di Mario Giordano
E adesso chiedono il silenzio. Ma certo: che resta ancora da dire? Eluana va a morire e la morte si deve tacere. Non si deve raccontare. La morte non è chic, stona un po’ con l’eleganza dei pensieri vip. Una morte di fame e sete, poi. C’è qualcosa di più terribile, c’è qualcosa di più straziante? C’è qualcosa che stride di più con la cipria del conformismo? E allora avanti: tutti a chiedere di calare il sipario, di stendere un velo, di rispettare il riserbo. In fondo la battaglia è vinta, no? Il principio è stabilito: ora in Italia si può morire per legge. L’eutanasia è arrivata per via giudiziaria. Che altro si deve aggiungere? Niente. C’è una ragazza che muore, c’è una ragazza che viene uccisa, ma questo è un particolare. Non si deve dire. Non si deve far sapere. Non più. Avanti con il prossimo caso. E intanto ricordatevi: tutti al Cafonal del sabato sera. Magari in viola, ma solo perché fa trendy. Guai a chi parla ancora di Eluana e di morte, però.
Il Tg de La7 annuncia di aver staccato «la spina dell’informazione». L’Unità pubblica a tutta pagina il titolo rosso «Silenzio» (e la foto illustra il gesto eloquente di chi chiede di tacere). «Silenzio per Eluana», dice l’editoriale Europa. «Silenzio per Eluana» chiedono le parlamentari del Pd Livia Turco e Barbara Pollastrini. «Cresce il partito del silenzio», strilla il Corriere. «Adesso silenzio», concorda il Riformista. «È il momento del rispetto», fa eco da destra il Secolo d’Italia. E forse sarò il solito controcorrente, ma in mezzo a tutti questi che invocano il silenzio, a me, oggi, è venuta una grande voglia di urlare.
Ma sì, non si può tacere di fronte a quello che sta accadendo a Udine. Non si può. Non più. Scusatemi, ma l’hanno voluto loro. Hanno fatto di Eluana un caso, hanno fatto di Eluana un emblema. Sono andati a prenderla nella sua stanza di Lecco, dove da anni le suore la curavano amorevolmente, in silenzio (loro sì), nel riserbo (loro sì), con rispetto (loro sì). L’hanno portata in giro come una bandiera, l’hanno esposta come un labaro o uno stendardo. Hanno sbattuto la sua vita in pasto ai tribunali, hanno messo la sua esistenza nelle mani dei giornali. Hanno fatto di una sofferenza privata un caso pubblico, di un dramma personale una questione nazionale. E adesso, dopo anni di riflettori accesi, e interviste a settimanali e tv, dopo anni di talk, dibattiti, forum, libri, ospitate, Bruno Vespa, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo Show, adesso ci chiedono il silenzio? Con che coraggio?
Ancora ieri il papà di Eluana era in tv, intervistato a Porta a Porta. E ancora ieri era intervistato sui quotidiani. A Repubblica ha detto che sua figlia è un «simbolo». Ecco: se ha accettato che sua figlia diventasse un simbolo, se ha fatto di tutto perché sua figlia diventasse un simbolo, ora non può chiedere il silenzio. Non può chiedere il riserbo. Non si può essere simboli nel silenzio e nel riserbo. E forse è vero, come diceva ieri alla Stampa, il medico Mario Riccio, quello di Welby, che nei reparti di rianimazione degli ospedali, senza che nessuno se ne accorga, «si stacca la spina 18mila volte l’anno». Forse è vero. Anzi, sicuramente è vero. È la coscienza dei medici, l’intesa coi parenti, spesso un tacito consenso, un gesto pietoso e condiviso.
Ma Eluana non fa parte di quei 18mila. Eluana non muore per un tacito consenso o per un gesto pietoso. Muore per una sentenza che, di fatto, sostituisce una legge. E questo perché, da un certo punto in avanti, è stato deciso (mica da noi, mica dai giornali brutti e cattivi, mica dall’informazione dei soliti sciacalli) che lei diventasse un simbolo. Un caso. È stato deciso che la sua tragedia privata diventasse vicenda pubblica. Hanno voluto spremere il suo corpo inerte, hanno voluto ricavarne un distillato universale, un principio valido per tutti, un diritto scolpito dalla giustizia dentro la nostra storia e dentro le nostre coscienze. Non per esaudire la sua volontà, come è stato detto. Piuttosto, per forzare la nostra. Per costringerci, attraverso la pietà umana, ad aprire le porte a provvedimenti che sono e resteranno disumani.
Per questo non si può tacere di Eluana. Non più. È troppo tardi, è troppo ipocrita ora. L’abbiamo seguita fra i decreti e le corti, fra i palcoscenici dei tribunali e quelli della Tv: ora bisogna seguirla nell’ultimo tratto, bisogna raccontare minuto per minuto quello che accade dentro quella stanzetta, bisogna salire passo dopo passo il suo calvario che diventa il nostro calvario. Bisogna guardare in faccia Eluana fino all'ultimo. Anche se sarà duro. Anche se sarà meno chic di un articolo di Adriano Sofri, che in questo caso non vuole parlare di omicidio, lui che se ne intende. Anche se saremo sconvolti come il medico che l’ha accompagnata da Lecco a Udine in ambulanza e ora dice: «Non sarò mai più lo stesso». Bisogna parlarne ancora, bisogna dire tutto, perché Eluana è diventata un simbolo, come dice suo papà. E in quanto simbolo, inevitabilmente, vive sotto gli occhi di tutti e muore sotto gli occhi di tutti. Ma forse è proprio questo che fa paura, forse è proprio per questo che si chiede il silenzio: perché un conto è sopprimere un simbolo (morto un simbolo se ne fa un altro), un conto è sopprimere una vita. E accompagnando Eluana sino all’ultimo istante, raccontando i suoi giorni di agonia, c’è il rischio di rendersi conto che lei è molto più di una battaglia, molto più di una bandiera, molto più persino di una storica sentenza. Lei è semplicemente una persona.
