mercoledì 30 aprile 2025

Breve recensione de La Ballata del Cavallo Bianco tradotta in rima da Giulio Mainardi.

È appena uscita una nuova edizione italiana de La Ballata del Cavallo Bianco, per i tipi delle Edizioni del Faro (Trento). Come promesso ne parliamo insieme.

Giulio Mainardi (che è ormai una vecchia conoscenza nonostante la sua giovane età, ancora nei venti, oltre che un traduttore ormai esperto, avendo tradotto molte opere anche inedite del nostro Chesterton) ha tradotto in rima un’opera anzi un poema certamente impegnativo.

Forse non tutti sono consapevoli della massa critica costituita dall’opera poetica di Chesterton, ampiamente sottovalutata. È poco conosciuta, anche se ha ricevuto il plauso di uomini come John Ronald Reuel Tolkien, nonché la gloria di essere cantata in circostanze decisive della vita, quelle in cui non si scherza, come accadde ai soldati inglesi nelle trincee francesi della Somme durante la Prima Guerra Mondiale (vedi il caso della poesia Lepanto, di cui ho avuto il piacere di scrivere la prefazione; l'opera è stata tradotta anche in questo caso da Giulio Mainardi). Dunque, un’opera così importante, espressa in un genere come quello poetico, non può essere sorvolata. 

Parliamo della scelta di tradurre in rima, perché questa è la novità: è costata cara al traduttore, questa scelta! Si è trattato di una fatica di oltre nove anni, lo dice lui stesso, ma lo ha fatto convinto di compiere un’opera doverosa. Dovete sapere che Chesterton da qualche parte ha scritto che la poesia è ritmo e se non la si fa in rima è come la prosa. Con questo Chesterton voleva semplicemente ribadire un concetto che lo fa assurgere a difensore della classicità. Quest’idea di classicità è il motivo che spinse Emilio Cecchi a invitare lui e Belloc  a scrivere per La Ronda (ne dà conto nel famoso articolo Ospiti di cui abbiamo parlato più volte e che abbiamo pubblicato su questo blog). Non sono certo che Cecchi sapesse di questa riga che esprime con tanta chiarezza il pensiero di Chesterton sulla poesia, però sono certo che, semmai l’abbia letta, l’avrà trovata assolutamente confacenti a quei motivi che lo avevano reso ammiratore e mentore italiano del nostro eroe inglese.

In ogni caso è sempre il traduttore a dare conto di questa scelta: lo fa nella prefazione, riprendendo un pensiero di Chesterton stesso in Fancies versus Fads, e ribadendo la volontà di dare forma poetica anche alla traduzione perché essa integra e costituisce lo spirito dell'opera tradotta.

Pure di rilievo è la bibliografia, in fondo al libro, con cui Mainardi dà conto delle proprie scelte e del proprio lavoro.

Mainardi compie anche un’altra opera: alla maniera di una volta traduce in italiano anche i nomi dei luoghi e delle persone che compongono questo affresco medievale, e dà conto delle scelte. Qualcuno potrebbe rimanere anche piuttosto perplesso, ma in fondo cosa c'è strano? Noi chiamiamo la città tedesca di Mainz col nome italianissimo di Magonza, Gdańsk col nome di Danzica (che per i tedeschi si chiama sempre Danzig, come chiamano Görz la nostra Gorizia), i cronisti della battaglia di Lepanto ribattezzarono Occhialì il capo dell'ala sinistra della flotta ottomana che in realtà si chiamava Uluç Alì (che era il suo nome da rinnegato e significava proprio Alì il Rinnegato, in quanto prima di convertirsi all'islam si chiamava Giovan Dionigi Galeni…). Ho fatto degli esempi banali, però credo che questo incarni il tentativo di ridare dignità e vita alla nostra lingua che la sta perdendo passo dopo passo, perché la crediamo non adatta ad esprimere sentimenti e concetti che vengono da un altro mondo. È una scelta, a volte potrebbe anche disorientare, però io la trovo un gesto di affetto verso la nostra lingua, come se il traduttore volesse rendere più familiare ancora uno scenario che l’autore vuole che ci tocchi fino in fondo. 

D’altronde la traduzione deve sapere della cultura di chi la leggerà. Sarebbe bello rileggere il saggio di Belloc intitolato Sulla traduzione (è edita in italiano e con questo titolo da Morcelliana), lui che aveva due identità culturali, etniche, due tradizioni molto distinte ma non per questo del tutto inconciliabili, nelle sue vene, quella francese e quella inglese. Potremmo fare tantissimi esempi di come a volte siamo costretti a rendere delle espressioni straniere che, se tradotte alla lettera, sarebbero senza senso o ridicole (una su tutte: "alive and kicking" non lo traduciamo "vivo e scalciante", perché sarebbe poco comprensibile e onestamente farebbe un pochino ridere, e facciamo bene se lo traduciamo "vivo e vegeto", che invece in inglese non è immediatamente comprensibile...). 

Inoltre, Mainardi fa anche un grosso lavoro di carattere filologico: cita e dà conto di opere come quella di suor Bernadette Sheridan, dà conto delle proprie scelte, le confronta con quelle di altri traduttori o commentatori (c’è spazio anche per la nostra Annalisa Teggi, che ha fatto la prima traduzione in assoluto - non solo prima in italiano dunque - di quest’opera, e l’ha fatta con scienza e coscienza in prosa). 

Insomma, c’è di che discutere e commentare. Io trovo che sia un’opera bella, tra l’altro contenuta in un oggetto più che dignitoso, visto che il libro è bello ed apprezzabile anche fisicamente, e si tiene in mano con piacere; ha trovato anche delle soluzioni grafiche adeguate per mostrare note e, coraggiosamente, il testo originale a fronte.

Una bella cosa, un tassello in più dell'opera di diffusione e di studio del nostro caro Chesterton, che oggi avrà una voce in più, ed oltretutto musicale, per farsi conoscere in Italia.

Marco Sermarini

Qui sotto trovate alcune delle traduzioni di Giulio Mainardi e i nostri post che le riguardano:


Magia e altri sette drammi










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