Mario Mazzarotto, distributore dell'opera di Wajda candidata all'Oscar che Berlusconi ha consigliato ai leader della nato. Il film sul massacro voluto da Stalin escluso dalla Mostra di Venezia, proiettato soltanto in 7 sale su 4mila. "Ho scritto a Franceschini, segretario del Pd: non mi ha neppure risposto"
Dal diario, anzi dal bestiario, di un onesto giornalista di sinistra: «Finalmente sono riuscito a vedere Katyn. È il film di Andrzej Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi, compiuto dai sovietici nella primavera 1940. Vennero uccisi uno per uno, con il colpo di rivoltella alla nuca. Ancora oggi non si conosce con certezza il numero degli assassinati, si va dai 4.000 ai 22.000. Molti erano civili chiamati alle armi. Venne così annientata la futura classe dirigente della Polonia. L’opera di Wajda è bellissima e straziante». Beato Giampaolo Pansa (Il Riformista). E beati i critici cinematografici che hanno avuto il suo stesso privilegio. Tullio Kezich (Corriere della Sera): «In un Paese che insiste a dirsi civile, questo sarebbe un film da vedere in piedi». Fabio Ferzetti (Il Messaggero): «Una lezione di storia». Natalino Bruzzone (Il Secolo XIX): «Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera».
Qualcosa non quadra. A due mesi dall’uscita, Katyn può vantare la circolazione di un samizdat. Su 107 capoluoghi di provincia, in questo fine settimana lo proiettano solo a Milano, Rimini e Napoli. Per vederlo altrove, bisogna rivolgersi ai cinema parrocchiali Don Fiorentini di Imola e Lanzi di Corridonia o al Capitol di Fiorenzuola d’Arda, circuito d’essai. In totale 7 cinema sui 4.000 sparsi in Italia. Lo 0,18 per cento delle sale.
Ma anche fra i giornalisti non tutti hanno avuto la fortuna di Pansa. Un esempio di cui ho conoscenza diretta: l’altro ieri ho dovuto percorrere 1.100 chilometri in auto fra andata e ritorno, arrivare sino a Pescara e cercare il più fantomatico indirizzo in cui mi sia mai imbattuto da quando perlustro il Belpaese: piazza 19 Da Denominare. Qualcosa che mi ha ricordato il limbo dei giusti scaraventati nelle fosse di Katyn, ma anche il tormento di una regione che deve provare a risollevarsi dal terremoto guidata da burocrati provvisti di una simile fantasia toponomastica. Qui in Abruzzo, nella sede della Gm produzioni, ho incontrato Mario Mazzarotto, l’uomo che ha portato Katyn in Italia. Nel Dvd che mi ha messo gentilmente a disposizione neppure la dicitura «Not for commercial use», in sovrimpressione dall’inizio alla fine, riesce a scalfire la potenza drammatica delle scene, tanto opprimente quanto priva di retorica. Alla fine restano solo i bottoni delle uniformi. Quelli cantati dal poeta Zbigniew Herbert, i «bottoni irriducibili testimoni del crimine»: «Hanno vinto la morte, risalgono dal fondo in superficie, unico monumento sulla loro tomba». Stanno lì a ricordare che «Dio terrà i conti».
Tutti incensano l’ottantatreenne Wajda, premio Oscar e Orso d’oro alla carriera, regista di capolavori come I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti, L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, premiato a Cannes nel 1981. Tutti parlano di Katyn, candidato all’Oscar 2008 come miglior film straniero e dedicato dal regista alla memoria del padre Jakub, capitano del 72° reggimento di fanteria trucidato nel villaggio russo sul fiume Dnepr. Tutti gli addetti ai lavori lo reputano un film struggente. Ma agli italiani è vietato vederlo. Appena in 20.000, a tutt’oggi, ci sono riusciti. Persino il presidente del Consiglio è stato costretto a procurarsene una copia di cortesia e a guardarselo privatamente di notte, in una camera d’albergo, mentre partecipava al vertice della Nato a Strasburgo. Il giorno dopo ne ha raccomandato la visione a tutti i leader dell’Alleanza atlantica e subito il premier britannico Gordon Brown ha seguito il suo consiglio.
