giovedì 29 febbraio 2024

Ricordo, molto personale, di Sergej S. Averincev - di Andrea Monda (2004).

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un post in ricordo di Sergej Averincev, e andando a pescare nel nostro blog ci siamo accorti che si era perso il collegamento ad un bell'articolo di Andrea Monda (era in una pagina del sito della Rai), oggi direttore dell'Osservatore Romano, che aveva avuto contatti con il professor Averincev.

Lo abbiamo chiesto al caro Andrea ed eccolo qui. Man mano, con pazienza, lo ricollocheremo anche nei luoghi ove era presente. Intanto lo ringraziamo per la cortesia e per le belle cose che scrisse venti anni fa.

La redazione


Ho conosciuto Sergej Sergeevic Averincev il 1 febbraio del 2000 in occasione della prima edizione del convegno annuale “Cattolicesimo e Letteratura nel ‘900” da me ideato e organizzato. Diventammo amici e lui venne, la sera stessa, a cena a casa mia. Esattamente un anno dopo ebbi la fortuna di incontrarlo di nuovo a Torino e lo intervistai per Il Mattino: si trovava nel capoluogo piemontese per ricevere il “Premio senatore Giovanni Agnelli per il dialogo fra gli universi culturali”. Scrissi all’epoca che “se segno distintivo dei grandi uomini stranieri è l’amore per il nostro paese, allora anche il professore Averincev è una conferma vivente a questa regola: avendo appreso per quale giornale scrivo mi parla di Partenope e del Sud Italia mentre il suo volto sottile e giovanile si illumina di felicità come quello di un bambino”.

Confesso che mi ero dimenticato di averlo intervistato, di lui ricordavo il nostro incontro, l’affabilità, l’amicizia e l’aspetto “lavorativo” l’avevo proprio rimosso. Mi piace infatti ricordarlo solo per quella nota personale, direi “fisica” di quel suo volto “sottile e giovanile” che, spesso, “si illuminava di felicità come quello di un bambino”.

Sergej Averincev è morto il 23 febbraio scorso. I giornali non hanno dato molto “spazio” alla notizia, del resto non esiste mai spazio sufficiente per raccogliere la notizia di una morte.

Sarebbe quindi ora giusto ricordare chi era Sergej Sergeevic Averincev, questo genio multiforme, poeta, filologo, filosofo, storico, critico letterario che era nato a Mosca 66 anni fa. 

Della sua vasta bibliografia il pubblico italiano ha conosciuto solo poche opere: Dieci poeti. Ritratti e destini (con uno splendido saggio su Chesterton), Cose attuali e cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea (entrambi pubblicati da La Casa di Matriona), Adamo e il suo costato (Lipa), e, soprattutto i suoi due capolavori: L’anima e lo specchio (Il Mulino) e Atene e Gerusalemme (Donzelli). Questi pochi titoli, se non danno ragione al genio moscovita, rivelano però come tutta l’opera di Averincev sia stata sempre rivolta alla problematica del dialogo tra Oriente e Occidente. 

In Atene e Gerusalemme, solo 63, formidabili, pagine, il filosofo osservava le distanze e le possibili vicinanze tra le due civiltà che hanno dato vita alla cultura occidentale. Come non troveremo mai, sottolineava Averincev, un’opera ebraica intitolata, per esempio, “Sulla poetica”, oppure “Su Omero”, così non è paragonabile la speculazione dei filosofi greci, con quella che troviamo, per esempio, nelle pagine di Giobbe. E la differenza non è qualitativa ma è proprio nel fatto che queste due realtà non possono essere tra loro confrontate. Se i Greci ebbero la piena consapevolezza di “fare filosofia”, di “fare letteratura”, la saggezza degli Ebrei, di cui è ricolma la Bibbia (e non solo il capolavoro di Giobbe), è appunto saggezza, filosofeggiare, mai “filosofia”. Forse è per questo alto grado di autocoscienza che è nato il mito (da sfatare) dell’Ellade come “Inizio”, prima del quale non sarebbe esistito nulla. Si potrebbe continuare ad elencare qui i meriti speculativi del professore di Mosca che il Cardinale Paul Poupard “ministro della cultura della Santa Sede” amava definire “Soloviev dei nostri tempi”. Ma non posso farlo io. Non solo perché per citare ed analizzare i titoli, le opere, i dati di una vita letteraria così ricca io sarei la persona più incompetente, ma perché vorrei, più semplicemente, parlare dell’uomo, dell’amico.

