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venerdì 30 aprile 2010
Un aforisma al giorno
Risposta all'indovinello...
Da Facebook - L'amico Andrea Monda ci invita...
andrea e la compagnia dei tolkieniani matti
giovedì 29 aprile 2010
Un aforisma al giorno
Un aforisma al giorno
Un indovinello...
mercoledì 28 aprile 2010
Dal Prof. Carlo Bellieni - La libertà fraintesa
Discutere sul metodo abortivo è come discutere su quale solitudine sia la migliore
28 aprile 2010 Il Foglio Online - di Carlo Bellieni
Donna italiana, donna libera? E più libera con la RU? La libertà di scelta procreativa è al centro del dibattito su aborto e pillola RU486. O meglio: la libertà femminile decisa a tavolino. Già, perché per essere liberi bisogna esserlo in prima persona, ben informati e senza coercizioni, e la donna italiana – e quella in genere occidentale – è davvero libera in quest'ottica? Vediamo. Forse sarebbe meglio sentire la voce delle donne, per capire in che senso vogliono esercitare la loro libertà. Ma le ascoltano? Le donne, quando intervistate dopo un aborto, spiegano di gradire la pillola abortiva meno dell'intervento chirurgico (Health Technology Assessment, novembre 2009) e solo il 53 per cento delle donne che hanno abortito con la pillola la riprenderebbe per abortire, contro il 77 per cento delle donne che hanno abortito chirurgicamente che ripeterebbero l'aborto nella stessa maniera (British Journal of Obstetrics and Gynecology, 1998).
Ma anche l'aborto chirurgico non sembra essere una loro aspirazione, dato che poi risentimenti psicologici, a quanto riporta la rivista Lancet del 2008, non sono presenti in misura minore in quelle che hanno abortito il figlio indesiderato rispetto a quelle che invece lo hanno "tenuto". Come libertà non c'è male. Ma cosa dire sulla coercizione, quando un gruppo di psicologi dell'Ohio nel luglio 2009 ha pubblicato uno studio in cui si dimostra che l'atteggiamento del partner è fondamentale nella scelta di abortire, che a questo punto più che una scelta sembra spesso un'imposizione? Non è un'osservazione da poco: mostra come il passo fondamentale per l'aborto è la solitudine, non la libertà. E allora discutere sul metodo abortivo è discutere su quale solitudine sia la migliore. Il fil rouge della libertà femminile rivela forti sorprese anche quando socchiudiamo la porta della diagnosi prenatale: lo screening di massa per la sindrome Down è stato introdotto in Francia, secondo studi di Carine Vassy, senza analizzare il parere delle donne, che ne risultano solo fruitrici passive e non attive richiedenti, e quasi la metà delle donne, per uno studio scandinavo del 2006, ignora la possibilità di falsi positivi o negativi negli screening genetici e i rischi legati all'amniocentesi.
Libertà? Ma c'è altro: in occidente si persegue culturalmente una politica del figlio unico che differisce nei mezzi ma non nei risultati e nella pervicacia da quella cinese, proprio mentre l'Istat mostra che le adolescenti italiane vorrebbero una famiglia numerosa, ma poi si riducono a fare un solo figlio (le più audaci arrivano a due). Libera scelta o imposizione sociale? Per non parlare poi dell'età a cui la donna inizia ad esser libera di cercare di procreare, che stranamente coincide con l'età in cui i figli in pratica non arrivano più: anche questa una libera scelta? Una spia di questa libertà fraintesa è l'imbarazzo con cui negli ambienti "evoluti" si parla (anzi, si tace) dell'aborto selettivo in base al sesso, che nella maggioranza dei casi elimina feti femmine: non esistono più motivi per ribellarsi una volta stabilito il dogma che nessuno può sindacare le ragioni di un aborto; ma eliminare un feto perché femmina è una libera scelta della donna o un atto di autoflagellazione di "genere"?
Leggendo i quotidiani beninformati, sembra che il problema della pillola abortiva sia se dare o non dare alle donne la libertà (di abortire), come se abortire fosse una scelta libera. Ma non lo è, perché scegliere in condizioni drammatiche, senza alternative, spesso nell'abbandono e nella coercizione è tutto tranne che libertà. Così come, spostando di poco la mira, non è libertà dar mille modi anticoncezionali, cioè auto somministrazione di ormoni per anni e anni, senza dare altrettanti sistemi per far famiglia al momento giusto. Si potrà rispondere che libertà è fornirli entrambi e lasciar scegliere. Ma oggi si fornisce solo la prima opzione, con la prospettiva riproduttiva di rimandare e rimandare finché si decide che arriva il momento buono… quando i figli non arrivano più (quadro sconfortante ma realistico).
Allora, libertà vera e libertà per tutti: chi ne ha il dovere culturale ed economico, dia alle donne i mezzi reali per realizzarsi, e non si senta l'animo politicamente a posto dopo aver dato le chiavi della stanza delle Ivg, e chi difende la donna ricordi – perché lo sa – che non può più negare l'umanità e la vita del feto; chi difende il feto d'altronde ricordi bene che la prima garanzia per il bimbo è il benessere della mamma. E dare libertà a tutti significa non "pensare" una libertà a tavolino quando si parla di aborto, escludendo quella di chi non può esprimersi (il feto) e surclassando paternalisticamente quella di chi si vorrebbe esprimere (la donna) ma per la quale si parlano – e con che verve! – i media alla moda.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
martedì 27 aprile 2010
Il prof. Carlo Bellieni sull'Osservatore Romano: A proposito dell’aborto di Rossano Calabro
April 27th, 2010
Per la dignità del bimbo e della donna
di Carlo Bellieni
Se il tema aborto non fosse un tabù laicista, nessuno potrebbe dire di non sapere, ma nessuno ne parla e allora non si sa che l'interruzione di gravidanza dopo il primo trimestre si svolge come un parto: il bimbo nasce, ha un cuore che batte, e lentamente si spegne. In Italia la legge 194 impone di non farlo quando c'è una possibilità di farlo vivere, cioè dopo ventidue settimane dal concepimento, ma se nasce prima non è detto che nasca morto, anzi: è in grado di sentire il dolore (circa dalla ventesima settimana) o di far piccoli movimenti. Se si guarda il piccolo torace si vede a occhio nudo il cuore battere. Non si può far finta di non saperlo.