Sì, qualcosa non quadra. Proiezioni carbonare nei cinema parrocchiali. Spettatori che si mettono pazientemente in fila davanti al botteghino e vengono rimandati a casa per esaurimento dei posti. Due centimetri di rassegna stampa, 137 pagine raccolte in poche settimane da Press index, dove le parole più ricorrenti nei titoli sono «boicottato», «nascosto», «segreto». Quando il produttore cinematografico Mazzarotto, amministratore unico della Movimento Film che s’è assicurata i diritti di distribuzione di Katyn, ha scelto come sottotitolo per l’edizione italiana Il mistero di un crimine mai raccontato, tutto avrebbe immaginato tranne che di vederselo correggere da una censura invisibile e ferrigna. Adesso tanto varrebbe modificarlo: Il mistero di un crimine che non deve essere raccontato.
La storia si ripete. Per mezzo secolo l’Unione Sovietica attribuì ai nazisti l’eccidio di Katyn. Data l’esperienza di Adolf Hitler nel ramo, il mondo intero non coltivò molti dubbi in proposito. Si dovette aspettare la glasnost, la trasparenza introdotta da Michail Gorbaciov nel 1990, per conoscere la verità già affiorata al processo di Norimberga ma sempre negata dalla macchina propagandistica bolscevica: la strage dei 22.000 ufficiali polacchi era stata ordinata da Stalin.
Per averci voluto ricordare sullo schermo questa verità, Mazzarotto ha già perso finora 150.000 euro, che per una casa di distribuzione piccola e indipendente sono una seria ipoteca. Negli Anni 50 non andò meglio al professor Vincenzo Maria Palmieri, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Napoli, uno dei 12 anatomopatologi che su mandato della Croce rossa internazionale esaminarono i cadaveri degli ufficiali polacchi dissepolti a Katyn nell’aprile 1943. A causa del suo referto inconfutabile - «il crimine fu commesso dai sovietici» - Palmieri venne fatto oggetto di un feroce linciaggio morale a opera dell’Unità diretta dall’ex partigiano Mario Alicata, deputato del Pci. Il braccio destro di Palmiro Togliatti arrivò a pretendere che il docente fosse privato della cattedra. Per cui oggi si stenta a credere che lo stesso giornale, lo scorso 13 febbraio, abbia potuto salutare l’uscita di Katyn sugli schermi con queste parole: «Vederlo, per chi si è riconosciuto nella storia del comunismo, è compiere un atto di giustizia». Pudicamente precedute da un’evasiva annotazione: «Molti lettori dell’Unità sanno bene di cosa stiamo parlando». Già.
Ha avuto solo rogne da questo film.
«No, anche un’emozione indescrivibile. È stato quando ho portato i rulli originali alla Award network per farli doppiare. Nel buio della sala di Cinecittà ho sentito Anna, Andrzej, Jerzy, Róza, Piotr, Agnieszka e tutti gli altri personaggi parlare per la prima volta in italiano. Ecco, hanno preso vita grazie a te, mi sono detto».
Da quanti anni fa il produttore?
«Da 15, con la Intelfilm. Il distributore solo da un paio, con la Movimento Film».
È ricco di famiglia?
«Magari. I Carlo Ponti e i Dino De Laurentiis sono scomparsi da un bel pezzo. Oggi il produttore è solo un normale professionista che riesce a mettere insieme finanziamenti privati e statali per realizzare un film. Io mi dedico in particolare al cinema di qualità».
Allora sarà figlio d’arte.
«Neppure. Sono nato nel 1965 a Treviso e ho vissuto a Venezia, Napoli e Roma, le città dove ha lavorato mio padre, funzionario della Bnl. Nella capitale ho frequentato il liceo classico Visconti e l’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico».
