Un paio di mesi fa Fede & Cultura ha dato alle stampe l'ultimo volume di Fabio Trevisan, "Quella cara vecchia pipa", un libro di schietto sapore chestertoniano che entra ne merito di diverse questioni su cui Chesterton martella piacevolmente il lettore.
Ho pensato di fare alcune domande a Fabio ritenendo che potessero essere utili a tutti, oltre che per dar modo a tutti di appropriarsi del libro e di legg
erlo.
erlo.
L'intervista merita di essere letta perché Fabio ci illustra le cose, come facevano i maestri della mia infanzia, con semplicità e profondità.
Inoltre, per parafrasare il titolo del libro (della cui ragione qui si dà conto), è un "caro vecchio amico" con cui è sempre piacevole intrattenersi a parlare.
Marco Sermarini
Come e quando ti è sorta l’idea di scrivere "Quella cara vecchia pipa"?
Mi sono sempre chiesto, soprattutto leggendo “L'Osteria volante”, il significato di quelle canzoni che l’oste Humphrey Pump e il marinaio Patrick Dalroy si canticchiavano, nel loro tentativo disperato di salvare ciò che era “piccolo, bello e terribilmente umano”, rappresentate dal barilotto di rum e dalla forma di formaggio rotolata per le strade polverose d’Inghilterra. I due fuggiaschi per la salvaguardia della libertà amavano bere, raccontare e canticchiare storie, preservando quella tradizione orale che da sempre ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di ogni uomo, appresa sulle ginocchia della madre e confermata dall’autorità paterna. Al contrario di loro, la nostra società ha disdegnato o trascurato il canto, quel canto (talvolta anche stonato) che un tempo si udiva nelle case, nelle piazze, nei luoghi di lavoro e che spesso accompagnava le fatiche quotidiane. Quelle canzoni non erano quindi solo delle mere canzonette ma acquisivano un importante valore simbolico di lotta per un’autentica libertà. Ai giorni nostri non si canta più se non nei cosiddetti “luoghi deputati”: teatri, arene o alla TV. Non ci sono più quegli osti e quei marinai liberi e coraggiosi che possono andare controcorrente, che possono anche cantare ed inneggiare con fierezza nelle pubbliche piazze, nelle osterie, nelle case, ovvero nei luoghi “non deputati” dove germoglia la vita e l’umanità. Quest’intuizione, accompagnata dal mio amore appassionato per il canto, è stata confermata dalla canzone che Chesterton udì negli USA da un lavoratore scozzese. Si trattava di “quella cara vecchia pipa” annotata da Gilbert nel suo taccuino e riportata, con spiegazioni, in “Eugenetica e altri mali”. L’idea di scrivere questo saggio su quegli aspetti solitamente trascurati di Chesterton mi ha fatto sorgere il sospetto che, paradossalmente, quelle canzoni, quelle piccole cose reputate spesso di poco conto, costituissero invece la cifra esatta entro cui scorgere la grandezza e la santità di Gilbert Keith Chesterton. Più che nei convegni e negli studi accademici (senza nulla togliere a questi), Chesterton lo si può ritrovare ancora adesso nelle antiche osterie, assieme a Dalroy e Pump, in quanto egli è uno di loro, che ama conversare davanti a un bicchiere di vino e ad un pezzo di formaggio. In quei posti Chesterton si sentiva davvero, come lui stesso amava definirsi, soltanto un uomo. Credo che dovremmo ricreare occasioni, come il Chesterton Day di Grottammare, affinché egli possa sentirsi bene, a casa, fra amici, bevendo, mangiando, cantando, raccontando storie. L’idea di scrivere “Quella cara vecchia pipa” nasce dalla volontà di parlare di Chesterton ma soprattutto lasciare che sia lui a parlare. Il saggio si conclude infatti con un’intervista postuma impossibile per far sì che egli possa ancora dire l’ultima parola.
Quanto è importante in Chesterton l’idea di tradizione?
