Da Avvenire del 26 Maggio 2010
Se c’è una vicenda della Resistenza assai poco «controversa» è la strage a Porzûs dei partigiani cattolici della «Osoppo» perpetrata a tradimento e con efferatezza dai partigiani comunisti della «Garibaldi Natisone» dal 7 al 20 febbraio ’45. Vicenda che, invece, resta ineffabilmente assai «controversa» per il Ministero dei beni culturali (e per cui, giorni fa, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi ha appellato al ministro Bondi). Una "pratica" nascosta nei cassetti ministeriali riapre infatti ferite che, scioccamente, pensavamo rimarginate da una sofferenza e da un giudizio comune. Che ingenuità! E che ingenuità quella dei reduci della "Osoppo" che nei primi anni ’80 si autotassarono per acquistare il terreno delle malghe di Porzûs donandolo quindi nel giugno ’84 alla Provincia di Udine perché potesse curarne luogo e ricordo, nella speranza che in futuro un decreto del Presidente della Repubblica potesse eventualmente dichiarare «monumento nazionale» il luogo e i manufatti edilizi teatro della strage. La burocrazia, è noto, ha le sue procedure, i suoi tempi… e le sue idee. Così a gennaio (ma solo ora, e non certo casualmente, se ne sa qualcosa), è apparso un decreto su carta intestata del Ministero, Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia che, visti decreti legislativi e dirigenziali, ed acquisiti pareri d’ogni genere, dichiara «di interesse culturale» il «bene denominato Malghe di Porzûs».
Non ci sarebbe che da compiacersi di questo decreto (passo necessario per poter poi aspirare alla qualifica di «monumento nazionale») se non fosse accompagnato da una «Relazione storica» che ne costituisce parte integrante e giustificativa. Vi si legge che «l’eccidio di Porzûs […] fu uno degli episodi più controversi della Resistenza italiana», e che si «colloca in un contesto storico internazionale piuttosto complesso, conseguente alle prospettate suddivisioni di confini ("Zona libera orientale", "Linea Morgan") e alle sfere di influenza degli Alleati a seguito degli Accordi di Yalta». Dunque mentre la Conferenza di Yalta (tenutasi dal 4 all’11 febbraio) era appena iniziata ed era ancora in corso, il capo partigiano Mario Toffanin "Giacca", avvertito direttamente dal Mar Nero da Stalin, intanto iniziò a trucidare i partigiani di altro orientamento ideologico, finendo poi la mattanza col conforto dei raggiunti accordi diplomatici. Trascurabile, per il resto, la circostanza che la "Linea Morgan" venisse definita a Belgrado il 9 giugno ’45 (quattro mesi dopo la strage di Porzûs). L’intento giustificatorio della ministerial "Relazione storica", accidentato da una scarsa dimestichezza con la cronologia, è tuttavia supportato da precisi riferimenti fattuali: il comando della "Osoppo" era «accusato di attesismo e intesa col nemico»; eppoi aveva con sé la povera Elda Turchetti, accusata di spionaggio a favore dei tedeschi, consegnata ai partigiani cattolici che l’avevano sì "processata" ma assolta; ecco – testualmente – «il casus belli che giustificò l’azione degli uomini di Mario Toffanin»! Tanto più, insiste la ministerial "Relazione storica", che «secondo le direttive emanate dall’ottobre del 1944 dal Comando generale del Corpo volontari della libertà del Nord Italia, ogni tentativo di trattativa con i nazifascisti era da considerare tradimento e quindi, essendo in tempo di guerra, da punire con la condanna a morte per fucilazione».
Tanto valeva riportare la prima ricostruzione dei fatti avanzata nell’aprile ’45 dal delegato del Pci all’interno della commissione d’inchiesta ordinata dal locale Cln sulla strage: l’attacco agli "osovani" era stato perpetrato da nazifascisti travestiti da partigiani (già troppo compromettente per i ministeriali estensori della "Relazione storica" la successiva interpretazione che attribuiva la strage a un personale "colpo di testa" di Toffanin). Finita la guerra, su denuncia del Comando divisione "Osoppo" si apre il processo per la strage; la "Relazione storica", ignorando le varie vicende giudiziarie, certifica che il processo si concluse sì «con la condanna per omicidio aggravato e continuato di alcuni membri della Brigata Garibaldi», con sentenza tuttavia giudicata «ancora controversa». Il tutto supportato da una bibliografia approssimativa, certo, ma con l’opportuna lacuna de "Il giorno nero di Porzûs" di Sergio Gervasutti contenente documenti utili a evitare l’uso spregiudicato dell’aggettivo "controverso".
