Osservatore Romano 10 luglio
Tante tecniche ma poche ragioni
di Carlo Bellieni
Il dibattito sull'aborto - basta leggere i giornali - si fa sempre più grave e insieme superficiale: centrato sulla proliferazione dei mezzi abortivi, senza alcuna attenzione alla prevenzione. Ci si limita cioè a una qualche cura delle conseguenze disinteressandosi delle cause. Al punto che proporre un'alternativa alle donne rasenta il reato: Tammie Downes, una dottoressa inglese, è stata di recente messa sotto processo (e poi assolta) per aver dissuaso dall'aborto alcune sue assistite.
È storia di questi giorni: ai vari metodi chirurgici, alla pillola del giorno dopo e alla Ru486 si affianca la pillola da prendere fino a cinque giorni dopo il rapporto, quasi che il dramma dell'aborto si limitasse a un problema di "tecniche". Chi non approva l'aborto finisce così con l'essere risucchiato in un vortice di procedure mediche e di leggi e, combattendo le nuove tecniche dell'aborto solitario, sembra farsi paladino di quelle vecchie.
A questa corsa al ribasso non ci si deve adeguare. Davvero pensiamo che il primo desiderio di una donna la quale scopre di aspettare un figlio non programmato sia quello di trovare un nuovo metodo abortivo? Troppe parole per parlare solo di tecnica; anche il Royal College of Obstetrics and Gynecology britannico ha appena emesso un lungo e ponderoso documento (Fetal awareness) teso a dimostrare che il feto non prova dolore quando viene abortito a sviluppo inoltrato, conclusione inaccettabile dal punto di vista scientifico. Troppe parole, troppe tecniche e troppo scarsa attenzione alle cause che spingono all'aborto.
L'etica che si cura solo delle conseguenze è un male diffuso: lo ritroviamo nel fine-vita, in cui raramente ci si chiede perché un malato vuole morire, a fronte di mille pazienti nelle stesse condizioni che invece vogliono vivere. Così nel campo degli stupefacenti: quante pagine sui giornali sulla liberalizzazione delle droghe e quante, invece, sulle motivazioni che portano un ragazzo di quindici anni a drogarsi o a ubriacarsi da solo in un bar? Anche nel campo della fecondazione in vitro si tace sulle cause rimovibili e sempre in aumento della sterilità, mentre si spalancano le porte a tecniche fecondatorie spesso tardive. Come se per il dramma del lavoro si parlasse solo di assegni di disoccupazione e non di come creare nuova occupazione. O, nel caso della malaria, di quanto chinino usare e non di come eliminare le zanzare o creare un vaccino. È un'etica che si ammanta dei panni della libertà, ma genera invece solo solitudine.
Curarsi solo delle conseguenze spesso genera patologia. Parlare di aborto senza dare alternative è contraddire il vissuto di tante donne che hanno abortito e si trovano a fare i conti con conseguenze addirittura psichiatriche, come ha pubblicato in giugno la rivista "Maternal-Fetal and Neonatal Medicine". Indicare la fecondazione in vitro come rimedio contro la sterilità e non rimuoverne le cause genera fatalismo, determina ipermedicalizzazione e di conseguenza delusione; per alcuni una sorta di sindrome da stress, tanto che qualche autore suggerisce - con un ragionamento non condivisibile - che per evitare la delusione inerente a queste pratiche bisognerebbe spiegare ai coniugi, prima che si addentrino in intricati percorsi medici, che fare figli è irrazionale e immorale, e pertanto dissuaderli (Matti Hayry, A rational cure for pre-reproductive stress syndrome, "Journal of Medical Ethics", luglio 2004).
Perché allora si parla sempre e solo di nuove e sempre più ardimentose scorciatoie per eliminare le conseguenze e poco di come curare le cause? La risposta è nel mito postmoderno dell'autodeterminazione: è preferibile fornire scelte in apparenza facili che si possono percorrere in totale solitudine piuttosto che proporre una concertata solidarietà, la quale potrebbe suggerire scelte che una persona sola e impaurita non prenderebbe. Come se soltanto le scelte prese in solitudine fossero libere e vere.
Ma se ci fosse una forte prevenzione sociale dei fenomeni prima accennati, le scelte estemporanee e le corse "autonome" ai ripari non avrebbero ragione d'essere, ne sarebbe chiaro il limite e non sarebbero più assurte a diritto assoluto, a questione vitale e a simbolo di libertà. A chi brandisce l'autonomia al di là dell'evidenza scientifica, un mondo solidale non piacerebbe.
Si pensi a un'Europa che dedichi personale e budget a rimuovere, culturalmente e strutturalmente, il disagio giovanile invece di moltiplicare i marijuana-café, o che aiuti le donne invece di inventare nuove pillole abortive: che arma resterebbe a coloro che reclamano il mito dell'autonomia per affermare il valore della solitudine umana assurta a sommo tribunale? Si pensi a un'Europa in cui si dedicassero le energie non solo a moltiplicare le tecniche di fecondazione, ma a curare con altrettanta forza le cause della sterilità, molte delle quali sono culturali: sarebbe un'Europa solidale che, a differenza dell'attuale, non ci potrebbe venire rinfacciata dai nostri figli, ai quali al momento sa offrire tante tecniche, ma poche ragioni.
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