Nel 1986 recitava come attore in «Una domenica sì» con Elena Sofia Ricci e Nik Novecento. E vent’anni fa in «Tempo di uccidere» di Giuliano Montaldo. Poi ha deciso di passare dietro la macchina da presa. Perché?
«Perché non ero bravo. Me la sono sempre cavata meglio come organizzatore. Ho cominciato negli Anni 90 con un programma per Raitre. S’intitolava Ultimo minuto. Brevi filmati che ricostruivano casi veri, salvataggi d’emergenza, girati da Gabriele Muccino, che poi sarebbe diventato regista di successo. Ho lavorato anche per Format di Giovanni Minoli, da cui è venuta fuori Milena Gabanelli».
Insomma, non è un destrorso. E del resto la sua Intelfilm ha lavorato con i compagni Citto Maselli, Lina Wertmüller, Paolo Virzì, Daniele Vicari.
«Mi considero un moderato attento a far parlare le teste e non le ideologie».
Chiariamo subito: «Katyn» non va nei cinema perché è un film privo di appeal commerciale per il grande pubblico o perché lo stanno boicottando?
«Se il Corriere, pubblicato a Milano, scrive che questo è un film da vedere sull’attenti, ma i lettori non trovano un solo cinema di Milano dove lo si proietti, io dico che siamo di fronte a una censura culturale in piena regola. Questo è stato il piazzamento, come diciamo in gergo, nella prima settimana di Katyn. Appena 8 sale in tutta Italia, fra Roma, Torino, Firenze, Genova, Pesaro e Molfetta. Non riesco a farlo dare neppure nella mia città d’origine, Treviso: solo al cinema Manzoni di Paese, dal 21 aprile. E l’aspetto più surreale della vicenda è che sono sommerso da mail, lettere e telefonate d’ingiurie da parte di cittadini che mi definiscono comunista, fazioso, disonesto, incapace. Pensano che il censore sia io!».
Com’è potuto accadere?
«A decretare il successo di un film è il debutto nelle 12 città capozona: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania, Cagliari, Ancona. I due terzi di esse a Katyn sono state precluse. Non solo: devi arrivare nelle sale più importanti, appena un centinaio su 4.000. Prenda Roma: sono Quattro Fontane, Mignon, Eden, Intrastevere e Fiamma. Ma a noi hanno aperto le porte unicamente Farnese, Madison e Nuovo Aquila. A Milano c’è voluto l’intervento di un’organizzazione culturale, Sentieri del cinema, per farci arrivare dal 3 aprile al Palestrina, una sala parrocchiale. Soltanto da questo week-end siamo anche al Centrale».
E come si conquistano le sale importanti?
«Bisogna entrare nelle grazie di Circuito Cinema, una società che raggruppa i vari proprietari e fa capo alle case di produzione e distribuzione Medusa, Lucky Red, Mikado, 01, Bim e all’Istituto Luce».
Lei non c’è entrato.
«Avevo parlato con Circuito Cinema. Non sono mica pazzo. Mi era stata promessa visibilità per Katyn. Ma all’ultimo momento si sono tirati indietro, accampando mille scuse: “Non è il momento, troppi film...”».
Doveva farsi consigliare da Pansa: «La sinistra non vuole la verità su quanto è avvenuto sino al 1948. Non la vuole perché la “sua” verità, gonfia di menzogne, l’ha già imposta in tutte le sedi: la cultura, la ricerca storica, i testi scolastici, il cinema».
