Un solo giornale al mondo previde l’elezione di Karol Wojtyla: il bollettino dell’università di Harvard. Nel 1976, due anni prima del conclave, il cardinale di Cracovia aveva tenuto una conferenza nel prestigioso ateneo e il Crimson pubblicò una sua foto con la dicitura: “Un giorno sarà papa”. Anche il settimanale Time, ad onore del vero, inserì il nome di Wojtyla nella lista dei papabili, ma affrettandosi a spiegare che si trattava di una “possibilità remota”.
Il curialissimo Tg1 aveva preparato una lunga serie di biografie di cardinali, per essere in grado di trasmettere quella giusta subito dopo la fumata bianca. Fra le oltre trenta cassette non c’era quella di Wojtyla. Ma il vaticanista Vittorio Citterich, due giorni prima del conclave, incontrò un sacerdote di Forlì, Francesco Ricci, direttore della rivista Cseo (voce della “Chiesa del silenzio”) e questi gli consigliò vivamente di aggiungere in archivio la biografia del porporato polacco. Cosa che il giornalista fece, e di cui ringraziò eternamente il prete romagnolo.
Insomma, oggi i giovanissimi (diciamo pure gli under 30) stentano ad immaginarlo. Ma l’elezione del papa polacco fu davvero una cosa dell’altro mondo. Si fa presto adesso (dopo la doppietta Wojtyla-Ratzinger) a dire papa straniero. Ci siamo già abituati, sembra normale. Ma allora, quel 16 ottobre di trent’anni fa, fu una rivoluzione. Quattro secoli e mezzo di papi solo italiani. L’ultimo straniero, un olandese, Adriano VI, era stato eletto nel 1522 e fra l’altro governò la Chiesa per appena un anno.
Ma ovviamente non fu solo il fatto di non essere italiano, la novità. Un papa che veniva dalla cortina di ferro, da quella parte del mondo che gli accordi fra i vincitori della guerra, nel 1946, avevano assegnato alla “sfera di influenza” dell’Unione Sovietica. Spartizione considerata da tutti, allora, immodificabile. Una scelta temeraria, spericolata, sul piano politico, quella compiuta dai 111 cardinali segregati nella Cappella Sistina. Pare siano stati i cardinali di lingua tedesca (Austria e Germania) i più convinti promotori della candidatura Wojtyla. Fra loro c’era il neo cardinale di Monaco, tal Joseph Ratzinger. Curiosamente uno dei pochissimi cardinali superstiti (per l’esattezza due, lui e l’americano Baum) che nel 2005 parteciperanno anche al prossimo conclave, per eleggere il successore di Giovanni Paolo II.
Come era diverso il mondo quando il ‘guerriero di Dio’ irruppe nella scena planetaria. E come era diversa la Chiesa. Parlare di Cristo, senza aggiungere subito dopo mille precisazioni (dialogo, mediazione, ecumenismo) sembrava sconveniente, retrò. E lui, il nuovo papa, parlava eccome di Cristo, “senza paura”. Prendendosi sberle dai giornaloni, all’inizio. Ne parlava sempre con quella voce da uomo, uomo vero, non da prete (altra, e non secondaria novità!). Ma proprio perché innamorato non di una Idea bensì di una Persona si apriva a tutti, aveva come orizzonte il mondo intero. Mentre oggi forse si corre il rischio opposto, di fare dei valori cristiani una ideologia, una bandiera che chiude anziché… aprire, anzi spalancare le porte a Cristo.
Tutto è stato detto di questo papa, tutto è stato mostrato. Pochi fedeli forse sapranno citare i titoli delle sue 14 encicliche. Tutti però – fedeli e infedeli - si ricorderanno per aver visto in tv qualche suo gesto, in cui passava la sua umanità. Una carezza o un gioco. Il tono della voce che si alza all’improvviso per ricordare a quei presidenti “giovani… più giovani di me” che la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità. La mano tremante, i momenti di preghiera in cui tutto il resto sembrava scomparire, la sofferenza che lo addolcisce (non come accade a noi): il pastorale con la croce, impugnato come una lancia quando era giovane, diventa appoggio della sua vecchiaia. Il ricordo più bello degli ultimi giorni me lo ha affidato un cardinale di curia che lo andò a trovare nel letto dell’agonia, nel palazzo apostolico. Un cardinale che non sempre aveva condiviso i suoi orientamenti dottrinali, e per questo era esitante, timoroso e imbarazzato nell’ultimo saluto. “Il Papa apre per un istante gli occhi, mi riconosce, mi fa cenno di avvicinarmi al letto, un sorriso buono, di padre, e mi benedice…” Piangeva questo anziano e navigato porporato, quando lo raccontava.