L'aborto tardivo sta creando malcontento all'estero, anche nei confronti dell'escamotage detto partial birth abortion ("aborto a nascita parziale"), che in una fase di gravidanza avanzata, a metà del processo di uscita del feto dall'utero, quando il feto non ha ancora tratto il primo respiro, lo fa morire recidendo la base del cranio, per non farlo nascere vivo. Sconcerto, certo; e sconcerto di fronte a un bimbo vivo abbandonato in un angolo di corsia. Ma sono poi tutte letali e gravissime le patologie per cui si decide l'aborto? A ripensare il caso fiorentino finito sui media tre anni fa, in cui fu abortito un bimbo per un'anomalia all'esofago assolutamente operabile (diagnosi oltretutto sbagliata), non si direbbe. E poi, siamo sempre in presenza di un percorso che mette i genitori di fronte alle possibilità terapeutiche, a colloquio con gli specialisti della malattia in atto, per capirne la reale gravità? Perché se l'aborto contrasta la dignità del bimbo, la mancata totale informazione e la sbrigatività contrastano la dignità della donna.
Proviamo a mettere al centro del discorso la dignità di entrambi, e vedremo come sarà inconcepibile lasciare la donna sola, alle prese con l'angoscia di un freddo foglio col nome della malattia del figlio. E sarà altrettanto inconcepibile non ripensare "chi è" il soggetto dell'aborto recuperando l'assurdità dell'evento e usando almeno la pietà: il bimbo se è rianimabile deve avere una chance (ma in base alla 194 non dovrebbe accadere che si abortisca un bimbo che può vivere); se non è rianimabile perché è troppo piccolo, deve comunque avere un ambiente caldo e dignitoso, una compagnia umana, un nome e una degna sepoltura proprio come qualunque altra persona in fin di vita, perché alla violenza non si aggiunga l'oltraggio.
(©L'Osservatore Romano - 28 aprile 2010)
lunedì 26 aprile 2010
Paolo Gulisano a Trento mercoledì 28 Aprile 2010.
Dal blog di Paolo Rodari - Quello che il NYT non pubblica.
Risorgimento - I Mille: una poco gloriosa spedizione
IL CASO/ Una donna: vi racconto lo strazio infinito del mio aborto facile con la Ru486
Il tonicissimo Paolo Pegoraro recensisce il San Francesco per i francescani...
Dal prof. Carl Bellieni - Qualcosa sul neodarwinismo...
Luigi Cavalli Sforza ha pubblicato pochi giorni fa sul CdS un articolo pro-Darwin. Per Charles Darwin, spiega, solo una parte della prole arriva a maturità e a riprodursi perché la maggior parte muore; e questo “permette ad una specie di migliorare il suo adattamento all’ambiente, grazie ad un meccanismo del tutto automatico che chiamò selezione naturale”. La selezione naturale, continua, permette la sopravvivenza del più adatto; e chi è il più adatto? “Il tipo che si riproduce di più e quindi mantiene ed espande la vita”. E’ un argomento classico, classicista quasi, che dà un’interpretazione della vita come un ambito in cui causalmente avvengono delle mutazioni che non riescono ad espandersi perché non sono adatte e lasciano spazio a quelle che non sono “automaticamente” schiacciate dall’ambiente; e in cui l’ambiente agisce da selezionatore e la vita è una casuale competizione alla riproduzione. L’ambiente come nemico, che accetta solo chi è conforme a sé.
Eva Jablonka, genetista israeliana nel suo libro “Evolution in four dimentions” è su questa lunghezza d’onda, così come il premio Prigogine 2004, Enzo Tiezzi, ch sostiene che “Gli ecosistemi si evolvono per co-evoluzione e auto-organizzazione”, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (2006) indicando che l’evoluzione non è cieca, o perlomeno non è una folle corsa: “L’avventura dell’evoluzione biologica è un’avventura stocastica, dal greco, che significa, “mirare con la freccia al centro del bersaglio”": come le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere, così anche l’evoluzione appare avere un’armonia di base. La questione non è di poco conto, perché posto che mutamenti formali nella vita sulla terra ci sono stati, sta emergendo che non tutto è lotta, ma molto è cooperazione. Tutto questo non ci dispiace, e non deve disturbare che la visione classicista venga messa in crisi, perché un mondo fatto “per chi è più adatto” a molti di noi sta stretto: se tutto è selezione se ne può derivare una visione che lascia poco spazio alla solidarietà, o almeno non la vede come forza trainante; e la solidarietà non è un retaggio da beghine, ma è il perno morale su cui si sono basati gli ultimi due millenni di storia umana nei quali l’uomo ha fatto i più alti passi di acquisizioni culturali e tecnologiche, ovviamente cadendo spesso nella dimenticanza di questo valore che, tuttavia resta alla base delle costituzioni delle principali democrazie.
Certo, se tutto fosse lotta e selezione ne prenderemmo atto; ma sembra che così non sia. E ci sentiamo più sereni.
venerdì 23 aprile 2010
E' stata creata la Jaki Foundation
I chestertoniani inglesi riprendono l'intervista al nostro presidente.
giovedì 22 aprile 2010
Dal prof. Carlo Bellieni - Dalle cellule di un feto umano abortito
Neocutis : La crème antirides qui fait scandale
mercoledì 21 aprile 2010
India - Orissa, ancora assoluzioni per chi ha attaccato i cristiani
La storia della conversione di Alec Guinness, cattolico grazie a padre Brown.