«È un film scomodo, c’è poco da fare. Di fronte al quale la sinistra è rimasta in rigoroso silenzio. Ho scritto al segretario del Pd, Dario Franceschini. Non mi ha neppure risposto. Io stesso, prima d’incontrare Wajda, non sapevo nulla di questa carneficina. Non me ne avevano certo parlato a scuola. In vista della prima romana del film, ho organizzato un viaggio in Polonia per un gruppo di giornalisti, giovani e meno giovani, e la vuol sapere una cosa? Metà di loro, forse di più, non aveva mai sentito parlare di questa località e di ciò che vi era accaduto. Così, al momento di scegliere il titolo italiano per il film, mi sono chiesto: ma i miei connazionali sapranno che cos’è Katyn, non lo scambieranno per un nome di donna o per la traduzione slava di catino? Alla fine ho deciso che era giusto tenere il titolo originale. E oggi posso almeno attribuirmi questo piccolo merito: la gente sa che cos’è Katyn anche senza aver visto il film».
È del 2007. Due anni per arrivare sugli schermi.
«Se non fossi andato io a Varsavia, in Italia non sarebbe mai giunto. Non sto a raccontarle le difficoltà con la Tv di Stato polacca, che detiene i diritti per la distribuzione all’estero. Un funzionario è stato persino rimosso durante le trattative. Wajda ha visto personalmente una nota scritta a mano nella quale un alto dirigente ipotizzava il fallimento dell’iniziativa “per ragioni politiche”. Katyn è stato oscurato in tutta Europa, l’anziano regista sa di molti distributori che lo hanno acquistato solo per non farlo vedere».
E in Polonia?
«Ha incassato come nemmeno i film dei Vanzina da noi: 3,6 milioni di spettatori. Wajda mi ha raccontato che cos’è accaduto alla prima a Varsavia. Ci sono questi dieci minuti finali raggelanti. La dignità degli ufficiali polacchi che vanno a morire uno dietro l’altro, le mani legate col fil di ferro, il colpo di grazia con la baionetta per i pochi ancora vivi dopo l’esecuzione, le ruspe che ricoprono di terra le fosse. Non c’è disperazione, non ci sono urla, non c’è nulla di nulla. Solo sangue e un Pater noster recitato sommessamente, interrotto dalla pistolettata alla nuca e subito ripreso dal commilitone che segue. Alla fine del film, nel buio della sala, uno spettatore s’è alzato in piedi a pregare e ha invitato tutti a fare altrettanto. L’orazione collettiva s’è fusa col canto funebre in latino che scorre sullo schermo nero prima dei titoli di coda».
Ha avuto la nomination all’Oscar, è andato al Festival di Berlino, eppure è stato rifiutato alla Mostra di Venezia. In compenso al Lido hanno ammesso «Un Paese diverso» di Silvio Soldini, il documentario pagato dalle Coop. Com’è possibile?
«Dovrebbe chiederlo a Marco Müller, direttore della Biennale Cinema. Parliamoci chiaro: in Italia il cinema è un sistema di appartenenza dominato dalla sinistra».
Vabbè che Berlusconi non si occupa più delle sue aziende, però resta pur sempre il mero proprietario della Medusa. Allora perché «Katyn» è stato lasciato alla Movimento Film?
«La verità è che tutte le case di distribuzione, tutte, avevano visto il film di Wajda, ma si sono ben guardate dal prenderlo. Ora Medusa home video farà il Dvd per il noleggio privato. Sto battendomi perché arrivi nelle videoteche al più presto, prima dell’estate».
Niente televisione?
«Ho ceduto i diritti a Rai Cinema, senza il cui contributo sarei già fallito. Però per contratto non può trasmetterlo prima di due anni dall’uscita».
Ma qualcuno avrà spiegato al Cavaliere che il suo amico Vladimir Putin ne ha proibito la visione in Russia?
«Come scrive lo storico Victor Zaslavsky nel libro Pulizia di classe dedicato all’eccidio, è stato Putin a ordinare l’archiviazione dell’inchiesta su Katyn che aveva ereditato dai predecessori Gorbaciov ed Eltsin».
Fosse ancora vivo il Papa polacco, le sorti di «Katyn» sarebbero state diverse?
«Completamente».
Si aspettava un simile trattamento?