Quando mi telefonò da Vienna per dirmi che stava per arrivare a Roma, pochi giorni prima del convegno del 1 febbraio 2000, mi disse subito che non sapeva bene l’italiano ma che avremmo potuto tranquillamente parlare in latino…Decidemmo di parlare in inglese. Ogni tanto smetteva l’inglese, lingua che non doveva amare particolarmente, e attaccava col francese.  Mi resi conto ben presto che conosceva praticamente tutte le lingue europee e lui di questo era molto rammaricato, del fatto cioè che della lingua italiana conosceva pochissime cose, solo i saluti e i numeri. Infatti, come per farmi contento, ogni volta che mi telefonava, esordiva dicendo: “Pronto, dott. Monda? Il suo numero è 06-8845621, vero? Salute, sono Averincev”, e poi attaccava con il suo inglese dal forte accento sovietico. La cosa ad un tempo mi commuoveva e mi divertiva molto. 

Al convegno fece un intervento, in francese, sul poeta russo Ivanov. Mentre parlava arrivò un uomo, molto  anziano, dall’aspetto altero, aristocratico: era il figlio di Ivanov. Appena entrò nel sala del convegno, Averincev smise di leggere, si alzò e andò ad abbracciare il vecchio amico, tutto con questo con nobile naturalezza. Parlarono in russo per un minuto e la scena a tutti i presenti sembrò uscita fuori dalla penna di uno dei grandi scrittori russi dell’800. Poi Averincev riprese la sua relazione mentre Ivanov junior, seduto in prima fila, annuiva commosso alle parole del critico. 

La sera tutti i relatori vennero a cena a casa mia. Averincev venne con la moglie, l’Averinceva, una donna dolcissima con le gote rosse, una specie di matrioska, di contadina russa che si scusava di parlare solo il russo e un po’ di latino. La cena fu piacevolissima, anche per la presenza di questa coppia. Ricordo ancora un dialogo surreale tra l’Averinceva e mia zia Gianna che aveva preparato, per l’occasione, un piatto di insalata, ovviamente russa.  La offrì all’Averinceva con queste parole: “Prego, vuole dell’insalata russa? Sine pesce!” Penso che volesse indicare che non c’era il pesce tra gli ingredienti (avevo detto a mia zia che bisognava parlare un po’ di latino), al che l’Averinceva rispose “Optime! Optime!”, e mia zia, senza scoraggiarsi, “Cor vestris” che voleva dire, più o meno, “Al suo buon cuore.”. La discussione andò ancora avanti ma io preferii fuggire e andare a parlare con il filosofo russo che era intento a sbalordire mio figlio di 5 anni con un gioco di abilità che stupì parecchio anche me: riusciva, non so come, a piegare e mettere il mignolo sull’anulare, l’anulare sul medio, il medio sull’indice, l’indice sul pollice. Ruotava tutte e due le mani così conciate e mio figlio ancora si ricorda quella “rotante mostruosità di dita”. Mangiando l’insalata russa, parlammo in piedi vicino alla mia libreria. Averincev notò i miei libri di letteratura inglese ed io gli parlai dei miei grandi amori: Chesterton, Tolkien, Lewis… dopo qualche minuto capii, con un pizzico d’ansia, che su tutti e tre gli autori lui ne sapeva molto più di me.  E la cosa più bella era la sua umiltà, tratto distintivo di tutti i grandi uomini. 

Tra un gioco d’abilità e qualche difficile traduzione dal latino all’italiano, passando per l’inglese (ricordo ancora il suo stupore per il fatto che gli italiani non sapessero più il latino), la sera passò e segnò la nascita di un’intensa, purtroppo breve, amicizia. 

In questi 4 anni ci vedemmo altre due volte  e ci sentimmo spesso per telefono scrivendoci via fax. Apprezzò molto il mio lavoro su Lewis che pubblicai qualche mese dopo per la SanPaolo. 

Poi un giorno gli mandai un fax ma non mi rispose con la solita solerzia. Scoprii allora che era caduto in coma. Poi, il 24 febbraio, ho letto la notizia della sua morte su Avvenire. C’era mio figlio accanto a me, sul divano. Gli diedi la notizia: “Chi, quello che faceva così con le dita?” e mi fece vedere il “vecchio” gioco di Sergej (nemmeno con la sua elasticità di bambino mio figlio ci riesce come ci riusciva lui). Averincev era un uomo molto “bambino”: c’è qualcosa di più grande?

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