Riceviamo come commento e volentieri mettiamo a disposizione di tutti. Ce lo manda l'amica Umberta. E' la storia (in inglese, cari amici) della conversione di sir Alec Guinness (il famoso attore inglese, interprete in un film degli anni Cinquanta di padre Brown e ben noto per essere stato protagonista de Il Ponte sul fiume Kwai e di Guerre Stellari). Il protagonista è Chesterton, o meglio padre Brown. Se potremo, la tradurremo in italiano. Grazie a Umberta per il collegamento.
Buona Pasqua, amici chestertoniani.
Ho trovato un articolo che c'entra un po' con Chesterton: "How Father Brown Led Sir Alec Guinness to the Church", http://www.catholic.com/thisrock/2005/0505dr.asp
A presto,
Umberta
lunedì 19 aprile 2010
Oggi sono cinque anni che abbiamo Papa Benedetto XVI
domenica 18 aprile 2010
La storia dei San Patricios, eroi d'Irlanda e del Messico.
Erano un gruppo di soldati in massima parte irlandesi (da cui il nome San Patricios affibbiato loro dagli amici messicani; ma c'erano anche tedeschi e qualche italiano!) che militavano nell'esercito americano negli anni Quaranta dell'Ottocento. Passarono armi e bagagli con i messicani che avrebbero dovuto combattere, ma che sentivano molto più vicini a loro per molte ragioni ma la più importante era la religione cattolica. Perché essere al soldo di americani massoni e protestanti che combattevano una guerra ingiusta contro i messicani cattolici?
Non ebbero una buona sorte: chi non morì ucciso in campo di battaglia (dove combatterono eroicamente distinguendosi), morì impiccato o fu trattato da traditore. Ma traditori non erano. Erano eroi.
La vicenda è tornata d'attualità perché i Chieftains (il più importante gruppo di musica tradizionale irlandese) e Ry Cooder si sono cimentati in un bellissimo disco che si chiama appunto San Patricios.
In Messico ogni anno fanno una festa in onore de Los Martires Irlandeses, e hanno dedicato loro una via Ciudad de Mexico.
Su You Tube trovate un documentario (qui la prima di sei puntate) sui San Patricios. E' in inglese.
In questo sito trovate alcune informazioni sulla interessante vicenda. In inglese, of course.
Sempre da You Tube, guardate questo video sul disco dei Chieftains e di Ry Cooder San Patricio. Potrete vedere come la vicenda sia ancora tenuta da conto sia in Messico che in Irlanda!
Bello, no?
Il disco, l'Uomo Vivo ve lo consiglia. C'è la bellissima canzone March to Battle (una marcia militare con cornamuse e tamburini) in cui l'attore irlandese Liam Neeson legge il testo. In un'intervista ad un quotidiano gratuito irlandese (quelli che ti danno sul Luas, la metropolitana di superficie di Dublino), Paddy Moloney, il capo dei Chieftains, ha raccontato la genesi del bel disco e il fatto che Neeson, appena finito a registrare il brano, si è alzato in piedi, si è tolto la cuffia e ha gridato:
"VIVA I RIBELLI!"
L'Uomo Vivo è perfettamente d'accordo.
D'altronde diceva il nostro Gilbert:
GLI UOMINI CHE DIO HA FATTO PAZZI
PERCHE' TUTTE LE LORO GUERRE SOSNO LIETE
E TUTTE LE LORO CANZONI SONO TRISTI.
L'omelia di papa Benedetto XVI a Malta, 18 Aprile 2010
Maħbubin uliedi [Miei cari figli e figlie],
Sono molto contento di essere qui con voi tutti oggi davanti alla bella chiesa di San Publio per celebrare il grande mistero dell’amore di Dio reso manifesto nella Santa Eucarestia. In questo tempo, la gioia del periodo Pasquale riempie i nostri cuori perché stiamo celebrando la vittoria di Cristo, la vittoria della vita sul peccato e sulla morte. E’ una gioia che trasforma le nostre vite e ci riempie di speranza nel compimento delle promesse di Dio. Cristo è risorto alleluia!
Saluto il Presidente della Repubblica e la Signora Abela, le Autorità civili di questa amata Nazione e tutto il popolo di Malta e Gozo. Ringrazio l’Arcivescovo Cremona per le sue gentili parole e saluto anche il Vescovo Grech e il Vescovo Depasquale, l’Arcivescovo Mercieca, il Vescovo Cauchi e gli altri Vescovi e sacerdoti presenti, così come i fedeli cristiani della Chiesa che è in Malta e in Gozo. Fin dal mio arrivo ieri sera ho avvertito la stessa calorosa accoglienza che i vostri antenati hanno riservato all’apostolo Paolo nell’anno sessanta.
Molti viaggiatori sono sbarcati qui nel corso della vostra storia. La ricchezza e la varietà della cultura maltese è un segno che il vostro popolo ha tratto grande profitto dallo scambio di doni ed ospitalità con i viaggiatori venuti dal mare. Ed è significativo che voi abbiate saputo esercitare il discernimento nell’individuare il meglio di ciò che essi avevano da offrire.
