Intervista ad Antonio Socci su IlSussidiario.net
Non un’occasione di scontro ideologico, ma un fatto che fa emergere, nella sua essenzialità insondabile, tutto il «mistero che noi siamo»: questa, per il giornalista e scrittore Antonio Socci, è la vera portata di tutta la vicenda di Eluana Englaro. Una situazione resa ancor più grande e significativa dalla testimonianza silenziosa di chi da quattordici anni si occupa di una persona che, nonostante tutto, continua a vivere.
Socci, sul caso Eluana si sono fatte tante dispute, anche ideologiche. Ma c’è un fattore, in tutta questa vicenda, che supera le discussioni: la testimonianza delle suore di Lecco che la accudiscono. Che importanza ha secondo lei questo fattore?
Tutto il dibattito è stato in qualche modo falsato dal fatto di non essere stati per lungo tempo a conoscenza di questo aspetto. L’abbiamo scoperto solo qualche mese fa, quando le suore di Lecco con estrema discrezione sono uscite dal silenzio dopo quattordici anni, e, senza pretendere nulla, hanno semplicemente espresso il loro invito: «lasciate Eluana a noi». Inoltre, se ben ricordo, lo stesso padre, Beppino Englaro, chiese quattordici anni fa di poter portare Eluana in questa clinica, perché lì lei era nata; le suore inizialmente furono un po’ interdette dalla richiesta, perché non si occupavano di questo tipo di casi. Preso atto che si trattava fondamentalmente di accudirla e di nutrirla, la presero in casa loro come una loro figlia.
Possiamo dire che, in un momento in cui la Chiesa viene spessa dipinta come una realtà che giudica dall’alto, queste suore ci dimostrano che la situazione è un po’ diversa?
Certo: quando si parla del peso e dell’insostenibilità di situazioni di questo genere bisogna ricordarsi che la Chiesa non si limita a indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma quella stessa Chiesa, a immagine di Cristo, prende su di sé il peso e il dolore di queste situazioni. Qui abbiamo una famiglia che vive tutto il suo dramma e il suo dolore, ma che al tempo stesso non è sola in questa tragedia. Mi pare che sia una cosa eccezionale: al di là delle dispute filosofiche o accademiche, il vero miracolo, la cosa veramente grandiosa con cui tutti dovremmo fare i conti è che nel mondo c’è una presenza misericordiosa, fatta di persone in carne ed ossa, che con umiltà e semplicità, nel silenzio, senza che nessuno le gratifichi, si fanno carico dei nostri figli amandoli come padri e come madri. E questa presenza è la Chiesa. Nello sguardo di quelle persone c’è lo sguardo con cui Gesù guarda gli uomini, guarda noi, attribuendo a noi un valore assoluto, infinito, a prescindere dalle condizioni in cui siamo e dalle nostre capacità. Questo è il grande miracolo presente in tutta questa vicenda.
Qual è per lei la positività di un’esistenza come quella di Eluana?
C’è innanzitutto una questione oggettiva: quel bene che è la vita di Eluana è identico al bene della vita di ciascuno di noi. C’è un’oggettività posta dal fatto stesso che una persona esiste. Poi per natura, come esseri umani, tendiamo a vivere come un grande sacrificio le contraddizioni in cui viviamo, le sofferenze e le prove della vita: questo è parte della nostra fatica di vivere. La possibilità di intravedere e sperimentare la positività del sacrificio avviene in natura attraverso l’esperienza dell’amore, per cui una madre o un padre, anche solo avendo dei figli, accettano la fatica di alzarsi di notte e di fare cose che prima non immaginerebbero; ma più globalmente è l’Amore, quello con la “a” maiuscola, cioè la presenza di Cristo e della Chiesa, che per grazia dà uno sguardo e un cuore che permettono di vivere come vivono i santi, per i quali anche la contraddizione massima, come il martirio o la malattia, possono essere un dono. Qua però si entra in una dimensione vertiginosa, che ha a che fare con la grazia. La stessa grazia che trasforma l’acqua in vino.
Quindi, anche di fronte alla condizione di Beppino Englaro, possiamo dire che risulta in un certo modo comprensibile il fatto di essere sopraffatti da una tale situazione di dolore?
Io capisco benissimo la sofferenza delle persone che si trovano in questa prova. Se penso a me stesso, mi sento assolutamente inerme, e sarei debolissimo di fronte alla prova di sofferenze di questo genere. Umanamente è comprensibilissimo lo smarrimento, l’angoscia, il dolore, il senso di schiacciamento che si prova. E questa è la nostra comune esperienza umana di fronte al dolore, soprattutto quando si tratta di un figlio. Siamo annichiliti. Ma in tutto questo bisogna ritornare al punto iniziale: pensare al volto di quelle suore, le tenebre nostre sono rischiarate da un lampo che fa impressione e che commuove. Il fatto che esista un amore gratuito che trasforma il dolore in una tale grandezza umana fa quanto meno desiderare che questa cosa prenda anche noi.
Qual è l’interrogativo ultimo che pone a tutti noi una situazione come quella di Eluana?
Dal punto di vista del fatto in sé la vicenda di Eluana ci interroga sul mistero che noi siamo, soprattutto in merito al fatto che la medicina tuttora non sia capace di decifrare questa strana condizione in cui l’uomo può cadere. Proprio in questi giorni, tra l’altro, si è parlato dell’impossibilità di stabilire il fatto che una certa condizione, come il coma o lo stato vegetativo, sia permanente e irreversibile. Questo ci deve far riflettere seriamente sul mistero che siamo, sul fatto che veramente noi non siamo riconducibili alle nostre cellule cerebrali e alla nostra condizione biologica: c’è un livello della coscienza che sfugge alla dimensione chimica e biologica del nostro corpo.
Un’ultima domanda: qual è la mancanza, il difetto di una società che non accetta un’esistenza come quella di Eluana?
Il fatto che è una società pagana. Il documento diffuso da Comunione e Liberazione sul caso di Eluana dice proprio: «che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?». È la società pagana, la società che non ha conosciuto Cristo. E anche una società in cui non è abituale fare i conti con la condizione umana vera. Dopo la strage di Nassirya don Giussani disse che «ci vorrebbe un’educazione del popolo». Quello che è auspicabile è proprio il fatto di poter godere di un’educazione capace di farci capire che cosa vale e che cosa no, per cosa vale la pena vivere e cosa ha veramente valore. Questo è il punto di positività da cui ripartire.