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martedì 3 agosto 2010

Cecchi, Chesterton e la casetta del Gigante.




















Tanto per rimestare il torrone ancora un po' e tenere desto il ricordo di un grande uomo dai grandi meriti, vi riportiamo alla memoria una pagina del nostro bellissimo blog in cui citiamo lungamente Emilio Cecchi:

http://uomovivo.blogspot.com/2009/10/emilio-cecchi-visita-chesterton.html

E' solo un brano di uno dei resoconti delle visite di Cecchi a Chesterton a Beaconsfield, e tanto per non sbagliare ve lo rimettiamo tutto intero (nel post c'era un collegamento ad una pagina letteraria che faceva esempi di incontri e cose varie, preferiamo stavolta andare al succo!).

E che buon pro vi faccia.

(Le foto ritraggono Cecchi, Chesterton, una delle due case abitate da Gilbert e Frances a Beaconsfield e l'altra casa).

Il 26 novembre 1918, a guerra appena finita, Emilio Cecchi (Firenze, 1884 - Roma, 1966), prende il treno nella stazione londinese di Paddington e va a trovare lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) che viveva in una modesta casetta, significativamente definita "la confluenza di tutti i misteri", nel borgo rurale di Beaconsfield. La visita, da tempo progettata, è preceduto da una accurata lettura delle opere dell'autore inglese, che nel suo ritiro campagnolo, lontano dalla "città di Mammona" (Londra), medita "sulla difficoltà presente del mondo". Dell'incontro Cecchi fornirà il resoconto su "La Tribuna" di Roma il 28 dicembre 1918 col titolo Visita a Chesterton nella rubrica Lettere dall'Inghilterra, prima di raccogliere il "pesce" nel volume Pesci rossi (1920).

La casetta del gigante

La casa di Chesterton è casalinga con le sue idee, è una con le sue idee, è il più completo manifesto delle sue idee. Impossibile trovare una casa che realizzi meglio l'idea della casa e della casa inglese e della casa rurale inglese. Se di qualcosa sentivo la mancanza era d'uno stendardo come quello delle antiche gilde e corporazioni, che sventolasse sul piolo del cancello o in cima al tetto. Ma era un eccesso di pretesa, in tempi così poco cristiani, così poco dediti alle tradizioni e internazionalizzati.
Con intorno l'enorme silenzio del piccolo giardino, era veramente la casa dalla quale un giorno Manalive era fuggito "per il bisogno di ritrovarla", la casa ch'egli aveva dovuto abbandonare "non potendo più sopportare di esserne lontano". Solitaria nella campagna grigia, con la tinta calda de' suoi mattoni e il luccicore dei vetri, degli ottoni e dei lumi dentro, era davvero il simbolo, l'offerta votiva e l'esemplare di quella casa che ciascuno ha posto per nòcciolo luminoso del proprio mondo.
E il mondo come appariva leggendario e misterioso in giro a quella casa, quanto più essa appariva quel che era e doveva essere: una semplice, piccola casa. Io pensavo quanti pittori dal principio della pittura, chi in un modo chi nell'altro, si provarono a dare suggestioni di mistero. E chi cercò di ricordarsi il mistero delle foreste originarie, avanti il diluvio. Ma riusciva solo a dar l'idea che il diluvio fu un innocuo acquazzone, tanto le sue foreste antidiluviane somigliavano al Pincio o a Hyde Park. E chi si dedicò alle misteriosità spaventose, mostruose: ai cerberi, alle orche, ai briarei. Ma in realtà non dava che delle lucertole peggiorate. E chi volle esprimere il mistero della Morte. Ma non esprimeva che il Macabro e il Grottesco. Quanti pochi pensarono che c'era un modo semplicissimo, a portata di chiunque, per cogliere non una sola qualità di mistero ma tutti i misteri, la confluenza di tutti i misteri: quello del cielo, quello del mondo, quello dell'uomo!
Bastava, in un foglio bianco come un cielo, un frego come sa farlo anche un ragazzo: sopra una linea ondulata, figurante la distesa del mondo, un quadratino che figurasse una casa.

Ma quando sull'uscio della stanza dove l'aspettavo comparve Chesterton, con la sua colossale figura, il soffitto sembrò di colpo abbassarsi e io mi trovai davanti a un mistero tutto impreveduto e profano: come potesse fare un uomo così grande a entrare in una casa così piccola.
I libri in ottavo posati sulle tavole, diventarono improvvisamente libri in sedicesimo. E i libri in sedicesimo, a piramide su quelli in ottavo, ormai erano libri in trentadue. Certi oggetti sembravano scelti in spirito burlesco per intensificare questa qualità di sorprese. Sulla cornice lucida di un mobile un gruppetto di figurine cinesi alte un centimetro pareva una famigliola di formiche in viaggio per il deserto.
Quale casa in tutti i sensi piccina, per un uomo in tutti i sensi tanto grande! Ma Chesterton direbbe che se in qualche modo egli è grande, è soltanto in quella misura che la sua casa è così piccola.