Vi esorto a continuare a fare così. Non tutto quello che il mondo oggi propone è meritevole di essere accolto dai Maltesi. Molte voci cercano di persuaderci di mettere da parte la nostra fede in Dio e nella sua Chiesa e di scegliere da se stessi i valori e le credenze con i quali vivere. Ci dicono che non abbiamo bisogno di Dio e della Chiesa. Se siamo tentati di credere a loro, dovremmo ricordare l’episodio del Vangelo di oggi, quando i discepoli, tutti esperti pescatori, hanno faticato tutta la notte, ma non hanno preso neppure un solo pesce. Poi, quando Gesù è apparso sulla riva, ha indicato loro dove pescare e hanno potuto realizzare una pesca così grande, che a stento potevano trascinarla. Lasciati a se stessi, i loro sforzi erano infruttuosi; quando Gesù è rimasto accanto a loro, hanno catturato una grande quantità di pesci. Miei cari fratelli e sorelle, se poniamo la nostra fiducia nel Signore e seguiamo i suoi insegnamenti, raccoglieremo sempre grandi frutti.
La prima lettura della Messa odierna è di quelle che so che amate ascoltare: il racconto del naufragio di Paolo sulla costa di Malta e la calorosa accoglienza a lui riservata dalla popolazione di queste isole. Notate come i componenti dell’equipaggio della barca, per poter sopravvivere, furono costretti a gettare fuori il carico, l’attrezzatura della barca ed anche il frumento che era il loro unico sostentamento. Paolo li esortò a porre la loro fiducia solo in Dio, mentre la barca era scossa dalle onde. Anche noi dobbiamo porre la nostra fiducia in lui solo. Si è tentati di pensare che l’odierna tecnologia avanzata possa rispondere ad ogni nostro desiderio e salvarci dai pericoli che ci assalgono. Ma non è così. In ogni momento della nostra vita dipendiamo interamente da Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo ed abbiamo la nostra esistenza. Solo lui può proteggerci dal male, solo lui può guidarci tra le tempeste della vita e solo lui può condurci ad un porto sicuro, come ha fatto per Paolo ed i suoi compagni, alla deriva sulle coste di Malta. Essi hanno fatto ciò che Paolo esortava loro di compiere e fu così che "tutti poterono mettersi in salvo a terra" (At 27,44).
Più di ogni carico che possiamo portare con noi - nel senso delle nostre realizzazioni umane, delle nostre proprietà, della nostra tecnologia - è la nostra relazione con il Signore che fornisce la chiave della nostra felicità e della nostra realizzazione umana. Ed egli ci chiama ad una relazione di amore. Fate attenzione alla domanda che per tre volte egli rivolge a Pietro sulla riva del lago: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?". Sulla base della risposta affermativa di Pietro, Gesù gli affida un compito, il compito di pascere il suo gregge. Qui vediamo il fondamento di ogni ministero pastorale nella Chiesa. E’ il nostro amore per il Signore che deve plasmare ogni aspetto della nostra predicazione ed insegnamento, della celebrazione dei sacramenti, e della nostra cura per il Popolo di Dio. E’ il nostro amore per il Signore che ci spinge ad amare quelli che Egli ama, e ad accettare volentieri il compito di comunicare il suo amore a coloro che serviamo. Durante la passione del Signore, Pietro lo ha rinnegato tre volte. Ora, dopo la Resurrezione, Gesù lo invita tre volte a dichiarare il suo amore, offrendo in tal modo salvezza e perdono, e allo stesso tempo affidandogli la sua missione. La pesca miracolosa aveva sottolineato la dipendenza degli apostoli da Dio per il successo dei loro progetti terreni. Il dialogo tra Pietro e Gesù ha sottolineato il bisogno della divina misericordia per guarire le loro ferite spirituali, le ferite del peccato. In ogni ambito della nostra vita necessitiamo dell’aiuto della grazia di Dio. Con lui possiamo fare ogni cosa: senza di lui non possiamo fare nulla.
Conosciamo dal Vangelo di san Marco i segni che accompagnano coloro che hanno posto la loro fede in Gesù: prenderanno in mano serpenti e questo non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno (cfr Mc 16,18). Tali segni sono stati presto riconosciuti dai vostri antenati, quando Paolo venne fra loro. Una vipera si attaccò alla sua mano ma egli semplicemente la scosse e gettò nel fuoco senza soffrire alcun danno. Paolo fu condotto a vedere il padre di Publio, il "protos" dell’isola, e dopo aver pregato e imposto le mani su di lui, lo guarì dalla febbre. Di tutti i doni portati a queste rive nel corso della storia della vostra gente, quello portato da Paolo è stato il più grande di tutti, ed è vostro merito che esso sia stato subito accolto e custodito. Għożżu l-fidi u l-valuri li takom l-Appostlu Missierkom San Pawl. [Preservate la fede e i valori che vi sono stati trasmessi dal vostro padre, l’apostolo San Paolo.] Continuate ad esplorare la ricchezza e la profondità del dono di Paolo e procurate di consegnarlo non solo ai vostri figli, ma a tutti coloro che incontrate oggi. Ogni visitatore di Malta dovrebbe essere impressionato dalla devozione della sua gente, dalla fede vibrante manifestata nelle celebrazioni nei giorni di festa, dalla bellezza delle sue chiese e dei suoi santuari. Ma quel dono ha bisogno di essere condiviso con altri, ha bisogno di essere espresso. Come insegnò Mosè al popolo di Israele, i precetti del Signore "ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai" (Dt 6,6-7). Ciò è stato ben capito dal primo santo canonizzato di Malta, Dun Ġorɍ Preca. La sua instancabile opera di ca
techesi, ispirando giovani ed anziani con un amore per la dottrina cristiana ed una profonda devozione al Verbo incarnato, è diventata un esempio che vi esorto a mantenere. Ricordate che lo scambio di beni tra queste isole ed il resto del mondo è un processo a due vie. Quello che ricevete, valutatelo con cura, e ciò che possedete di valore sappiatelo condividere con gli altri.
