Da IlSussidiario.net
«E’ sbagliato parlare ancora di stato vegetativo: lo stato vegetativo non esiste, e quando si usa questa espressione, anche se sono scienziati a farlo, si crea solo confusione. Induciamo la gente a pensare che si tratti di persone non più vive. Invece mia figlia è viva, è come me». Cesare Lia, avvocato pugliese, è nella stessa condizione di Peppino Englaro: una figlia, Emanuela, che in seguito a un incidente stradale si trova da quasi sedici anni nella medesime condizioni di disabilità di Eluana. Ma la battaglia, sua e di tutta la sua famiglia, per affermare la vita di Emanuela lo ha portato ad ottenere risultati che definire sorprendenti è poco.
Avvocato, in che condizioni è sua figlia?
Mia figlia Emanuela innanzitutto è una persona viva, che riesce a comunicare con il mondo esterno. Certo, lo fa in modo diverso da quello che utilizziamo noi che non siamo disabili, in un modo che è difficile da intendere: cenni, piccoli gesti, movimenti degli occhi. Ma le persone che le sono vicine, che la seguono ogni giorno capiscono benissimo cosa lei dice, cosa vuole comunicare.
Ci racconti la sua storia: che cosa è accaduto a Emanuela?
Tutta questa dolorosa vicenda ha avuto inizio la notte del 31 dicembre del 1992, quasi contemporaneamente all’inizio della vicenda di Eluana Englaro. Emanuela quella notte ha avuto un gravissimo incidente stradale, che le ha provocato gravi lesioni. È stata in rianimazione a Lecce, per quattro mesi. Dopo di che abbiamo deciso di portarla ad Innsbruk. Lì, dopo averla curata, i medici ci hanno dato un responso gravissimo che non lasciava alcuna speranza: Emanuela sarebbe morta dopo pochi mesi.
Perché?
Anch’io rimasi molto colpito da queste conclusioni, dal momento che il corpo di Emanuela, a parte i danni cerebrali, non aveva altre gravi lesioni. Quando chiesi il perché ai medici, mi dissero che probabilmente sarebbe morta a causa delle infezioni, che potevano essere provocate soprattutto dal sondino, la PEG, con cui Emanuela veniva nutrita.
Allora voi cosa avete deciso di fare?
L’abbiamo portata a casa, e abbiamo deciso che da quel momento in poi ce ne saremmo occupati direttamente noi. La prima cosa che necessariamente bisognava ottenere era fare in modo che Emanuela non venisse più alimentata dal sondino, proprio per togliere il pericolo di infezione. Provammo ad abituarla a mangiare in modo naturale, ovviamente imboccata. All’inizio sembrava un’impresa disperata: bastava un piccolo cucchiaio d’acqua per rischiare che lei si soffocasse. Eppure, a poco a poco, con una pazienza che non saprei descrivere, siamo riusciti a rieducarla. Ora non ha più il sondino, viene imboccata, e riusciamo a darle piccole dosi di cibo, ma molto energetiche.
Oltre al problema del cibo, come vive Emanuela il resto della giornata?
Innanzitutto, come dicevo, Emanuela da allora è sempre stata a casa e non in ospedale. Per fare questo abbiamo in un certo senso “ripensato” tutta la casa, per farla diventare come un piccolo ospedale che ci permettesse di accudirla nel modo migliore. Abbiamo anche costruito una piscina per un certo tipo di terapia. Tutto questo per un motivo molto semplice: Emanuela deve poter vivere la sua quotidianità insieme a noi. È una cosa di un’importanza fondamentale, per noi e per lei: Emanuela vive con noi, è in contatto continuo con le persone che le sono vicine, partecipa della nostra vita quotidiana. E questo ha un effetto straordinario: lei dà dei segni chiari di questa sua particolare partecipazione. Quando guardiamo la televisione, magari qualche film leggero, è evidente che lei è lì con noi e gode di questa condizione.
Quindi nonostante lei non parli voi riuscite a comunicare con lei. Questo vi permette anche di conoscere la sua volontà? Si tratta di un passaggio fondamentale nella sentenza sul caso di Eluana…
Noi riusciamo chiaramente a capire qual è la volontà di Emanuela. Le dico una cosa di più: Emanuela, prima dell’incidente, era una ragazza molto simile a Eluana. Noi spesso la rimproveravamo per il fatto che tornava a casa tardi, che viveva da “scapicollata”. Lei reagiva dicendo che sarebbe vissuta solo vent’anni. Inoltre, c’erano stati ben due casi di ragazzi della sua scuola che avevano subito lesioni gravi in conseguenza di incidenti: ebbene, lei disse più volte che non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Ora noi le chiediamo se preferirebbe morire: lei con tutta evidenza, con quel linguaggio che noi abbiamo imparato con certezza assoluta, ci dice sempre di no. La sua volontà, da allora, è cambiata.
