venerdì 6 novembre 2009

Dal prof. Carlo Bellieni

Ian Birrell: Mind your language: words can cause terrible damage

"La promozione dei diritti dei disabili ha fatto un passo indietro nel decenio scorso mentre le scuole si concentravano sul razzismo e sull'omofobia", riferisce l'articolo. Noi crediamo che ogni discriminazione debba essere stigmatizzata e combattua, e che non si debba andare "per moda". E giustamente l'articolo sotolinea che si debba bandire il termine "ritardo mentale" dal linguaggio comune, talvolta usato come dispregiativo, mentre -aggiungiamo- è molto più corretto parlare di "malattia dell'apprendimento".

L'articolo poi ci ricorda come la nostra società sia piena di esempi di discriminazione culturale verso i disabili: le offese alle minoranze non solo offendono, ma ERODONO, cioè creano una cultura, o piuttosto distrugono una cultura. A proposito, un esempio è la satira sui politici relativa alla loro bassa statura. Può sembrare motivo di ilarità, ma cosa pensate che pensino le persone davvero affette da ritardo di crescita, quando sentono che la loro malattia è spunto per prendere in giro qualcuno? Si dirà che chi fa satira così vuole solo far ridere. Sì: ma credo che le persone di bassa statura (quelli che scorrettamente vengono chiamate "nane"), che già hanno problemi per la loro situazione, non siano felici di sentire che il nanismo viene usato per deridere qualcuno.


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L
a giustizia britannica è stata posta di fronte a un dilemma dalle dimensioni colossali, (...)
. La vicenda rimanda alla delicata questione dei criteri etici da seguire nell’assistenza ai malati irreversibili ( o che tali vengono considerati dalla scienza che ci vorrebbe tutti sani e perfetti): termini come diritto di vivere, diritto di morire, diritto di cura sono diventati ormai parte del linguaggio comune e sempre più presenti nel dibattito culturale e sociale. « Ci sono innanzitutto due cose da tener presenti – commenta Carlo Bellieni, neonatologo del Dipartimento di pediatria, ostetricia e medicina della riproduzione dell’Università di Siena –, che sono concetti molto semplici. Si tratta dei criteri da seguire nell’assistenza a questo tipo di malati, che sono quello di utilità e di sopportabilità.
Come prima cosa occorre capire se ciò che si intende fare è utile a prolungare la vita del paziente in maniera significativa. Se la risposta è affermativa, si deve poi rispettare il secondo criterio: va bene tenere in vita il paziente a lungo, ma può sopportare il trattamento? Qualunque medico deve muoversi su questi due livelli» .

S
econdo Bellieni, subentrano poi altre due questioni importanti che è bene puntualizzare. « I genitori, al pari dei medici – aggiunge – non possono essere arbitri della vita di un’altra persona, anche se si tratta del loro figlio. Il caso della coppia inglese mostra come possano non essere d’accordo sulle decisioni da prendere. Si corre poi il rischio che le cure vengano sospese perché sono i genitori stessi a non sopportare la situazione. Infine, la nostra cultura associa la disabilità all’idea di una vita invivibile.
Spesso, invece, se sono presenti condizioni esterne di affetto e di cura adeguate, quella vita è come qualsiasi altra. Quindi: no all’accanimento terapeutico, ma no anche all’handifobia sempre più dilagante» .Elisabetta Del Soldato e Alessandra Turchetti

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