Desidero rivolgere una particolare parola ai sacerdoti qui presenti in questo anno dedicato alla celebrazione del grande dono del sacerdozio. Dun Ġorɍ era un prete di straordinaria umiltà, bontà, mitezza e generosità, profondamente dedito alla preghiera e con la passione di comunicare le verità del vangelo. Prendetelo come modello ed ispirazione per voi, mentre adempite la missione che avete ricevuto di pascere il gregge del Signore. Ricordate anche la domanda che il Signore Risorto ha rivolto tre volte a Pietro: "Mi ami tu?". Questa è la domanda che egli rivolge a ciascuno di voi. Lo amate? Desiderate servirlo con il dono della vostra intera vita? Desiderate condurre altri a conoscerlo ed amarlo? Con Pietro abbiate il coraggio di rispondere: "Sì, Signore, tu sai che io ti amo" e accogliete con cuore grato il magnifico compito che egli vi ha assegnato. La missione affidata ai sacerdoti è veramente un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che brama irrompere nel mondo (cfr Omelia, 24 aprile 2005).
Guardando ora attorno a me alla grande folla raccolta qui in Floriana per la celebrazione dell'eucarestia, mi torna alla mente la scena descritta nella seconda lettura di oggi, nella quale miriadi di miriadi e migliaia di migliaia unirono le loro voci in un grande inno di lode: "A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli" (Ap 5,13). Continuate a cantare questo inno, a lode del Signore risorto ed in ringraziamento per i suoi molteplici doni. Con le parole di San Paolo, Apostolo di Malta, concludo la mia esortazione a voi questa mattina: "L-imħabba tiegħi tkun magħkom ilkoll fi Kristu Ġesù" ["Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!"] (1 Cor 16,24).
Ikun imfaħħar Ġesù Kristu! [Sia lodato Gesù Cristo!]
[00525-01.01] [Testo originale: Inglese]
Un aforisma al giorno
Questi sono i giorni in cui il cristiano è previsto che lodi ogni credo, tranne il suo.
Gilbert Keith Chesterton, da Illustrated London News, 11.08.1928
Dal sito del Corriere - Ah, se ci fosse qui Chesterton! Quante ne direbbe... e quanto ci farebbe divertire!
Questa faccenda sta assumendo anche dei contorni comici. Qualcuno dice che la nuvola arriverà in Toscana, altri invece no... Si può dire che la faccenda è un po' comica, amici?
Filosofi e scienziati «La Natura imprevedibile è più forte di noi»
Il Nobel Rubbia: dimentichiamo che il pianeta è in evoluzione Paolo Rossi: smentita l'idea della Dolce Madre
MILANO — Davanti allo spettacolo terribile del terremoto di Lisbona, che il 1° novembre 1755 uccise dalle sessantamila alle novantamila persone, almeno un quarto degli abitanti di quella città, l'illuminista Voltaire arrivò a mettere in dubbio la provvidenza divina e il filosofo Immanuel Kant, il padre del razionalismo moderno, mise in guardia contro i peccati di orgoglio. In maniera diversa, un richiamo all'umiltà dell'uomo di fronte agli sconvolgenti fenomeni naturali, come l'eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökul che da tre giorni sta bloccando il traffico aereo in Europa, viene anche oggi da filosofi e scienziati.
CARLO RUBBIA - «L'uomo — dice per esempio Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica nel 1984 — si sorprende davanti ai grandi eventi della natura, terremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni, perché dimentichiamo che il nostro pianeta è in continuo movimento: l'Atlantico si allarga di 2,5 centimetri l'anno, allontanando l'Europa dall'America. Ma tutto rientra nella storia e nell'evoluzione della terra: basti pensare che duecento milioni di anni fa tutti i continenti erano riuniti in un'unica terra emersa. Bisogna rendersi conto che i fenomeni della natura coesistono con la vita dell'uomo, il quale deve esserne consapevole. L'uomo e la natura sono due realtà parallele che convivono». La nostra fragilità, dice ancora Rubbia, è resa ancora più palese dalle «conseguenze che questa eruzione vulcanica potrebbe avere per il cambiamento climatico: le polveri ridurranno la trasparenza dell'atmosfera e quindi la radiazione del sole riscalderà meno la terra su vaste aree, andando nella direzione contraria all'attuale cambiamento climatico».
PAOLO ROSSI - Una preoccupazione, quella di Rubbia, che si sposa perfettamente con la riflessione di Paolo Rossi, decano italiano dei filosofi della scienza e allievo di Eugenio Garin: «Questa vicenda smentisce due idee molto di moda nel mondo contemporaneo: dimostra innanzitutto che la natura non è affatto buona, e poi che non sappiamo come andrà a finire. Nel primo caso mi riferisco alla fastidiosa propaganda sulla natura come dolce madre che arriva fino alla pubblicità (è un prodotto naturale: compralo), nel secondo al mito della prevedibilità dei fenomeni fisici ma anche del corso storico. Le previsioni di lungo periodo si sono dimostrate sempre sbagliate: sia quelle catastrofiche di padre Lombardi quando vedeva i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di San Pietro, o di Alberto Asor Rosa che oggi predica l'apocalisse, sia quelle ottimistiche degli economisti che fino a un anno fa si illudevano di controllare l'andamento dei mercati».
GIULIO GIORELLO - Un titolo catastrofista, ma solo in funzione editoriale, è quello del libro del vulcanologo Bill McGuire, Guida alla fine del mondo, edito da Raffaello Cortina nella collana diretta da Giulio Giorello, filosofo della scienza alla Statale di Milano. «Il libro di McGuire, studioso che in questi giorni lavora nel gruppo che gestisce l'emergenza in Gran Bretagna, ci parla delle catastrofi che possono mettere in crisi la nostra civiltà — spiega Giorello —. Di alcune, come l'eruzione del vulcano islandese, non abbiamo colpa, ma siamo sempre responsabili delle risposte che diamo. Per non finire come i dinosauri, secondo una teoria scomparsi all'impatto della terra con un gigantesco meteorite, non dobbiamo mai smettere di studiare il nostro pianeta, magari ricordandoci di applicare i risultati delle ricerche, perché per esempio in Italia abbiamo degli ottimi geologi ma non un atlante geologico completo. E poi affinare le nostre capacità di risposta, attraverso l'elaborazione di modelli matematici sempre più sofisticati che se non prevedono quando un fenomeno si verifica almeno ci dicono come avviene, quindi ci mettono in grado di reagire».