«Mai e poi mai. E continuo a ripetermi che, se l’avessi saputo prima, non avrei certo distribuito il film. Poi però ci rifletto e concludo che no, rifarei tutto ciò che ho fatto. Non perché sia un idealista. Ma per quei 22.000 nelle fosse, senza una lapide, senza un fiore».
Dal diario, anzi dal bestiario, di un onesto giornalista di sinistra: «Finalmente sono riuscito a vedere Katyn. È il film di Andrzej Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi, compiuto dai sovietici nella primavera 1940. Vennero uccisi uno per uno, con il colpo di rivoltella alla nuca. Ancora oggi non si conosce con certezza il numero degli assassinati, si va dai 4.000 ai 22.000. Molti erano civili chiamati alle armi. Venne così annientata la futura classe dirigente della Polonia. L’opera di Wajda è bellissima e straziante». Beato Giampaolo Pansa (Il Riformista). E beati i critici cinematografici che hanno avuto il suo stesso privilegio. Tullio Kezich (Corriere della Sera): «In un Paese che insiste a dirsi civile, questo sarebbe un film da vedere in piedi». Fabio Ferzetti (Il Messaggero): «Una lezione di storia». Natalino Bruzzone (Il Secolo XIX): «Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera».
Qualcosa non quadra. A due mesi dall’uscita, Katyn può vantare la circolazione di un samizdat. Su 107 capoluoghi di provincia, in questo fine settimana lo proiettano solo a Milano, Rimini e Napoli. Per vederlo altrove, bisogna rivolgersi ai cinema parrocchiali Don Fiorentini di Imola e Lanzi di Corridonia o al Capitol di Fiorenzuola d’Arda, circuito d’essai. In totale 7 cinema sui 4.000 sparsi in Italia. Lo 0,18 per cento delle sale.
Ma anche fra i giornalisti non tutti hanno avuto la fortuna di Pansa. Un esempio di cui ho conoscenza diretta: l’altro ieri ho dovuto percorrere 1.100 chilometri in auto fra andata e ritorno, arrivare sino a Pescara e cercare il più fantomatico indirizzo in cui mi sia mai imbattuto da quando perlustro il Belpaese: piazza 19 Da Denominare. Qualcosa che mi ha ricordato il limbo dei giusti scaraventati nelle fosse di Katyn, ma anche il tormento di una regione che deve provare a risollevarsi dal terremoto guidata da burocrati provvisti di una simile fantasia toponomastica. Qui in Abruzzo, nella sede della Gm produzioni, ho incontrato Mario Mazzarotto, l’uomo che ha portato Katyn in Italia. Nel Dvd che mi ha messo gentilmente a disposizione neppure la dicitura «Not for commercial use», in sovrimpressione dall’inizio alla fine, riesce a scalfire la potenza drammatica delle scene, tanto opprimente quanto priva di retorica. Alla fine restano solo i bottoni delle uniformi. Quelli cantati dal poeta Zbigniew Herbert, i «bottoni irriducibili testimoni del crimine»: «Hanno vinto la morte, risalgono dal fondo in superficie, unico monumento sulla loro tomba». Stanno lì a ricordare che «Dio terrà i conti».
Tutti incensano l’ottantatreenne Wajda, premio Oscar e Orso d’oro alla carriera, regista di capolavori come I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti, L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, premiato a Cannes nel 1981. Tutti parlano di Katyn, candidato all’Oscar 2008 come miglior film straniero e dedicato dal regista alla memoria del padre Jakub, capitano del 72° reggimento di fanteria trucidato nel villaggio russo sul fiume Dnepr. Tutti gli addetti ai lavori lo reputano un film struggente. Ma agli italiani è vietato vederlo. Appena in 20.000, a tutt’oggi, ci sono riusciti. Persino il presidente del Consiglio è stato costretto a procurarsene una copia di cortesia e a guardarselo privatamente di notte, in una camera d’albergo, mentre partecipava al vertice della Nato a Strasburgo. Il giorno dopo ne ha raccomandato la visione a tutti i leader dell’Alleanza atlantica e subito il premier britannico Gordon Brown ha seguito il suo consiglio.