Seduti davanti al camino, nella luce invecchiata della lampada a petrolio, ritrovavo tutto vivente e mosso nella sua conversazione quello che durante molti anni egli mi aveva detto nei libri. La sua voce aveva stranissimi rivolgimenti di tono. Da calda e profonda a un tratto diventava argentina e quasi stridula e si rompeva e spandeva di continuo in deliziose, sane risate di bimbo.
Con i lunghi capelli grigi che spiovevano sul collo e sulla faccia colorita dalla fiamma, non so perché mi pareva parlasse di fondo a un bosco.
E allora la casa si fece anche più accosta, diventò anche più raccolta. E si sarebbe detto che la realtà di fuori la fasciasse anche più strettamente e facesse sentire la sua attenzione e il suo rispetto: come intorno alle celle dove gli eremiti si radunavano a ragionare e pregare nella notte, i cervi e i daini giungevano dalle macchie a grandi salti silenziosi, e fuori nel buio si strisciavano alle mura quietamente, alzando il muso stupito alle piccole roste illuminate e alle voci degli uomini.
Mi pareva parlasse di fondo a un bosco e di fondo a un mito, quanto più pareva parlassimo delle cose più cittadine e meno mitologiche: l'elezione e l'indennità, un famoso uomo politico, un gran giornalista. Nelle sue parole e nella sua voce, queste cose rinascevano, s'inserivano in una qualità originaria, ridiventavano forze semplici ed eterne. I fatti e le figure s'empivano di contrasto e di passione, si chiarivano in un rigore, in una dignità superiori, riportati sotto grandi segni, sotto bandiere che hanno visto mille guerre, sotto quei grandi nomi che nella vita e nei giornali non vengono più adoperati, appunto perché dividono i campi troppo severamente e imprimono responsabilità e doveri indeclinabili: quei cristiani nomi abbandonati, che quando ritornano, come in Péguy, come in Chesterton e come in Belloc, dànno alla polemica l'inusato tono di grandezza delle antiche controversie, la poesia delle antiche battaglie per la fede, nell'invocazione di un Santo o della Vergine, nella luce delle spade degli angioli e nello squillo delle trombe dei paladini.

E voglio notare qualcosa che non per un'evidenza logica, spiegata, ma per un'evidenza di sensazione, trovai in lui di diverso dall'idea che me ne ero fatta.
Forse ero andato pensando sopratutto al clown (sia detto con il rispetto che gli porto). E avevo trovato sopratutto il vescovo (11). Ero andato col gusto della bizzarra gioia lirica della quale egli ha scoperto il segreto. E uscendo dalla sua casa portavo meco sopratutto il senso della sua profonda gravità morale e del suo dolore. Lo credevo più giovane, franco e sicuro. Lo trovavo più provato e più stanco, più complesso, più commosso e più forte. Sapevo bene come si trovasse in politica e come non avesse neanche le simpatie di molti letterati: troppo onesto e poeta per i politici, troppo politico per i poeti d'una poesia così pura che quasi sempre finisce nel puro nulla. E capivo perché, come tutti quelli che lassù hanno voluto, combattuto e costrutto, anche lui era fuggito dalla città di Mammone nella cittadina rurale, nel borgo di Beaconsfield. Me l'aspettavo tranquillo sulla mole del lavoro compiuto. Ed era festoso di lampeggianti certezze. Ma anche pieno di problemi e difficoltà, tutto preso, tenuto, confitto con la sua vasta statura morale nella difficoltà presente del mondo.
E mentre tornavo verso Londra, ripensando la solitudine dove l'avevo lasciato sotto un còmpito enorme, con soltanto, come un cavaliere antico, la sua donna rossa e il suo cane nero, un'immagine si spandeva sulla campagna buia; quell'immagine con la quale egli ha chiuso la sua Short History of England come in un lirico dubbio che, trascorsa l'ora veemente della guerra, davvero si riesca a ritrovare nel mondo l'ordine, la giustizia e la vita.
La città, in fondo, bruciava di bianchi falò, sopra le costruzioni annullate nella notte e sopra la folla sepolta nel buio schema di ferro e di pietre. E per quel popolo e tutti i popoli che vinsero sui confini una guerra così leggendaria e luminosa, che tanto più fa sentire come atroce sarà la nuova guerra che ciascuno di essi ora intraprende per crearsi le sue vere forme: per essi tutti mi dicevo con Chesterton che veramente, nel pensiero di domani, "si vorrebbe a momenti desiderare che l'onda della barbarie tedesca ci avesse spazzati, e insieme a noi i nostri eserciti, e che il mondo non sapesse mai più nulla degli ultimi di noi, se non che tutti morimmo per la libertà".

Emilio Cecchi, Pesci rossi, in Saggi e viaggi, Mondadori, Milano 1997, pp. 79-83.




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