Il curialissimo Tg1 aveva preparato una lunga serie di biografie di cardinali, per essere in grado di trasmettere quella giusta subito dopo la fumata bianca. Fra le oltre trenta cassette non c’era quella di Wojtyla. Ma il vaticanista Vittorio Citterich, due giorni prima del conclave, incontrò un sacerdote di Forlì, Francesco Ricci, direttore della rivista Cseo (voce della “Chiesa del silenzio”) e questi gli consigliò vivamente di aggiungere in archivio la biografia del porporato polacco. Cosa che il giornalista fece, e di cui ringraziò eternamente il prete romagnolo.
Insomma, oggi i giovanissimi (diciamo pure gli under 30) stentano ad immaginarlo. Ma l’elezione del papa polacco fu davvero una cosa dell’altro mondo. Si fa presto adesso (dopo la doppietta Wojtyla-Ratzinger) a dire papa straniero. Ci siamo già abituati, sembra normale. Ma allora, quel 16 ottobre di trent’anni fa, fu una rivoluzione. Quattro secoli e mezzo di papi solo italiani. L’ultimo straniero, un olandese, Adriano VI, era stato eletto nel 1522 e fra l’altro governò la Chiesa per appena un anno.
Ma ovviamente non fu solo il fatto di non essere italiano, la novità. Un papa che veniva dalla cortina di ferro, da quella parte del mondo che gli accordi fra i vincitori della guerra, nel 1946, avevano assegnato alla “sfera di influenza” dell’Unione Sovietica. Spartizione considerata da tutti, allora, immodificabile. Una scelta temeraria, spericolata, sul piano politico, quella compiuta dai 111 cardinali segregati nella Cappella Sistina. Pare siano stati i cardinali di lingua tedesca (Austria e Germania) i più convinti promotori della candidatura Wojtyla. Fra loro c’era il neo cardinale di Monaco, tal Joseph Ratzinger. Curiosamente uno dei pochissimi cardinali superstiti (per l’esattezza due, lui e l’americano Baum) che nel 2005 parteciperanno anche al prossimo conclave, per eleggere il successore di Giovanni Paolo II.
Come era diverso il mondo quando il ‘guerriero di Dio’ irruppe nella scena planetaria. E come era diversa la Chiesa. Parlare di Cristo, senza aggiungere subito dopo mille precisazioni (dialogo, mediazione, ecumenismo) sembrava sconveniente, retrò. E lui, il nuovo papa, parlava eccome di Cristo, “senza paura”. Prendendosi sberle dai giornaloni, all’inizio. Ne parlava sempre con quella voce da uomo, uomo vero, non da prete (altra, e non secondaria novità!). Ma proprio perché innamorato non di una Idea bensì di una Persona si apriva a tutti, aveva come orizzonte il mondo intero. Mentre oggi forse si corre il rischio opposto, di fare dei valori cristiani una ideologia, una bandiera che chiude anziché… aprire, anzi spalancare le porte a Cristo.
Tutto è stato detto di questo papa, tutto è stato mostrato. Pochi fedeli forse sapranno citare i titoli delle sue 14 encicliche. Tutti però – fedeli e infedeli - si ricorderanno per aver visto in tv qualche suo gesto, in cui passava la sua umanità. Una carezza o un gioco. Il tono della voce che si alza all’improvviso per ricordare a quei presidenti “giovani… più giovani di me” che la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità. La mano tremante, i momenti di preghiera in cui tutto il resto sembrava scomparire, la sofferenza che lo addolcisce (non come accade a noi): il pastorale con la croce, impugnato come una lancia quando era giovane, diventa appoggio della sua vecchiaia. Il ricordo più bello degli ultimi giorni me lo ha affidato un cardinale di curia che lo andò a trovare nel letto dell’agonia, nel palazzo apostolico. Un cardinale che non sempre aveva condiviso i suoi orientamenti dottrinali, e per questo era esitante, timoroso e imbarazzato nell’ultimo saluto. “Il Papa apre per un istante gli occhi, mi riconosce, mi fa cenno di avvicinarmi al letto, un sorriso buono, di padre, e mi benedice…” Piangeva questo anziano e navigato porporato, quando lo raccontava.
(Lucio Brunelli)
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