Il Tg de La7 annuncia di aver staccato «la spina dell’informazione». L’Unità pubblica a tutta pagina il titolo rosso «Silenzio» (e la foto illustra il gesto eloquente di chi chiede di tacere). «Silenzio per Eluana», dice l’editoriale Europa. «Silenzio per Eluana» chiedono le parlamentari del Pd Livia Turco e Barbara Pollastrini. «Cresce il partito del silenzio», strilla il Corriere. «Adesso silenzio», concorda il Riformista. «È il momento del rispetto», fa eco da destra il Secolo d’Italia. E forse sarò il solito controcorrente, ma in mezzo a tutti questi che invocano il silenzio, a me, oggi, è venuta una grande voglia di urlare.
Ma sì, non si può tacere di fronte a quello che sta accadendo a Udine. Non si può. Non più. Scusatemi, ma l’hanno voluto loro. Hanno fatto di Eluana un caso, hanno fatto di Eluana un emblema. Sono andati a prenderla nella sua stanza di Lecco, dove da anni le suore la curavano amorevolmente, in silenzio (loro sì), nel riserbo (loro sì), con rispetto (loro sì). L’hanno portata in giro come una bandiera, l’hanno esposta come un labaro o uno stendardo. Hanno sbattuto la sua vita in pasto ai tribunali, hanno messo la sua esistenza nelle mani dei giornali. Hanno fatto di una sofferenza privata un caso pubblico, di un dramma personale una questione nazionale. E adesso, dopo anni di riflettori accesi, e interviste a settimanali e tv, dopo anni di talk, dibattiti, forum, libri, ospitate, Bruno Vespa, Fabio Fazio, Maurizio Costanzo Show, adesso ci chiedono il silenzio? Con che coraggio?
Ancora ieri il papà di Eluana era in tv, intervistato a Porta a Porta. E ancora ieri era intervistato sui quotidiani. A Repubblica ha detto che sua figlia è un «simbolo». Ecco: se ha accettato che sua figlia diventasse un simbolo, se ha fatto di tutto perché sua figlia diventasse un simbolo, ora non può chiedere il silenzio. Non può chiedere il riserbo. Non si può essere simboli nel silenzio e nel riserbo. E forse è vero, come diceva ieri alla Stampa, il medico Mario Riccio, quello di Welby, che nei reparti di rianimazione degli ospedali, senza che nessuno se ne accorga, «si stacca la spina 18mila volte l’anno». Forse è vero. Anzi, sicuramente è vero. È la coscienza dei medici, l’intesa coi parenti, spesso un tacito consenso, un gesto pietoso e condiviso.
Ma Eluana non fa parte di quei 18mila. Eluana non muore per un tacito consenso o per un gesto pietoso. Muore per una sentenza che, di fatto, sostituisce una legge. E questo perché, da un certo punto in avanti, è stato deciso (mica da noi, mica dai giornali brutti e cattivi, mica dall’informazione dei soliti sciacalli) che lei diventasse un simbolo. Un caso. È stato deciso che la sua tragedia privata diventasse vicenda pubblica. Hanno voluto spremere il suo corpo inerte, hanno voluto ricavarne un distillato universale, un principio valido per tutti, un diritto scolpito dalla giustizia dentro la nostra storia e dentro le nostre coscienze. Non per esaudire la sua volontà, come è stato detto. Piuttosto, per forzare la nostra. Per costringerci, attraverso la pietà umana, ad aprire le porte a provvedimenti che sono e resteranno disumani.
Per questo non si può tacere di Eluana. Non più. È troppo tardi, è troppo ipocrita ora. L’abbiamo seguita fra i decreti e le corti, fra i palcoscenici dei tribunali e quelli della Tv: ora bisogna seguirla nell’ultimo tratto, bisogna raccontare minuto per minuto quello che accade dentro quella stanzetta, bisogna salire passo dopo passo il suo calvario che diventa il nostro calvario. Bisogna guardare in faccia Eluana fino all'ultimo. Anche se sarà duro. Anche se sarà meno chic di un articolo di Adriano Sofri, che in questo caso non vuole parlare di omicidio, lui che se ne intende. Anche se saremo sconvolti come il medico che l’ha accompagnata da Lecco a Udine in ambulanza e ora dice: «Non sarò mai più lo stesso». Bisogna parlarne ancora, bisogna dire tutto, perché Eluana è diventata un simbolo, come dice suo papà. E in quanto simbolo, inevitabilmente, vive sotto gli occhi di tutti e muore sotto gli occhi di tutti. Ma forse è proprio questo che fa paura, forse è proprio per questo che si chiede il silenzio: perché un conto è sopprimere un simbolo (morto un simbolo se ne fa un altro), un conto è sopprimere una vita. E accompagnando Eluana sino all’ultimo istante, raccontando i suoi giorni di agonia, c’è il rischio di rendersi conto che lei è molto più di una battaglia, molto più di una bandiera, molto più persino di una storica sentenza. Lei è semplicemente una persona.
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