Una domanda ben posta, come questa, è già una risposta! Chesterton distingueva tra idee e fatti, come scriveva nel 1929: “I fatti hanno almeno una loro concretezza finché durano: ma l’aspetto fatale che li riguarda è che non durano. Solo le idee durano”. Si arguisce quindi che essendo la tradizione una continuità tra passato, presente e futuro non può essere meramente un “fatto”, poiché i fatti, al contrario delle idee e della tradizione, non durano. Scriveva ancora Chesterton: “Scopriamo che i fatti, che sembrano così concreti, sono le realtà più instabili”. Anni prima, in Ciò che non va nel mondo, Chesterton implorava di disfarsi del proprio agnosticismo quotidiano e tentare di rerum cognoscere causas. Egli voleva che cercassimo le cause, guardando al passato, senza paura: “Sono le generazioni passate, non quelle a venire, che bussano al nostro uscio. Fa comodo scappare in via del Dopo, dove si trova la locanda del Mai… Il risultato di questo atteggiamento moderno è che gli uomini inventano nuovi ideali perché non hanno il coraggio di tentare di perseguire quegli vecchi. Guardano avanti con entusiasmo perché hanno paura di guardare indietro”. Anche in "Ortodossia" parlava di tradizione come “democrazia dei morti”, nel senso di collegamento ineludibile con il passato. Non possiamo chiudere al nostro passato la porta in faccia! Chesterton sferzava in questo modo chi rifiutava la tradizione, l’eredità dei nostri predecessori: “Tutti gli uomini che, nel corso della storia, hanno davvero realizzato qualcosa, avevano lo sguardo rivolto al passato… per qualche strana ragione l’uomo pianta sempre i propri alberi da frutto in un cimitero. L’uomo può trovare la vita soltanto in mezzo ai morti. L’uomo è un mostro deforme, con i piedi rivolti in avanti e la testa girata indietro. Può creare un futuro lussureggiante e ciclopico soltanto fintanto che pensa al passato”. Con queste parole magnifiche e chiare, Chesterton insisteva su un gioioso paradosso, apparentemente, ma solo apparentemente, triste: “L’uomo può trovare la vita soltanto in mezzo ai morti”. Dobbiamo però fare attenzione a quella che lui chiamava “Tradizione della Caduta” (il peccato originale) e quelle che denominava tradizioni con la “t” minuscola. Non si tratta di una distinzione aristocratica, che Chesterton avversava, tra tradizioni maggiori o minori: l’una, la Tradizione della Caduta, costituisce la disobbedienza della volontà umana alla Volontà divina e determina il tonfo della Caduta originaria dell’uomo nel peccato; le seconde, le “t” minuscole, sono il retaggio degli uomini in quanto uomini e peccatori, che cercano di ridurre, con la grazia di Dio e con le buone opere, il distacco da quell’Eden in cui Dio li aveva inizialmente collocati. Nell’"Uomovivo" Chesterton ricorda le condizioni di vita dopo la Caduta e fa dire ad Innocenzo Smith: “Mi son fatto pellegrino per guarirmi dall’essere un esiliato”. Nella drammatica (drammatica e non tragica, in quanto redenta da Cristo) condizione della Caduta, il pellegrino cerca una via di guarigione e di redenzione e passa il testimone di questa ricerca a noi tutti: la Tradizione della Caduta, inaugurata dai nostri antenati Adamo ed Eva, viene a collegarsi con tutte quelle sane, democratiche tradizioni che i morti ci consegnano. Chesterton diceva che una delle principali cose sbagliate è la profonda e silenziosa convinzione moderna che le idee del passato siano diventate impossibili. Certo, ci sono tradizioni e tradizioni e non tutte le tradizioni sono buone: “Se il letto che ho costruito è scomodo, a Dio piacendo lo rifarò”. La prima libertà che Chesterton rivendicava era quella di poter restaurare l’idea di tradizione. Le sacre idee del passato potevano diventare possibili ed anche le lancette dell’orologio si potevano spostare all’indietro: i nostri cari defunti potevano ancora una volta prender parola nel consesso dei viventi, o meglio degli uomini vivi.
Qual è il cuore dell’idea di tradizione nel complesso del pensiero di Chesterton?
