prima comunione. Il giudice Patricia Ryan ha spiegato nella lettura della sentenza come Anderson, personaggio segnato da tossicodipendenza, tendenze suicide e debiti personali, avesse costruito racconti infamanti contro Padre X per un fine molto semplice: estorcere quattrini alla Chiesa. «Avrei preferito che mi sparassero in testa, piuttosto che costringere me e la mia famiglia a vivere le sofferenze che abbiamo vissuto», ha detto Padre X, in una testimonianza finale davanti alla corte. Il sacerdote non ha risparmiato parole taglienti nei confronti dell'Arcidiocesi, che in nome di una malintesa "tolleranza zero" l'aveva costretto ad abbadonare immediatamente qualsiasi attività pastorale, senza aspettare gli accertamenti giudiziari, costringendolo a quattro anni di isolamento gravati dalla vergogna e dal pubblico sospetto: «una reazione da Baia di Guantanamo». Ha voluto ringraziare solamente alcuni agenti di polizia, che con le loro indagini accurate hanno smontato una a una le accuse - «mi hanno restituito la vita» - , ha parlato di una sua maggiore comprensione della Passione di Gesù Cristo, primo sacerdote a essere condannato fra gli sputi e gli oltraggi della folla, e, perdonando Anderson, ha chiesto per lui un gesto di clemenza.
La storia è parsa talmente eclatante che anche la "grande" stampa dal piglio anticlericale, Irish Times in testa, non ha potuto non dare il debito spazio alla vicenda e chiedersi se qualcuno non si sia lasciato prendere la mano sulla questione dei "preti pedofili". Joe Duffy, popolare conduttore della nazionale RTE Radio 1 e giornalista solitamente acido nei confronti della Chiesa, il 28 giugno ha dedicato un'ora e un quarto di trasmissione alle storie di religiosi falsamente accusati di abusi sessuali, distrutti nell'onore e poi discolpati nell'indifferenza generale. Con una serie di testimonianze strazianti.
A finire nel mirino degli intervenuti in trasmissione, come giorni prima nelle riflessioni amare di alcuni giornali, è stata anche One in Four, l'associazione a sostegno alle vittime di abusi sessuali fondata e diretta da Colm O'Gorman, il militante omosessuale ed esponente politico dei Progressive Democrats, noto anche in Italia per aver partecipato alla puntata di Annozero, Rai 2, su Chiesa e pedofilia. One in Four, che già in passato era stata accusata da più parti di alimentare la caccia alle streghe, negando il problema enorme delle false accuse e delle speculazioni ai danni della Chiesa, è stata colei che aveva assistito e sostenuto lo stesso Anderson nel suo sporgere denuncia. L'episodio non ha certo giovato alla già scarsa popolarità di O'Gorman, il quale, bocciato alle elezioni di aprile per la Camera dei deputati, non è stato confermato a luglio dal Primo ministro Bertie Ahern nella carica di senatore (carica che in Irlanda è, appunto, di nomina governativa).
Nel frattempo un'altra notizia è passata un po' più in sordina. Pochi giorni dopo la sentenza contro Anderson, le tre persone che avevano intentato una causa civile contro padre John Kinsella, uno dei sacerdoti finiti nel tritacarne dello scandalo della diocesi di Ferns - scandalo fatto scoppiare sempre da Colm O'Gorman e al centro del documentario della BBC proiettato nella puntata di Annozero - hanno pensato bene di ritirare le loro denunce. Anche Padre Kinsella si era proclamato fin dall'inizio totalmente innocente.
C'è, poi, un caso ancora più recente. Il 19 luglio, a Galway, Petre Zsiga, rumeno, è stato condannato a quattro anni di carcere per estorsione, mentre la moglie irlandese ha ottenuto una sospensione della pena. Costei, entrata in contatto con padre Brendan Lawless, parroco di Portumna, era riuscita a farsi mostrare la canonica e a filmare di nascosto il sacerdote che le mostrava l'abitazione, tra cui la camera da letto. Dopo aver offerto prestazioni sessuali a padre Lawless, debitamente respinte, gli aveva chiesto 14.500 euro, sotto la minaccia di dare alla stampa sia una parte del video che un racconto di molestie sessuali. Il prete, atterrito, aveva pagato. Ma la donna era tornata alla carica sei mesi dopo. Da lì la denuncia, l'arresto dei due, marito e moglie, il processo e la condanna.