MARGHERITA HACK - Convinta che la scienza possa comunque dare una mano è l'astrofisica Margherita Hack, tuttavia scettica di fronte alla prevedibilità di tutti i fenomeni. «Non dico che la scienza sia impotente — argomenta la scienziata cui è stato intitolato l'asteroide 8558 — ma nei miei anni di studio e lavoro ho potuto constatare che sulla terra così come su molte stelle non tutto è prevedibile». Quel che segue sembra un gioco di parole, ma Margherita Hack è convinta che «la scienza può servire anche quando prevede l'assoluta imprevedibilità di certi fatti. Non sappiamo per esempio quando il Vesuvio andrà in eruzione ma di certo prima o poi accadrà».
NICOLA CABIBBO - Questa concreta preoccupazione per il Vesuvio accomuna la più laica tra gli scienziati al fisico Nicola Cabibbo, noto nel mondo per gli studi sulle interazioni delle particelle elementari e presidente della Pontificia accademia delle scienze. «Il Vesuvio, vulcano molto pericoloso — sostiene Cabibbo — potrebbe fare disastri ben maggiori di quello islandese anche per la densità della popolazione che vive nell'area. Viviamo in un mondo che può dare sorprese a tutti i livelli, dai fenomeni singolari come quello partito dall'Islanda, davanti al quale la scienza mi sembra possa ben poco, agli eventi come frane e terremoti, ben frequenti nel nostro Paese ma che ci colgono spesso impreparati. L'eruzione di quel lontano vulcano che sta emettendo una quantità incredibile di polvere davanti alla quale nulla possono gli scienziati, mi sembra debba servire da monito per la nostra imprudenza».
venerdì 16 aprile 2010
Chesterton è attuale - Una sua citazione spiega sempre tutto.
In questo link trovate un articolo recensione su un volume di Etienne
Gilson edito da Cantagalli in cui è citato Chesterton, sempre lucido
nei suoi giudizi atti a spiegare la realtà.
Un aforisma al giorno
giovedì 15 aprile 2010
Polonia - Una bella notizia! Popieluszko beato e martire!
RITI DI BEATIFICAZIONE APPROVATI DAL SANTO PADRE
- Jerzy Popieluszko, sacerdote e martire:
Domenica 6 giugno, X Domenica "per annum", alle ore 11:00, nella Piazza Maresciallo J. Pilsudski a Varsavia (Polonia).
VIS 20100414 (250)
Papa: nella “grande confusione” di oggi, il sacerdote insegni la verità, cioè Cristo
Nel corso dell’udienza generale, Benedetto XVI si dice vicino alle vittime del terremoto che ha colpito la Cina. Nel suo compito di insegnare, il sacerdote “non inventa, non crea e non annuncia proprie idee, ma Cristo”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Insegnare “nel nome di Cristo presente la verità che è Cristo stesso” a un mondo nel quale c’è “una grande confusione” e filosofie contrastanti sulle scelte fondamentali e sul significato stesso della vita. E’ il primo compito che caratterizza il sacerdozio, un “ministero” che Benedetto XVI ha illustrato oggi agli oltre 20mila fedeli presenti all’udienza generale, nel corso della quale il Papa ha anche avuto un particolare pensiero per le popolazioni cinesi colpite dal terremoto di oggi.
“Il mio pensiero – ha detto in proposito, al termine dell’udienza - va alla Cina e alle popolazioni colpite da un forte terremoto, che ha causato numerose perdite in vite umane, feriti e ingenti danni. Prego per le vittime e sono spiritualmente vicino alle persone provate da così grave calamità; per esse imploro da Dio sollievo nella sofferenza e coraggio in queste avversità. Auspico che non verrà a mancare la comune solidarietà”.
Nel discorso per le persone presenti in piazza san Pietro, Benedetto XVI ha parlato dell’approssimarsi della conclusione dell’Anno sacerdotale, evidenziando come “insegnare, santificare, governare, nella loro profonda distinzione e unità sono le tre azioni del Cristo risorto che oggi, attraverso la sua Chiesa, insegna, crea fede e unisce il suo popolo, crea presenza della verità, costruisce comunione, e santifica”.
Per il sacerdote, si tratta di “agire in persona Christi Capiti”, agire in rappresentanza di Gesù. Questi tre compiti del sacerdote “nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa azione efficace e sono la personificazione del Cristo stesso che agisce, crea presenza nella verità”. “Ma, cosa si intende per rappresentanza? Nel linguaggio comune, ricevere una delega significa essere presenta, agire al posto di qualcuno che è assente dall’azione concreta”. Tutto questo non vale per il sacerdote, “perché Cristo non è mai assente nella Chiesa, anzi, è totalmente presente”, è “una persona che si rende presente e compie cose che il sacerdote da solo non potrebbe fare”, come la presenza nell’eucaristia e il perdono nella confessione.
Il primo compito, evidenziato oggi da Benedetto XVI “è insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, questo compito risulta particolarmente importante. Viviamo in una grande confusione sulle scelte fondamentali della nostra vita”, su “quali sono i valori realmente pertinenti. Filosofie contrastanti nascono e scompaiono, e non ricordiamo da cosa veniamo, per che cosa siamo fatti, dove andiamo”. Al sacerdote spetta rendere nei nostri tempi la luce della Parola, egli “non propone mai se stesso, il proprio pensiero o la propria dottrina, ma, come Cristo, rivela all’umanità il volto del Padre, la profonda comunione d’amore che Dio vive in se stesso e la ‘via’ che conduce a Lui, così il sacerdote è chiamato ad indicare agli uomini la realtà e la presenza di Dio, vivo ed operante nel mondo, annunciando tutto ciò che Dio stesso ha rivelato di sé, che la tradizione ci ha consegnato e che il magistero autentico ha ininterrottamente interpretato”.