Nella risposta precedente avevo accennato alle “democratiche tradizioni” ed al concetto di tradizione come “democrazia dei morti”, così come espresso da Chesterton in Ortodossia : “Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. E’ la democrazia dei morti”. Dobbiamo ora precisare, a scanso di equivoci, cosa intendesse Chesterton per “democrazia”. Mi è capitato spesso di veder sgranati gli occhi in segno di disapprovazione dinanzi ad affermazioni che salvaguardassero la democrazia, figuriamoci se presentata, così come la sosteneva Chesterton, in armonia con la tradizione: “Non ho mai capito perché la gente si sia formata la convinzione che la democrazia contrasti, in qualche modo, alla tradizione. E’ ovvio che la tradizione non è che la democrazia estesa nel tempo. E’ la fiducia nel consenso delle voci comuni dell’umanità piuttosto che in qualche nota isolata e arbitraria… Io non posso separare le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea”. Mi verrebbe da dire, parafrasando lo stesso Chesterton, che nessuno osi dividere ciò che Chesterton ha unito! Anch’io non posso osare tanto e preferisco approfondire l’indivisibilità delle due idee, così come suggerita ancora in "Ortodossia": “Tutto il principio della democrazia, come io lo intendo, può essere sancito in due proposizioni. La prima è questa: che le cose comuni a tutti gli uomini sono più importanti di quelle particolari ai singoli uomini. Le cose ordinarie hanno più valore di quelle straordinarie; anzi, sono più straordinarie… Il secondo principio è semplicemente questo: che l’istinto o il desiderio politico è una delle cose che gli uomini hanno in comune”. Da questi principi democratici ne derivava la seguente affermazione: “La fede democratica è questa: che le cose più terribilmente importanti debbono essere lasciate agli uomini ordinari (l’accoppiamento dei sessi, l’allevamento dei giovani, le leggi dello Stato). Questo è la democrazia; e in questo ho sempre creduto”. Anche nell’emblematico volume "L'Uomo comune" Chesterton scriveva: “E’ certo che molti pensatori e scrittori moderni provano un vero disprezzo per l’uomo comune; è altrettanto certo che io stesso provo disprezzo per coloro che provano tale disprezzo”. Senza queste considerazioni non si potrebbe capire l’essenza di alcuni suoi romanzi, come Uomovivo, dove Innocenzo Smith incarna la “democrazia dei morti”, di colui che morto spiritualmente nel pessimistico Brakespeare College rinasce e fa rinascere chi incontra a Casa Beacon con la paradossale pistola che dispensa pallottole per la vita, ovvero pillole salutari per la salvezza dell’anima di ciascun uomo comune; oppure nell’Osteria volante, dove i due eroi sono ancora due umili e gloriose persone ordinarie: un oste e un marinaio. Anche qui contrapposte, non a caso, all’intellettualismo nietzscheano di Lord Ivywood, così come l’uomo vivo era contrapposto al rettore del collegio. Nel suo primo romanzo, Il Napoleone di Notting Hill, Adam Wayne, l’eroe del quartiere londinese che si ribella alla superbia ed all’arroganza del potere centrale, va a chiedere aiuto alle persone comuni: il droghiere, il venditore di giocattoli, il giornalaio, l’antiquario. Sono coloro che incarnano la vera democrazia dell’uomo ordinario, così come indicava nell’Uomo comune: “E’ un fatto storico che le catastrofi che abbiamo vissuto e che stiamo attualmente vivendo non siano state causate dalla gente pratica e prosaica che si ritiene non sappia nulla, bensì quasi sempre dalla gente assolutamente teorica che sapeva di sapere tutto. Il mondo può trarre una lezione dai propri sbagli, ma si tratta soprattutto degli errori di chi impartisce lezioni”. Sarebbe erroneo credere ora, alla stregua del pensiero debole contemporaneo, che Chesterton volesse attaccare i principi, l’autorità, il dogma, la ragione. Nel denunciare in "Ortodossia" l’impotenza intellettuale delle cosiddette élites insuperbite così rifletteva: “L’autorità della ragione ha bisogno di difesa: tutto il mondo moderno è in guerra con la ragione… un grande pericolo minaccia lo spirito umano: un pericolo altrettanto materiale quanto gli scassinamenti dei ladri. Contro questo pericolo fu innalzata, come una barriera, l’autorità religiosa. Il pericolo consiste in questo: che l’intelletto umano è libero di distruggersi”. Fa accapponare la pelle sentire questa acuta osservazione di Chesterton, che sembra riferita ai nostri giorni: “Un gruppo di pensatori può fino a un certo punto impedire alla generazione futura di pensare, insegnando che tutto quello che pensano gli uomini non ha valore alcuno”. La difesa della democrazia e della tradizione era la salvaguardia del pensiero davvero libero, inteso come senso comune appartenente a tutti gli uomini in quanto uomini, ovvero pensiero perpetuato nelle generazioni e custodito dalla nutrice, vera protettrice della tradizione e della democrazia: “Da quando ho lasciato la nutrice, custode della tradizione e della democrazia, non ho più trovato una persona moderna così sanamente radicale e così sanamente conservatrice… mi ci volle del tempo per capire che il mondo moderno aveva torto e la balia aveva ragione”.
Quali sono, secondo te, le idee cardine del pensiero di Chesterton?