Queste storie degli ultimi due mesi rendono l'idea di come un certo clima in Irlanda stia cambiando. Dopo più di dieci anni di accuse contro sacerdoti, religiosi, suore ecc., il fenomeno comincia a essere visto anche dall'opinione publica nella sua dimensione autentica. Che non è quella di un clero sempre senza macchie e attaccato da una legione di assoluti falsari. È piuttosto quella di un cortocircuito generatosi nel tempo, dove casi relativamente poco numerosi di abusi commessi da uomini di Chiesa sono stati enfatizzati e alla fine strumentalizzati per una campagna di denigrazione contro la Chiesa stessa. Campagna che ha dato la stura a ogni tipo di speculazione, falsità, vendetta anche per futili motivi.
Nel 2002 il Governo irlandese, sotto la pressione di una campagna mediatica martellante, ha dato vita al Residential Institutions Redress Board, una commissione incaricata di offrire un risarcimento a tutti coloro che avessero subito abusi in una serie di scuole statali appaltate a ordini religiosi ed entrate nell'occhio del ciclone. In pratica le cosiddette industrial schools e altri istituti simili che avevano ospitato, dalla fine dell'800 agli anni '70, orfani e figli di famiglie disastrate. Nessuna seria prova era richiesta (era, perché la possibilità di fare appello è terminata nel 2005), bastava una testimonianza verosimile. Il risultato non era difficile da prevedere.
Circa 14mila sono le denunce arrivate, di cui solo lo 0,4% è stato respinto. Lo Stato, che deve ancora finire di pagare tutti, si calcola che alla fine avrà di gran lunga superato il miliardo di euro negli esborsi. Immancabili gli "inciuci" del sistema. Pochi giorni fa è nata una polemica quando si è saputo che il Redress Board ha versato 83,5 milioni di euro agli studi legali che avevano assistito i denuncianti, alcuni dei quali messisi dal 2002 in cerca di ex alunni delle industrial schools finiti anche in Nuova Zelanda, Canada o Stati Uniti, per far conoscere loro l'interessante proposta statale.
Nel mentre un ordine tra i più meritori nella storia dell'Irlanda moderna, la Congregazione dei Fratelli Cristiani, a cui furono affidate molte delle scuole infamate, ha visto il 90% dei suoi membri toccati da almeno un'accusa di abusi sessuali. Religiosi, spesso molto anziani, che dopo una vita di generosità e di servizio hanno incontrato la vergogna più atroce. Un destino che non è stato riservato solo ai "soldati semplici": dal 1994 a oggi sei vescovi (per avere una proporzione, in Irlanda le diocesi sono 26) hanno visto il proprio nome infangato con storie di abusi sessuali poi finite in una bolla di sapone.
«Non ci stancheremo di lottare contro queste ingiustizie» dice oggi Florence Horsman Hogan, fondatrice di Let Our Voice Emerge, una delle associazioni che si sono battute contro l'isteria collettiva ai danni della Chiesa Cattolica. Florence, un'infermiera protestante, figlia di una madre schizofrenica e di un padre alcolizzato, è stata cresciuta in una delle industrial schools dirette dalle Sisters of Mercy. Non ha mai dimenticato la carità cristiana che gli ha permesso di farsi una vita, e nel 2002 ha deciso di offrirsi come portavoce delle vittime innocenti di false accuse, soprattutto sacerdoti e suore. A spingerla a nell'arena pubblica è stato però un altro motivo: il racconto di vere vittime di abusi, che si sono sentite strumentalizzate e oltraggiate nel trovarsi a fianco un esercito di truffatori, piccoli balordi e anticlericali ossessivi.

Andrea Galli

Avvenire 12/08/2007