Sì, qualcosa non quadra. Proiezioni carbonare nei cinema parrocchiali. Spettatori che si mettono pazientemente in fila davanti al botteghino e vengono rimandati a casa per esaurimento dei posti. Due centimetri di rassegna stampa, 137 pagine raccolte in poche settimane da Press index, dove le parole più ricorrenti nei titoli sono «boicottato», «nascosto», «segreto». Quando il produttore cinematografico Mazzarotto, amministratore unico della Movimento Film che s’è assicurata i diritti di distribuzione di Katyn, ha scelto come sottotitolo per l’edizione italiana Il mistero di un crimine mai raccontato, tutto avrebbe immaginato tranne che di vederselo correggere da una censura invisibile e ferrigna. Adesso tanto varrebbe modificarlo: Il mistero di un crimine che non deve essere raccontato.
La storia si ripete. Per mezzo secolo l’Unione Sovietica attribuì ai nazisti l’eccidio di Katyn. Data l’esperienza di Adolf Hitler nel ramo, il mondo intero non coltivò molti dubbi in proposito. Si dovette aspettare la glasnost, la trasparenza introdotta da Michail Gorbaciov nel 1990, per conoscere la verità già affiorata al processo di Norimberga ma sempre negata dalla macchina propagandistica bolscevica: la strage dei 22.000 ufficiali polacchi era stata ordinata da Stalin.
Per averci voluto ricordare sullo schermo questa verità, Mazzarotto ha già perso finora 150.000 euro, che per una casa di distribuzione piccola e indipendente sono una seria ipoteca. Negli Anni 50 non andò meglio al professor Vincenzo Maria Palmieri, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Napoli, uno dei 12 anatomopatologi che su mandato della Croce rossa internazionale esaminarono i cadaveri degli ufficiali polacchi dissepolti a Katyn nell’aprile 1943. A causa del suo referto inconfutabile - «il crimine fu commesso dai sovietici» - Palmieri venne fatto oggetto di un feroce linciaggio morale a opera dell’Unità diretta dall’ex partigiano Mario Alicata, deputato del Pci. Il braccio destro di Palmiro Togliatti arrivò a pretendere che il docente fosse privato della cattedra. Per cui oggi si stenta a credere che lo stesso giornale, lo scorso 13 febbraio, abbia potuto salutare l’uscita di Katyn sugli schermi con queste parole: «Vederlo, per chi si è riconosciuto nella storia del comunismo, è compiere un atto di giustizia». Pudicamente precedute da un’evasiva annotazione: «Molti lettori dell’Unità sanno bene di cosa stiamo parlando». Già.
Ha avuto solo rogne da questo film.
«No, anche un’emozione indescrivibile. È stato quando ho portato i rulli originali alla Award network per farli doppiare. Nel buio della sala di Cinecittà ho sentito Anna, Andrzej, Jerzy, Róza, Piotr, Agnieszka e tutti gli altri personaggi parlare per la prima volta in italiano. Ecco, hanno preso vita grazie a te, mi sono detto».
Da quanti anni fa il produttore?
«Da 15, con la Intelfilm. Il distributore solo da un paio, con la Movimento Film».
È ricco di famiglia?
«Magari. I Carlo Ponti e i Dino De Laurentiis sono scomparsi da un bel pezzo. Oggi il produttore è solo un normale professionista che riesce a mettere insieme finanziamenti privati e statali per realizzare un film. Io mi dedico in particolare al cinema di qualità».
Allora sarà figlio d’arte.
«Neppure. Sono nato nel 1965 a Treviso e ho vissuto a Venezia, Napoli e Roma, le città dove ha lavorato mio padre, funzionario della Bnl. Nella capitale ho frequentato il liceo classico Visconti e l’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico».
Nel 1986 recitava come attore in «Una domenica sì» con Elena Sofia Ricci e Nik Novecento. E vent’anni fa in «Tempo di uccidere» di Giuliano Montaldo. Poi ha deciso di passare dietro la macchina da presa. Perché?
