mercoledì 28 febbraio 2024

Una vecchia recensione de La ballata del cavallo bianco, sfuggitaci nel 2009. La riproponiamo.

«Si è dimenticato che Chesterton fu, tra le altre cose, un ammirevole poeta. Nella poesia La ballata del Cavallo Bianco si trovano metafore che Victor Hugo avrebbe ammirate». Così, nelle sue Conversazioni nel 1987, Borges coglieva con il solito acume una profonda verità: se si pensa a Chesterton può venire in mente il giallista o l’apologeta, ma difficilmente si ricorderanno i suoi versi. Almeno fino ad oggi: è appena stato pubblicato dall’editore Raffaelli proprio il poema citato da Borges, che mancava dalle librerie italiane dalla raccolta curata nel 1939 da Alberto Castelli sugli Scrittori inglesi contemporanei, a colmare un vuoto di settant’anni e a dare conferma al giudizio del poeta argentino. Chesterton è (anche) un grande poeta, e la critica su questo punto deve (ri)fare i conti, un’operazione che può essere agevolata dall’uscita di questo poema in otto canti composto nel 1911 e dedicato alla vittoria del mitico re inglese Alfred sugli invasori danesi alla fine del nono secolo. Una figura appunto mitica, che si situa sul labile confine tra la storia e il mito, ma è proprio questo che intriga Chesterton che anni prima, nel saggio Ortodossia, aveva dichiarato, con il suo inguaribile humour, la sua opzione a favore della leggenda rispetto alla pedante e sempre faziosa storiografia: «La leggenda è fatta generalmente maggioranza, sana, degli abitanti di un villaggio; il libro è scritto, generalmente da quello, fra gli abitanti del villaggio, che è matto». Allo scrittore inglese piace la leggenda in quanto fatto popolare, affidato al semplice uomo comune che è grande proprio per la sua capacità di essere umile. Un sentimento espresso mirabilmente in questo verso della Ballata che racchiude tutto il credo poetico chestertoniano: «...quando la lavagna blu del cielo è cancellata/ completamente fino all’ultima stella/ e compaiono nuovi segni potenti da leggere,/ allora, gli occhi si spalancano per incredibile meraviglia,/ come quando un grande uomo vede chiaramente/ qualcosa che è più grande di lui». L’umiltà e la meraviglia sono sorelle nella visione di Chesterton che nel 1911 non è ancora approdato al cattolicesimo, anche se tutto l’impianto e molti versi del poema già rivelano la sua futura conversione, ad esempio quando contrappone gli inglesi convertiti ai danesi pagani: «Gli uomini dell’Est scrutano le stelle,/ per segnare gli eventi e i trionfi,/ ma gli uomini segnati dalla croce di Cristo/ vanno lieti nel buio». In questo verso, apprezzato anche dal filologo russo Averincev, si ritrova sia il gusto di Chesterton per il gioco di parole (la contrapposizione tra il segnare e l’essere segnati) che non è mai fine a se stesso, ma sempre a servizio di una verità più grande da spiegare o illuminare, sia quelle parole finali relativa al camminare «lieti nel buio», anch’esse un’altra piccola summa della poetica dell’autore inglese, capace di parlare con saggezza della luce, proprio perché ben consapevole dell’ombra che attraversa la vita di ogni essere umano.

Andrea Monda

G. K. Chesterton, «La ballata del Cavallo Bianco», Raffelli Editore, Rimini, pp.179, 15 euro.

La Ballata del cavallo bianco in edizione
Methuen (1928) illustrata
da Robert Austin (1895 - 1973).




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