Il sacerdote, dunque, “non inventa, non crea e non annuncia proprie idee, ma Cristo”, ma “il sacerdote non è neutro, non è un portavoce che legge”. Egli deve “educare con quel libro non scritto che è la sua vita”, “il sacerdote che annuncia la Parola di Cristo deve anche dire io non vivo da me e per me ma vivo da Cristo e per Cristo. La sua vita deve identificarsi con Cristo e così la parola non propria diventa tuttavia una parola profondamente personale”. In tale prospettiva, “quella del sacerdote non di rado potrebbe sembrare una vox clamans in deserto”, ma proprio in questo consiste, nel “non essere mai omologato od omologabile” a una moda culturale a una filosofia.
Il Signore, ha concluso il Papa, “ha affidato al sacerdote un grande compito: essere annunciatore al mondo della verità che salva”. San Giovanni Maria Vianney seppe “resistere alla pressioni sociali e culturali del suo tempo per condurre le anime a Dio. Il popolo cristiano ne era edificato e riconosceva in lui la luce della verità: è ciò che si dovrebbe sempre riconoscere nel sacerdote: la voce del buon pastore”.
mercoledì 14 aprile 2010
J'ACCUSE/ Né Dio, né Ragione, la triste storia degli atei che vogliono arrestare il Papa
mercoledì 14 aprile 2010
La notizia dell’ultima ora sullo scandalo della pedofilia nella Chiesa è che Richard Dawkins e Christopher Hitchens, due famosi atei militanti inglesi, intendono chiedere l’incriminazione, e se il caso anche l’arresto, di Papa Benedetto XVI per crimini contro l’umanità. L’occasione ghiotta sarebbe la prossima visita del Santo Padre in Gran Bretagna, prevista per settembre.
Ci sarebbe da sorridere se quella strampalata iniziativa non apparisse oltraggiosa e al limite del vilipendio.
Il fatto è che Dawkins e Hitchens non hanno trovato di meglio da fare se non ingaggiare due principi del foro del calibro di Geoffrey Robertson e Mark Stephens, i quali stanno seriamente valutando di denuciare il Pontefice sul presupposto che il Vaticano non possa essere considerato uno Stato sovrano secondo le leggi internazionali, non essendo, tra l’altro, riconosciuto come tale dall’ONU. Ciò priverebbe il Papa dell’immunità che normalmente protegge i Capi di Stato e lo assoggetterebbe alla giustizia come un comune cittadino.
Ora, a prescindere dalla fondatezza di un’accusa di crimini contro l’umanità a carico del Papa, e dalle stravaganti teorie giuridiche che intendono negare alla Santa Sede la natura di Stato sovrano, due considerazioni mi vengono in mente.
La prima è che Dawkins e Hitchens sono gli stessi che a gennaio del 2009 hanno avuto la bella pensata di sponsorizzare (spendendo 11.000 sterline) la pubblicità sugli autobus londinesi contenente questo slogan: «Probabilmente Dio non esiste, quindi smettete di preoccuparvi e godetevi la vita».
Secondo quel messaggio, l’uomo non è altro che puro materiale biologico ed i propri comportamenti derivano da meri processi chimici cerebrali. Niente anima, niente coscienza. Per questo sono privi di senso concetti come bene e male, e non hanno alcun significato i limiti, i vincoli, le regole di una visione morale o etica dell’esistenza imposta al di fuori dell’io. Solo l’individuo, nella sua unica dimensione terrena, è padrone del proprio destino e non deve rispondere a nessuno. Meno che mai ad una Chiesa. Niente aldilà, niente premi o punizioni dopo la morte. Pertanto, l’unica conseguenza logica è fare ciò che pare e piace, e soprattutto divertirsi.
Il commento più bello contro gli “ateobus” l’avevo letto in un articolo dell’agnostico Nicholas Farrell pubblicato su Libero l’11 gennaio 2009. Con il suo inconfondibile stile Farell scriveva: «Personalmente trovo quello slogan non solo deprimente ma terrificante. Non sono né credente né ateo ma agnostico, ma non mi fa divertire per niente l’idea che Dio non esista. Anzi. Oh, oh, oh! Brindiamo! Dio non c’è. Ci siamo solo noi e il nulla! Che bella cosa! Che altro vogliamo dalla vita? Vi chiedo: se Dio non c’è , c’è solo l' abisso, no? Quindi non c’è paradiso né Inferno, figuriamoci Limbo. Solo il nulla. Sei nato, fai il cretino, muori. Poi basta. Vieni dal nulla e finisci nel nulla».
Sulla base di questa prospettiva non si comprende come un ateo, ad esempio, possa moralmente condannare la pedofilia. Lo ricordava Mitja nei Fratelli Karamazov del grande Dostoevskij: «Se Dio non esiste tutto è davvero permesso».
La seconda considerazione che mi è venuta in mente ascoltando la notizia su Dawkins e Hitchens è che dal prossimo 16 settembre il Santo Padre visiterà la Gran Bretagna anche per compiere un atto di significativa importanza: la beatificazione di John Herny Newman. Un genio del cristianesimo.
Bene, rispetto a questa nuova bizzaria degli “atei moralisti”, ho scoperto cosa ne pensasse Newman. In realtà, proprio a proposito dell’uso incoerente della ragione da parte degli atei, il Cardinale inglese futuro Beato sosteneva che essi riescono anche ragionare perfettamente bene senza saper fornire la base logica del proprio pensiero.
