mercoledì 3 dicembre 2008

Eluana Englaro - Bertoglio (Ospedale di Lecco): il mio incontro con Peppino Englaro e il suo dramm

Da IlSussidiario.net

intervista ad Ambrogio Bertoglio
martedì 2 dicembre 2008

Dopo la sentenza sul caso Englaro si è aperta la macabra caccia all’ospedale che stacchi il sondino e che permetta la morte per fame e per sete di Eluana. Il primo ospedale cui Peppino Englaro si è rivolto è l’ospedale di Lecco. Ambrogio Bertoglio, direttore generale dell’ospedale, ha accettato di raccontare a ilsussidiario.net come si sono svolti i fatti.

Dottor Bertoglio, come le è arrivata la richiesta di procedere all’attuazione della sentenza che dà la possibilità di interrompere l’alimentazione e l’idratazione a Eluana?

Nel mese di giugno è arrivata all’ospedale una richiesta scritta firmata dal padre di Eluana, Peppino Englaro, in cui ci chiedeva la possibilità di utilizzare uno spazio all’interno dell’ospedale in cui poter accogliere per un numero limitato di ore Eluana, e durante questo tempo e in questo spazio sarebbe stato tolto il sondino da parte di operatori di fiducia del padre di Eluana. Nella richiesta si precisava che non erano necessari infermieri e che sarebbe stato sufficiente un aspiratore e nessun’altra attrezzatura.

E lei cos’ha risposto?

Ho scritto una risposta articolata in tre punti. Il primo punto era che l’ospedale costruisce una propria organizzazione, una propria fisionomia terapeutica, e la descrive all’interno del piano di organizzazione, che viene pubblicata; con questa presentazione l’ospedale si presenta al mondo, e quindi la gente che la legge decide di farsi curare in questo ospedale, sapendo qual è la struttura terapeutica e clinica che qui si mette in atto. Il secondo punto della risposta era che il nostro ospedale, per ovvia consuetudine, non aveva mai né affittato né prestato spazi all’interno dell’ospedale, perché altri dal di fuori venissero ad esercitare sotto il tetto dell’ospedale pezzi di terapia o di cura gestiti da altri. Terzo punto, il codice deontologico sia dei medici che degli infermieri, dice che anche in assenza e nell’impossibilità di essere efficaci terapeuticamente, comunque l’accudire la persona e il dar da bere e da mangiare va garantito comunque.

Poi cos’è successo?

La risposta, pur articolata e per niente forte, era però sicuramente una risposta molto burocratica. Quindi ho deciso di telefonare al signor Englaro per dirgli di venire e per potergli parlare direttamente. Lui è venuto la mattina stessa, e abbiamo fatto un lunghissima chiacchierata. Englaro mi disse subito che si aspettava quella risposta, e che aveva fatto la richiesta quasi per dovere, ma senza aspettarsi nulla. Qualche tempo dopo ha fatto la stessa richiesta in termini generali alla Regione Lombardia, e la risposta che ha ottenuto ripercorreva sostanzialmente le stesse argomentazioni, seppur articolate in maniera diversa. Quindici giorni fa è poi arrivata una comunicazione da parte della magistratura: ho appreso che il signor Englaro ha denunciato sia la Regione che il nostro ospedale perché non abbiamo ottemperato alla disposizione della sentenza.

A parte quest’ultimo aspetto della vicenda, che cosa è emerso dall’incontro che lei ha avuto con il signor Englaro?

È stato un incontro molto interessante: ci siamo guardati da padri e ci siamo messi a parlare della situazione. Lui non si è affatto nascosto, ed è stato molto cordiale e molto franco. Nel nostro dialogo ha raccontato di sé presentandosi come un vecchio socialista umanitario, molto amante della libertà. Un uomo proveniente dalla dura Carnia nei tempi del dopoguerra: una terra povera, e molto faticosa. Quindi mi si è presentato come una persona con un grande senso del dovere, e con l’idea di essere da solo contro la durezza della vita, che va affrontata facendo leva sulla propria forza di volontà.

Che cosa le ha detto invece di Eluana?

Lui dà un’immagine molto chiara di sua figlia: una ragazza amante della libertà, un “purosangue”, come lui stesso la definisce. E un purosangue non accetta di essere azzoppato, perché ama la libertà, ama correre. Un purosangue va ucciso per pietà, quando si trova in queste condizioni. Alla mia osservazione che le cose sono andate diversamente e che ora c’è qualcuno che si occupa di lei, e quindi bisogna accettare e stare di fronte a questa nuova situazione, mi ha semplicemente risposto che questa è una concezione da religiosi, inaccettabile per chi religioso non è. Il suo ragionamento è questo: nella mia coscienza ritengo giusta questa cosa e quindi devo essere lasciato libero di perseguirla, e nessuno può limitarmi e fermarmi nella realizzazione di quello che ritengo giusto. E di conseguenza ritiene di essere in una situazione di perseguitato perché la società non gli permette di fare questo. Quello che non sono però riuscito a capire è il perché della valenza pubblica che lui vuole dare a questa vicenda. Ammesso, e non concesso, di voler realizzare il proprio punto di vista, ma perché poi volerlo fare in ospedale? È come se volesse che la società glielo riconosca e lo metta in condizioni di farlo, come un suo diritto.

Ma non è prescritto dalla sentenza che la cosa debba essere fatta in un ospedale?

La sentenza prescrive che sia fatto in una struttura tipo hospice. Ma la sentenza è fatta di due parti: una parte è quella che dice che si può interrompere l’alimentazione e l’idratazione, e una seconda che è strettamente medica in cui, partendo dal dire dove deve la cosa deve essere fatta, si danno una serie di prescrizioni strettamente mediche: usare rilassanti, antidolorifici e tutto quello che serve per combattere quelle che sono le conseguenze cui va incontro chi non viene più alimentato e dissetato. Il problema è che, come qualcuno ha osservato, tutto ciò, dal momento che non ha alcuna valenza medico-sanitaria (non è nemmeno necessario togliere il sondino, perché basterebbe non mettere più dentro cibo e liquidi) lo si potrebbe fare anche a casa. Perché a casa no? L’accudimento non ha bisogno di macchine o strutture speciali che si possono assicurare solo in ospedale. Invece Englaro vuole che questa cosa sia fatta in ospedale, proprio per affermare quella valenza pubblica di cui dicevamo.

Secondo lei, ora, che cosa faranno gli altri ospedali?

Ora ci troviamo in una situazione paradossale: certamente mi sembra molto difficile che un ospedale, a meno che non sia fortemente ideologizzato, possa scegliere di ospitare un simile gesto. La Lombardia si è espressa in una certa maniera, e quindi questo vale per le strutture della Regione. Cos’altro possa accadere non lo posso prevedere.

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