Come è possibile che in queste condizioni sua figlia sia riuscita a fare dei progressi così incredibili, che l’hanno portata a imparare a mangiare e riuscire a comunicare?
La condizione indispensabile perché questo avvenga, ripeto, è il fatto che lei sia in casa e non in ospedale. Il contatto continuo con i famigliari e ciò che permette che questo accada. Certo, non è per nulla una cosa facile, e bisognerebbe che lo Stato aiutasse molto di più le famiglie in queste condizioni. Noi abbiamo una situazione economica che ci ha permesso di fare tutto questo, ma altri non possono, ed è inaccettabile. Poi, oltre al problema finanziario, ci sono altri elementi che rendono necessario un aiuto: i familiari si trovano spesso in gravi difficoltà psicologiche, perché sono situazioni che creano forti depressioni. Il contatto continuo con una persona gravemente disabile è impossibile, genera frustrazioni, e per questo è necessario fare continuamente dei turni. Il servizio sanitario dovrebbe mettere a disposizione personale per questo tipo di necessità.
Cosa fare per sensibilizzare di più l’opinione pubblica intorno a questo problema?
Bisognerebbe far vedere più spesso alla televisione chi lotta per la vita. Invece si vedono solo e unicamente coloro che decidono per la morte: abbiamo visto in questi giorni il caso del video del suicidio assistito trasmesso da una tv inglese. Ma lo stesso è stato per il caso di Welby, e per il caso Englaro. La scelta per la morte è molto più “pubblicizzata”. Invece bisognerebbe porre l’attenzione di tutti sulla vita, e su chi lotta per affermarla. Noi abbiamo anche deciso di diffondere un video che faccia vedere Emanuela, perché ci sembra che possa aiutare a capire il valore di quello che facciamo per lei.
GUARDA IL VIDEO DI CARMELA E DI EMANUELA
«E’ sbagliato parlare ancora di stato vegetativo: lo stato vegetativo non esiste, e quando si usa questa espressione, anche se sono scienziati a farlo, si crea solo confusione. Induciamo la gente a pensare che si tratti di persone non più vive. Invece mia figlia è viva, è come me». Cesare Lia, avvocato pugliese, è nella stessa condizione di Peppino Englaro: una figlia, Emanuela, che in seguito a un incidente stradale si trova da quasi sedici anni nella medesime condizioni di disabilità di Eluana. Ma la battaglia, sua e di tutta la sua famiglia, per affermare la vita di Emanuela lo ha portato ad ottenere risultati che definire sorprendenti è poco.
Avvocato, in che condizioni è sua figlia?
Mia figlia Emanuela innanzitutto è una persona viva, che riesce a comunicare con il mondo esterno. Certo, lo fa in modo diverso da quello che utilizziamo noi che non siamo disabili, in un modo che è difficile da intendere: cenni, piccoli gesti, movimenti degli occhi. Ma le persone che le sono vicine, che la seguono ogni giorno capiscono benissimo cosa lei dice, cosa vuole comunicare.
Ci racconti la sua storia: che cosa è accaduto a Emanuela?
Tutta questa dolorosa vicenda ha avuto inizio la notte del 31 dicembre del 1992, quasi contemporaneamente all’inizio della vicenda di Eluana Englaro. Emanuela quella notte ha avuto un gravissimo incidente stradale, che le ha provocato gravi lesioni. È stata in rianimazione a Lecce, per quattro mesi. Dopo di che abbiamo deciso di portarla ad Innsbruk. Lì, dopo averla curata, i medici ci hanno dato un responso gravissimo che non lasciava alcuna speranza: Emanuela sarebbe morta dopo pochi mesi.
Perché?
Anch’io rimasi molto colpito da queste conclusioni, dal momento che il corpo di Emanuela, a parte i danni cerebrali, non aveva altre gravi lesioni. Quando chiesi il perché ai medici, mi dissero che probabilmente sarebbe morta a causa delle infezioni, che potevano essere provocate soprattutto dal sondino, la PEG, con cui Emanuela veniva nutrita.
Allora voi cosa avete deciso di fare?