A più di cento anni di distanza, queste parole di John Henry Newman calzano ancora a meraviglia sui suoi connazionali atei del XXI secolo.
martedì 13 aprile 2010
Per cancellare il nome di battesimo gli inglesi ricorrono agli egizi
da Il Sussidiario di venerdì 9 aprile 2010
«Christian name and surname». È questa la frase di rito che vi rivolgono i poliziotti britannici quando chiedono le generalità per identificarvi. Letteralmente, la frase significa “nome e cognome”. L’espressione “Christian name” equivale in inglese, grosso modo, al nostro “nome di battesimo”, ovvero l’appellativo che designa individualmente una persona all’interno di un nucleo familiare.
L’aggettivo “Christian” non è che un lontano ricordo del sacramento battesimale cristiano. È rimasto nell’uso corrente della lingua e da sempre è entrato a far parte del linguaggio burocratico, senza che ciò implichi un preciso riferimento religioso. Eppure, anche questa espressione è caduta sotto la spietata mannaia del politically correct.
I primi a muoversi sono stati i solerti dirigenti del corpo di polizia del Kent, i quali hanno stabilito che, d’ora in poi, i propri agenti, non potranno procedere all’individuazione di qualcuno chiedendogli il “Christian name”. Motivo? Evitare il rischio di offendere persone di altre fedi religiose.
In una corposa guida di 62 pagine, intitolata Faith and Culture Resource’ Guide, la direzione della polizia del Kent, tra le varie direttive, ha impartito anche quella relativa alla richiesta di generalità, prevedendo, appunto, il divieto di utilizzare l’espressione “Christian name” e la sua sostituzione con il più neutro “personal name”.
Un agente che da più di quindici anni lavora in quel corpo di polizia ha definito l’iniziativa «semplicemente ridicola». L’agente - che ha preferito, ovviamente, ricorrere all’anonimato - ha precisato che «l’espressione “Christian name and surname” fa da sempre parte dell’uso corrente della lingua inglese e non solo del gergo burocratico». «Quella espressione» ha aggiunto lo stesso agente «è un elemento del nostro bagaglio professionale ed è patrimonio del linguaggio comune, al punto che se oggi un poliziotto chiedesse a qualcuno il proprio “personal name and family name”, al posto del classico “Christian name and surname”, rischierebbe di ingenerare nei cittadini perplessità e confusione».
Contro l’innovazione semantica disposta dalla polizia del Kent è scesa in campo persino la Plain English Campaign, l’organizzazione che da più di vent’anni si batte per la tutela della lingua inglese e per l’utilizzo, anche nella comunicazione burocratica, di espressioni semplici, chiare ed efficaci, che siano più vicine possibili al linguaggio corrente utilizzato dai normali cittadini.
Marie Clair, esponente di Plain English Campaign, si è detta stupita del divieto di utilizzo del “Christian name”, chiedendosi chi potesse mai ritenersi offeso da quell’espressione. «Io non comprendo davvero» ha precisato la Clair «come funzionari di un ufficio pubblico distrettuale, abbiano potuto assumere l’iniziativa di redigere queste linee guida, senza che si fosse mai registrata alcuna protesta o reclamo da parte di chicchessia circa l’asserito tenore offensivo, in quel contesto, del termine “cristiano”». «Davvero qui la political correctness», ha aggiunto l’esponente di Plain English Campaign, «ha superato i limiti del buon senso e anche dell’assurdo. «Perché mai», si è chiesta Marie Clair, «non dovremmo utilizzare quel “familiar language” che tutte le persone sono in grado di comprendere?».
Il fatto è che anche quest’ultimo episodio - certamente non drammatico ma significativo - si inserisce in quella sistematica operazione culturale con la quale oggi, in Gran Bretagna, si vuole infliggere al cristianesimo una sorta di damnatio memoriae. Anche quando - come nel caso del “Christian name” - il riferimento alla religione non ha più alcun connotato concreto.
Con la meticolosa precisione degli antichi scalpellini egizi, gli scribi del polically correct stanno rimuovendo ogni traccia del cristianesimo dalla società britannica, esattamente come nell’antico Egitto si cancellavano le immagini, i nomi, i cartigli e i geroglifici di personaggi e religioni che si intendevano ripudiare. E si è pure ingaggiata una corsa allo zelo in questa battaglia culturale, in cui le potenziali proteste dei credenti in altre fedi vengono addirittura anticipate. In questa crociata contro i cristiani, infatti, la gara dei burocrati è tra chi di loro si dimostri più musulmano dei musulmani, più sikh dei sikh, più ebreo degli ebrei.
L’errore che si sta commettendo nel Regno Unito - e non solo lì purtroppo - è quello di non comprendere che una società che recide il nesso con la propria storia, la propria cultura, la propria tradizione, è come un albero a cui vengono tagliate le radici.
Una società si riduce a un’entità senza carne né sangue se non si riconosce nell’alveo di una tradizione. Nulla, infatti, come ricordava il cardinale Angelo Scola, è più astratto dell’immagine di un individuo che edifichi, ogni volta da capo, la propria interpretazione culturale, nata con lui e con lui destinata a morire.
In questo senso meritano di essere ricordate le parole di Don Luigi Giussani: «La tradizione è come l’ipotesi di lavoro con cui la natura ci mette nel grande cantiere della vita e della storia». «Solo usando questa ipotesi di lavoro», continuava il fondatore di CL, «noi possiamo incominciare, non ad annaspare, ma ad intervenire con delle ragioni, con dei progetti, con delle immagini critiche sull’ambiente, e perciò su quel fattore estremamente interessante dell’ambiente che siamo noi stessi».
Gli inglesi dovrebbero imparare questa lezione e comprendere che se cancellano la loro tradizione, cancellano se stessi.