Questo decreto della direzione regionale del Ministero reca la data del 18 gennaio 2010; se ne può parlare ora che è stato reso noto; ma dopo che è scaduto il tempo utile per un’eventuale impugnativa amministrativa. Inutile strologare su eventuali future reazioni e specificazioni. La vicenda si aggiunge a quei monumenti all’ipocrisia costituiti dall’ineffabile motivazione della medaglia d’oro a Francesco De Gregori comandante partigiano della "Osoppo" assassinato per primo a Porzûs (la motivazione non ne indica la ragione né gli assassini) e dai testi altrettanto reticenti delle lapidi apposte sul luogo in ricordo della strage. Che sarà dunque mai questa "Relazione storica" se non la certificazione ministeriale d’una sciatteria faziosa, impunita dall’assuefazione, oltre che al falso, alla banalità degli errori!
Paolo Simoncelli
Da Avvenire del 28 Maggio 2010
Porzûs, il ministero cambia rotta
Prendiamo atto del proposito del ministero dei Beni culturali di porre rimedio ad una propria ineffabile "Relazione storica" che, occupandosi per decreti e qualifiche del massacro a Porzûs dei partigiani cattolici della Osoppo, ne ha giustificato disinvoltamente gli autori (i partigiani comunisti della brigata Garibaldi Natisone). Il ministro, Sandro Bondi, ha chiesto che «sia revocato il provvedimento della direzione regionale del Friuli Venezia Giulia, in quanto le motivazioni storiche attraverso cui la Malga di Porzûs è stata riconosciuta come bene di interesse culturale non appaiono condivisibili», precisando inoltre che «vennero trucidati diciotto uomini della formazione Osoppo, formata da cattolici e azionisti, da parte dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi». Un intervento obbligato dopo che "Avvenire" ha indicato l’insostenibilità scientifica di quella "Relazione", cui sono seguiti altri interventi (Dino Messina sul "Corriere della Sera", Francesco Specchia su "Libero").
Soddisfazione relativa e più che altro amara per la constatazione di come in Italia ministeri preposti a tali atti mostrino sciatteria, disinvoltura e faziosità. C’è però da prender quel po’ di utile che ne può conseguire per ampliare il discorso con qualche ulteriore considerazione. Intanto, nel merito della vicenda ricordiamo che la prima edizione (1946) delle memorie del leggendario comandante della Osoppo, Alvise Savorgnan di Brazzà ("Oberto"), "Fazzoletto verde", scomparve subito dalla circolazione; un vero successo di pubblico ma tale da non lasciar memoria; si sarebbe dovuto attendere fino al ’98 per la nuova edizione che allora è stata espunta dalla bibliografia della ministerial "Relazione storica".
Ma, attenzione, il "Diario" di Francesco De Gregori ("Bolla"), primo fucilato a Porzûs, è stato edito privatamente dall’associazione Osoppo solo nel 2002; l’edizione è un cult da bibliofili. Vorrà dunque significare qualcosa questo sostanziale silenzio, queste sforbiciate sulla trasmissione delle memorie di una parte non "allineata" a quella che ha strutturato la "vulgata resistenziale", e che vede il contributo fazioso e – peggio – ipocrita di istituzioni qualificate alla salvaguardia almeno burocratico-formale dei luoghi e dei simboli della memoria. Il mio intervento su "Avvenire" del 25 maggio si chiudeva facendo un minimo cenno, che ora ampliamo, all’ineffabilità della motivazione della medaglia d’oro a De Gregori: dopo aver combattuto alla fine del settembre ’44 nella zona montana del Torre-Natisone contro forze tedesche, «cadeva vittima di una situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un solo blocco le forze della Resistenza».
La motivazione è del gennaio 1954. Allora già una prima lapide, sul luogo dell’eccidio, ricordava i caduti «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina»; in una seconda, posta nel ’92 (visitata solo privatamente dall’allora capo dello Stato Francesco Cossiga dopo l’inaugurazione ufficiale), si legge che «i fatti di sangue qui compiuti ci ammoniscono che vanno rispettati in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità». Roba mazziniana. Non si vorrà ricordare davvero cosa sia successo a Porzûs! Da autorità pubbliche e istituzionali (vari ministeri competenti, istituzioni locali ecc.) non c’è da aspettarsi altro che funambolismi; le memorie dei protagonisti di quella tragica stagione non circolano; se qualcosa trapela da testimonianze e ricerche, i ministeri dispongono di burocrati pronti (anche con le forbici) a codificare l’opportunità dell’ipocrisia. Conclusione, siamo un Paese libero meno che dalla memoria.
Paolo Simoncelli
Nessun commento:
Posta un commento