In "Ciò che non va nel mondo", Chesterton invitava, da grande pensatore qual era, a porsi le corrette domande, a domandarsi prioritariamente cosa fosse giusto prima di rispondere a cosa c’era di sbagliato nel mondo. Anche per quanto riguardava la “superstizione del divorzio” (qui richiamo un altro titolo di un suo libro) bisognava chiedersi prima cosa fosse davvero il matrimonio. Per rispondere poi in che cosa consistesse la natura dell’uomo, Chesterton ribadiva di avere un punto di vista trascendente, aderendo così esplicitamente alla scuola di pensiero soprannaturale. La cosiddetta “astrattezza” imputata spesso ai metafisici era rivolta da Chesterton, in modo paradossale, agli uomini pratici, ai pragmatici, agli utilitaristi. Il pensiero di Chesterton quindi, nelle due componenti imprescindibili della ragione unita all’immaginazione, coniugava ragione e autorità, natura e sopranatura, carità e verità, dogma e ortodossia, ortodossia e ortoprassi e così via. Il modo di farci capire il suo pensiero era strettamente unito al modo (spesso paradossale) di farcelo vedere: con immagini (ad esempio la piccola proprietà era vista come il bacino limitato di un lago, al contrario il latifondismo o la proprietà illimitata era vista come la cascata anarchica di qualcosa che non si poteva arrestare) oppure con confronti (ad esempio il dogma era contrapposto al pregiudizio così come il matrimonio al divorzio). Cosa poteva, secondo Chesterton, garantire un autentico sviluppo umano che contrastasse gli eventuali ingiustificati abusi? Ancora una volta egli ricorreva al soprannaturale e all’esigenza di una dottrina salda: “Se non disponiamo degli insegnamenti di qualche uomo divino, tutti gli abusi possono essere giustificati, perché l’evoluzione può trasformarli in usi… La dottrina non è causa di dissidi. Anzi, una dottrina può costituire da sola un rimedio contro i dissidi”. L’autore di saggi come "Eretici" e "Ortodossia" partiva da principi sia logici sia concreti, primo fra tutti il vecchio e sempre valido principio della vita domestica: la casa ideale, la famiglia felice, la sacra famiglia della storia. Le idee cardine del pensiero di Chesterton avevano a che fare direttamente con i cardini, anche se sovente arrugginiti, degli usci delle antiche case dove vivevano le famiglie: dall’autorità dei padri e delle madri alla libertà dei figli. Le nobili e antiche tradizioni familiari venivano perpetuate nel momento in cui si sarebbe dovuto rispondere in che tipo di casa avrebbe voluto vivere un uomo, l’uomo comune. Poiché soltanto la plebe aveva tradizioni, al contrario del dio degli aristocratici che si opponeva ad esse con la moda, per Chesterton il mestiere dei ricchi era quello di essere moderni: ecco il motivo per cui osteggiava fieramente i ricchi. Un altro aspetto rilevante del pensiero di Chesterton era quel “realismo dell’Incarnazione” che umilmente non prescindeva dal corpo (“Coloro che non vogliono partire dall’aspetto fisico delle cose sono dei presuntuosi… ogni anima umana, in un certo senso, deve compiere quel gigantesco atto di umiltà che è l’Incarnazione. Ogni uomo deve farsi carne per incontrare i suoi simili”). Il realismo cristiano, non disgiunto dal suo pensiero, doveva farsi carne nelle cose comuni e in tutte quelle sane e ancestrali abitudini, disprezzate spesso come volgari o banali. La democrazia e le sane tradizioni popolari costituivano, come il peccato originale, la vera natura (ferita) dell’uomo: “Nessun uomo deve essere superiore a ciò che gli uomini hanno in comune. Questo tipo di uguaglianza deve per forza essere corporale, grossolana e comica. Non soltanto siamo tutti nella stessa barca, ma abbiamo tutti il mal di mare”. Chesterton contrastava l’alterazione del sentire comune, del vedere comune prodotti dall’industrialismo e dal capitalismo; egli rammentava, per esempio, la perdita della filosofia dei colori ottenuta attraverso un’inondazione di colori falsati dalle luci artificiali e dai manifesti pubblicitari. L’artista antico, secondo le sue parole, si sforzava di trasmettere l’impressione che i colori fossero davvero cose preziose e importanti. Tutte queste ipotetiche nuove trovate, nuove idee non erano che i medesimi errori spesso condannati dalla Chiesa cattolica: “Dogmaticamente la Chiesa difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori”. Chesterton contrastava il mondo moderno così come si opponeva all’industrialismo e alla pubblicità: “Il mondo moderno, con i suoi movimenti moderni, sta vivendo sul capitale cattolico… ma non possiede un proprio entusiasmo, innovativo. La novità è solo nelle parole e nelle etichette, come nella pubblicità moderna”. Cosa imputava Chesterton di negativo alla modernità? L’incapacità di raccogliere le cose vecchie e farle durare, inaridirle con grande rapidità appena vengono utilizzate. Potremmo dire, in conclusione, che le idee cardine del pensiero di Chesterton sono state riassunte da Chesterton stesso in "Perché sono cattolico": “Io sono normale nel senso corretto della parola: che significa accettare un ordine, un Creatore e la creazione, possedere un senso comune di gratitudine verso la creazione, considerare la vita e l’amore come beni durevoli, il matrimonio e la galanteria come leggi che li controllano, e approvare il resto delle tradizioni comuni al nostro popolo e alla nostra religione”.
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