«Perché non ero bravo. Me la sono sempre cavata meglio come organizzatore. Ho cominciato negli Anni 90 con un programma per Raitre. S’intitolava Ultimo minuto. Brevi filmati che ricostruivano casi veri, salvataggi d’emergenza, girati da Gabriele Muccino, che poi sarebbe diventato regista di successo. Ho lavorato anche per Format di Giovanni Minoli, da cui è venuta fuori Milena Gabanelli».
Insomma, non è un destrorso. E del resto la sua Intelfilm ha lavorato con i compagni Citto Maselli, Lina Wertmüller, Paolo Virzì, Daniele Vicari.
«Mi considero un moderato attento a far parlare le teste e non le ideologie».
Chiariamo subito: «Katyn» non va nei cinema perché è un film privo di appeal commerciale per il grande pubblico o perché lo stanno boicottando?
«Se il Corriere, pubblicato a Milano, scrive che questo è un film da vedere sull’attenti, ma i lettori non trovano un solo cinema di Milano dove lo si proietti, io dico che siamo di fronte a una censura culturale in piena regola. Questo è stato il piazzamento, come diciamo in gergo, nella prima settimana di Katyn. Appena 8 sale in tutta Italia, fra Roma, Torino, Firenze, Genova, Pesaro e Molfetta. Non riesco a farlo dare neppure nella mia città d’origine, Treviso: solo al cinema Manzoni di Paese, dal 21 aprile. E l’aspetto più surreale della vicenda è che sono sommerso da mail, lettere e telefonate d’ingiurie da parte di cittadini che mi definiscono comunista, fazioso, disonesto, incapace. Pensano che il censore sia io!».
Com’è potuto accadere?
«A decretare il successo di un film è il debutto nelle 12 città capozona: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania, Cagliari, Ancona. I due terzi di esse a Katyn sono state precluse. Non solo: devi arrivare nelle sale più importanti, appena un centinaio su 4.000. Prenda Roma: sono Quattro Fontane, Mignon, Eden, Intrastevere e Fiamma. Ma a noi hanno aperto le porte unicamente Farnese, Madison e Nuovo Aquila. A Milano c’è voluto l’intervento di un’organizzazione culturale, Sentieri del cinema, per farci arrivare dal 3 aprile al Palestrina, una sala parrocchiale. Soltanto da questo week-end siamo anche al Centrale».
E come si conquistano le sale importanti?
«Bisogna entrare nelle grazie di Circuito Cinema, una società che raggruppa i vari proprietari e fa capo alle case di produzione e distribuzione Medusa, Lucky Red, Mikado, 01, Bim e all’Istituto Luce».
Lei non c’è entrato.
«Avevo parlato con Circuito Cinema. Non sono mica pazzo. Mi era stata promessa visibilità per Katyn. Ma all’ultimo momento si sono tirati indietro, accampando mille scuse: “Non è il momento, troppi film...”».
Doveva farsi consigliare da Pansa: «La sinistra non vuole la verità su quanto è avvenuto sino al 1948. Non la vuole perché la “sua” verità, gonfia di menzogne, l’ha già imposta in tutte le sedi: la cultura, la ricerca storica, i testi scolastici, il cinema».
«È un film scomodo, c’è poco da fare. Di fronte al quale la sinistra è rimasta in rigoroso silenzio. Ho scritto al segretario del Pd, Dario Franceschini. Non mi ha neppure risposto. Io stesso, prima d’incontrare Wajda, non sapevo nulla di questa carneficina. Non me ne avevano certo parlato a scuola. In vista della prima romana del film, ho organizzato un viaggio in Polonia per un gruppo di giornalisti, giovani e meno giovani, e la vuol sapere una cosa? Metà di loro, forse di più, non aveva mai sentito parlare di questa località e di ciò che vi era accaduto. Così, al momento di scegliere il titolo italiano per il film, mi sono chiesto: ma i miei connazionali sapranno che cos’è Katyn, non lo scambieranno per un nome di donna o per la traduzione slava di catino? Alla fine ho deciso che era giusto tenere il titolo originale. E oggi posso almeno attribuirmi questo piccolo merito: la gente sa che cos’è Katyn anche senza aver visto il film».
