Il dibattito sul doloroso caso di Eluana Englaro ha dimenticato, forse, due aspetti giuridici non del tutto marginali.
Il primo attiene all’asserita volontà di lasciarsi morire. A prescindere dalla considerazione che altro è parlare, salottieramente, di che cosa si vorrebbe fare in simili circostanze, quando si sta bene e si fantastica solo un’evenienza ipotetica, altro è parlare di vita o di morte nell’imminenza di decisioni fondamentali ed irreversibili, rimane pur sempre il nodo giuridico centrale della volontà di lasciarsi morire. Sembra infatti davvero strano che a fronte di un diritto indisponibile com’è quello alla vita, come tale non esercita bile tramite rappresentanti, fossero anche i più prossimi congiunti, non si richieda una volontà libera, consapevole, attuale da parte del suo titolare. Per atti giuridici di assai minore rilevanza, come banali contratti, l’ordinamento richiede una manifestazione di volontà che abbia tali requisiti, pena la invalidità di quanto si compie. Ora sembra sfidare eccessivamente la logica ritenere che essi ricorrano nel nostro caso.
Ma c’è un elemento in più da considerare. Dato e non concesso che la povera Eluana abbia davvero, sedici o più anni fa, manifestato una volontà libera, consapevole, responsabile, di interrompere non le terapie, ma la stessa alimentazione ed idratazione, rimane un nodo irrisolto: tale volontà è ancora attuale? La giurisprudenza, in particolare la Cassazione, si è in passato e più volte pronunciata a difesa dello jus poenitendi, del diritto di pentirsi delle proprie scelte ideologiche, politiche o religiose, così come delle proprie scelte di vita. Un diritto, questo, considerato come fondamentale, in quanto espressione della fondamentale libertà propria di ogni essere umano. Ma come garantire, qui ed ora, ad Eluana il diritto di pentirsi delle (asserite) scel te di allora? Perché negare proprio a lei questo diritto fondamentale? E perché negarglielo proprio nel momento in cui massima è la sua con dizione di debolezza e di dipendenza? Perché soprattutto negarglielo proprio sul terreno del diritto alla vita, il più fondamentale di ogni diritto, il presupposto degli altri diritti fondamentali, il cui esercizio può essere caratterizzato dalla irreversibilità?
In secondo luogo, si è fondato il diritto di autodeterminazione a lasciarsi morire sull’articolo 32 della Costituzione. Il riferimento è erroneo, perché questa disposizione riguarda il rifiuto di trattamenti sanitari, mentre nel nostro caso si è davanti al rifiuto dell’alimentazione ed idratazione, che propriamente terapie non sono. Ci si dovrebbe semmai riferire all’articolo 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili della persona e, quindi, quella sua radicale libertà che può anche indurre alla scelta – pur eticamente riprovevole – del lasciarsi morire. Ma se si vuole richiamare l’articolo 2 della Costituzione, lo si deve fare per intero; e questo articolo, nella seconda parte, richiede a tutti i consociati l’adempimento dei doveri – che con forza sono qualificati come 'inderogabili' – di solidarietà.
Non è che nel caso di Eluana si rischia di violare questa disposizione costituzionale? Che proprio nel caso di una persona estremamente debole, indifesa, dipendente da noi, veniamo meno ad uno dei valori su cui abbiamo convenuto, tra le di versità culturali che pur connotano la nostra società pluralista, di fon dare la comune convivenza?
Il primo attiene all’asserita volontà di lasciarsi morire. A prescindere dalla considerazione che altro è parlare, salottieramente, di che cosa si vorrebbe fare in simili circostanze, quando si sta bene e si fantastica solo un’evenienza ipotetica, altro è parlare di vita o di morte nell’imminenza di decisioni fondamentali ed irreversibili, rimane pur sempre il nodo giuridico centrale della volontà di lasciarsi morire. Sembra infatti davvero strano che a fronte di un diritto indisponibile com’è quello alla vita, come tale non esercita bile tramite rappresentanti, fossero anche i più prossimi congiunti, non si richieda una volontà libera, consapevole, attuale da parte del suo titolare. Per atti giuridici di assai minore rilevanza, come banali contratti, l’ordinamento richiede una manifestazione di volontà che abbia tali requisiti, pena la invalidità di quanto si compie. Ora sembra sfidare eccessivamente la logica ritenere che essi ricorrano nel nostro caso.
Ma c’è un elemento in più da considerare. Dato e non concesso che la povera Eluana abbia davvero, sedici o più anni fa, manifestato una volontà libera, consapevole, responsabile, di interrompere non le terapie, ma la stessa alimentazione ed idratazione, rimane un nodo irrisolto: tale volontà è ancora attuale? La giurisprudenza, in particolare la Cassazione, si è in passato e più volte pronunciata a difesa dello jus poenitendi, del diritto di pentirsi delle proprie scelte ideologiche, politiche o religiose, così come delle proprie scelte di vita. Un diritto, questo, considerato come fondamentale, in quanto espressione della fondamentale libertà propria di ogni essere umano. Ma come garantire, qui ed ora, ad Eluana il diritto di pentirsi delle (asserite) scel te di allora? Perché negare proprio a lei questo diritto fondamentale? E perché negarglielo proprio nel momento in cui massima è la sua con dizione di debolezza e di dipendenza? Perché soprattutto negarglielo proprio sul terreno del diritto alla vita, il più fondamentale di ogni diritto, il presupposto degli altri diritti fondamentali, il cui esercizio può essere caratterizzato dalla irreversibilità?
In secondo luogo, si è fondato il diritto di autodeterminazione a lasciarsi morire sull’articolo 32 della Costituzione. Il riferimento è erroneo, perché questa disposizione riguarda il rifiuto di trattamenti sanitari, mentre nel nostro caso si è davanti al rifiuto dell’alimentazione ed idratazione, che propriamente terapie non sono. Ci si dovrebbe semmai riferire all’articolo 2 della Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili della persona e, quindi, quella sua radicale libertà che può anche indurre alla scelta – pur eticamente riprovevole – del lasciarsi morire. Ma se si vuole richiamare l’articolo 2 della Costituzione, lo si deve fare per intero; e questo articolo, nella seconda parte, richiede a tutti i consociati l’adempimento dei doveri – che con forza sono qualificati come 'inderogabili' – di solidarietà.
Non è che nel caso di Eluana si rischia di violare questa disposizione costituzionale? Che proprio nel caso di una persona estremamente debole, indifesa, dipendente da noi, veniamo meno ad uno dei valori su cui abbiamo convenuto, tra le di versità culturali che pur connotano la nostra società pluralista, di fon dare la comune convivenza?
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