L’abbiamo portata a casa, e abbiamo deciso che da quel momento in poi ce ne saremmo occupati direttamente noi. La prima cosa che necessariamente bisognava ottenere era fare in modo che Emanuela non venisse più alimentata dal sondino, proprio per togliere il pericolo di infezione. Provammo ad abituarla a mangiare in modo naturale, ovviamente imboccata. All’inizio sembrava un’impresa disperata: bastava un piccolo cucchiaio d’acqua per rischiare che lei si soffocasse. Eppure, a poco a poco, con una pazienza che non saprei descrivere, siamo riusciti a rieducarla. Ora non ha più il sondino, viene imboccata, e riusciamo a darle piccole dosi di cibo, ma molto energetiche.
Oltre al problema del cibo, come vive Emanuela il resto della giornata?
Innanzitutto, come dicevo, Emanuela da allora è sempre stata a casa e non in ospedale. Per fare questo abbiamo in un certo senso “ripensato” tutta la casa, per farla diventare come un piccolo ospedale che ci permettesse di accudirla nel modo migliore. Abbiamo anche costruito una piscina per un certo tipo di terapia. Tutto questo per un motivo molto semplice: Emanuela deve poter vivere la sua quotidianità insieme a noi. È una cosa di un’importanza fondamentale, per noi e per lei: Emanuela vive con noi, è in contatto continuo con le persone che le sono vicine, partecipa della nostra vita quotidiana. E questo ha un effetto straordinario: lei dà dei segni chiari di questa sua particolare partecipazione. Quando guardiamo la televisione, magari qualche film leggero, è evidente che lei è lì con noi e gode di questa condizione.
Quindi nonostante lei non parli voi riuscite a comunicare con lei. Questo vi permette anche di conoscere la sua volontà? Si tratta di un passaggio fondamentale nella sentenza sul caso di Eluana…
Noi riusciamo chiaramente a capire qual è la volontà di Emanuela. Le dico una cosa di più: Emanuela, prima dell’incidente, era una ragazza molto simile a Eluana. Noi spesso la rimproveravamo per il fatto che tornava a casa tardi, che viveva da “scapicollata”. Lei reagiva dicendo che sarebbe vissuta solo vent’anni. Inoltre, c’erano stati ben due casi di ragazzi della sua scuola che avevano subito lesioni gravi in conseguenza di incidenti: ebbene, lei disse più volte che non avrebbe voluto vivere in quelle condizioni. Ora noi le chiediamo se preferirebbe morire: lei con tutta evidenza, con quel linguaggio che noi abbiamo imparato con certezza assoluta, ci dice sempre di no. La sua volontà, da allora, è cambiata.
Come è possibile che in queste condizioni sua figlia sia riuscita a fare dei progressi così incredibili, che l’hanno portata a imparare a mangiare e riuscire a comunicare?
La condizione indispensabile perché questo avvenga, ripeto, è il fatto che lei sia in casa e non in ospedale. Il contatto continuo con i famigliari e ciò che permette che questo accada. Certo, non è per nulla una cosa facile, e bisognerebbe che lo Stato aiutasse molto di più le famiglie in queste condizioni. Noi abbiamo una situazione economica che ci ha permesso di fare tutto questo, ma altri non possono, ed è inaccettabile. Poi, oltre al problema finanziario, ci sono altri elementi che rendono necessario un aiuto: i familiari si trovano spesso in gravi difficoltà psicologiche, perché sono situazioni che creano forti depressioni. Il contatto continuo con una persona gravemente disabile è impossibile, genera frustrazioni, e per questo è necessario fare continuamente dei turni. Il servizio sanitario dovrebbe mettere a disposizione personale per questo tipo di necessità.
Cosa fare per sensibilizzare di più l’opinione pubblica intorno a questo problema?
Bisognerebbe far vedere più spesso alla televisione chi lotta per la vita. Invece si vedono solo e unicamente coloro che decidono per la morte: abbiamo visto in questi giorni il caso del video del suicidio assistito trasmesso da una tv inglese. Ma lo stesso è stato per il caso di Welby, e per il caso Englaro. La scelta per la morte è molto più “pubblicizzata”. Invece bisognerebbe porre l’attenzione di tutti sulla vita, e su chi lotta per affermarla. Noi abbiamo anche deciso di diffondere un video che faccia vedere Emanuela, perché ci sembra che possa aiutare a capire il valore di quello che facciamo per lei.
GUARDA IL VIDEO DI CARMELA E DI EMANUELA
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