È del 2007. Due anni per arrivare sugli schermi.
«Se non fossi andato io a Varsavia, in Italia non sarebbe mai giunto. Non sto a raccontarle le difficoltà con la Tv di Stato polacca, che detiene i diritti per la distribuzione all’estero. Un funzionario è stato persino rimosso durante le trattative. Wajda ha visto personalmente una nota scritta a mano nella quale un alto dirigente ipotizzava il fallimento dell’iniziativa “per ragioni politiche”. Katyn è stato oscurato in tutta Europa, l’anziano regista sa di molti distributori che lo hanno acquistato solo per non farlo vedere».
E in Polonia?
«Ha incassato come nemmeno i film dei Vanzina da noi: 3,6 milioni di spettatori. Wajda mi ha raccontato che cos’è accaduto alla prima a Varsavia. Ci sono questi dieci minuti finali raggelanti. La dignità degli ufficiali polacchi che vanno a morire uno dietro l’altro, le mani legate col fil di ferro, il colpo di grazia con la baionetta per i pochi ancora vivi dopo l’esecuzione, le ruspe che ricoprono di terra le fosse. Non c’è disperazione, non ci sono urla, non c’è nulla di nulla. Solo sangue e un Pater noster recitato sommessamente, interrotto dalla pistolettata alla nuca e subito ripreso dal commilitone che segue. Alla fine del film, nel buio della sala, uno spettatore s’è alzato in piedi a pregare e ha invitato tutti a fare altrettanto. L’orazione collettiva s’è fusa col canto funebre in latino che scorre sullo schermo nero prima dei titoli di coda».
Ha avuto la nomination all’Oscar, è andato al Festival di Berlino, eppure è stato rifiutato alla Mostra di Venezia. In compenso al Lido hanno ammesso «Un Paese diverso» di Silvio Soldini, il documentario pagato dalle Coop. Com’è possibile?
«Dovrebbe chiederlo a Marco Müller, direttore della Biennale Cinema. Parliamoci chiaro: in Italia il cinema è un sistema di appartenenza dominato dalla sinistra».
Vabbè che Berlusconi non si occupa più delle sue aziende, però resta pur sempre il mero proprietario della Medusa. Allora perché «Katyn» è stato lasciato alla Movimento Film?
«La verità è che tutte le case di distribuzione, tutte, avevano visto il film di Wajda, ma si sono ben guardate dal prenderlo. Ora Medusa home video farà il Dvd per il noleggio privato. Sto battendomi perché arrivi nelle videoteche al più presto, prima dell’estate».
Niente televisione?
«Ho ceduto i diritti a Rai Cinema, senza il cui contributo sarei già fallito. Però per contratto non può trasmetterlo prima di due anni dall’uscita».
Ma qualcuno avrà spiegato al Cavaliere che il suo amico Vladimir Putin ne ha proibito la visione in Russia?
«Come scrive lo storico Victor Zaslavsky nel libro Pulizia di classe dedicato all’eccidio, è stato Putin a ordinare l’archiviazione dell’inchiesta su Katyn che aveva ereditato dai predecessori Gorbaciov ed Eltsin».
Fosse ancora vivo il Papa polacco, le sorti di «Katyn» sarebbero state diverse?
«Completamente».
Si aspettava un simile trattamento?
«Mai e poi mai. E continuo a ripetermi che, se l’avessi saputo prima, non avrei certo distribuito il film. Poi però ci rifletto e concludo che no, rifarei tutto ciò che ho fatto. Non perché sia un idealista. Ma per quei 22.000 nelle fosse, senza una lapide, senza un fiore».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
Nessun commento:
Posta un commento