Bravo, Andrea.
lunedì 19 ottobre 2009
L’articolo di Sandro Modeo sul Corriere della Sera del 15 ottobre scorso, dedicato al poema di Tolkien La leggenda di Sigurd e Gudrun si conclude in modo sorprendente, mi riferisco alla due frasi finali in cui si realizza un ardito paragone tra Frodo, il piccolo hobbit protagonista del capolavoro tolkieniano e Sigurd, l’eroe cupo e nordico della leggenda norrena ri-raccontata dal giovane scrittore inglese in questo poema fino a qualche giorno fa inedito in Italia. Nel chiudere il suo articolo Modeo afferma che sia in Sigurd che ne “Il Signore degli Anelli” “gli dei sono assenti, e il cattolico Tolkien lascia alla tenacia degli umili hobbit il compito di resistere all’anello e di distruggerlo. L’eroe Sigurd e l’antieroe Frodo viaggiano verso lo stesso luogo: quello della solitudine dell’uomo davanti ai propri fini e alle proprie azioni”.
L’affermazione merita un approfondimento. Essa è divisa in due parti: quella relativa all’assenza degli dei e quella sulla solitudine degli hobbit e di Frodo. Partiamo dalla seconda parte che suona non convincente sin dal titolo del primo libro della celebre trilogia: la compagnia dell’anello.
Sigurd, così come molti eroi de Il Silmarillion, basta pensare a Turin, viaggiano davvero verso la solitudine, non così però gli hobbit e i protagonisti del Signore degli Anelli. Il viaggio del Signore degli Anelli è un viaggio essenzialmente cristiano e cattolico, un viaggio che in quanto tale è condiviso. Di fatto Frodo non è mai solo. Qui va chiarito un punto: se con “solitudine” Modeo aveva intenzione di parlare di “responsabilità” allora si può anche essere d’accordo, il romanzo di Tolkien è un grande poema che ha al centro anche questo aspetto della libertà e quindi della responsabilità delle azioni umane. L’irruzione dell’Anello nei tranquilli confini della Contea (che sono i confini della vita quotidiana del lettore) è un fatto che interpella il senso di responsabilità di tutti e tutti rispondono, in modi spesso molto diversi, a questa singolare “chiamata”. Da questo punto di vista è vero che la dottrina del libero arbitrio del cattolico Tolkien è rispettata (mentre nelle saghe nordiche e germaniche si sente forte il peso di un Fato cieco e ineluttabile). Ma se invece si vuole parlare della mera solitudine di Frodo c’è soltanto da ripetere che Frodo non è mai solo, viene spontaneo citare Benedetto XVI: «chi crede non è mai solo».
Frodo non è come Ulisse e nemmeno come Enea, tantomeno come Sigurd, ma è come Abramo: un uomo della fede. Egli compie il salto vertiginoso della fede, parte per un viaggio di cui ignora o semplicemente intuisce la direzione e l’esito, in quanto si affida alla parola di qualcun altro. Già la genesi dell’avventura di Frodo ci dice che non è un eroe (e nemmeno un antieroe) solitario. Più che un eroe Frodo è una figura di santo e i santi, si sa, sono coloro che vivono nella Comunione (appunto dei Santi).
Frodo riceve l’anello da Bilbo (ecco, ad esempio Bilbo lui sì che è un personaggio – abbastanza – solitario), ascolta Gandalf, sta sempre con Sam e con una nidiata di cugini e amici e parte per un viaggio insieme ad una intera “compagnia” dove la parola stessa è lì a distruggere ogni idea di romantica e disperata solitudine. Compagnia: cum-panis, mangiare il pane insieme, questa cosa qui così concreta quotidiana e reale è la protagonista della fantastica saga tolkieniana, non l’eroismo o l’antieroismo di un singolo. E’ vero che alla fine Frodo lascerà Sam e verrà ricompensato con il viaggio nel Reame Beato di Valinor ma anche lì non sarà un viaggio solitario ma insieme a Bilbo, Gandalf e tanti altri Elfi che essendo “passati per la grande tribolazione” possono approdare ai lidi del “paradiso” (peraltro questo finale, così apparentemente spiazzante per il lettore, è una conferma della cattolicità profonda dell’opera: nessun ritorno al passato perché la storia procede sempre in avanti, come la strada di cui parla Bilbo nelle sue canzoncine).
La chiusura del romanzo, mentre si apre il sipario sulla descrizione del Reame di Valinor, permette di rispondere alla prima parte dell’affermazione, sul fatto cioè che mancano gli dei nel romanzo di Tolkien. Da una parte questo è vero però è utile ricordare che è Tolkien stesso che ha volutamente cancellato ogni presenza esplicita di divinità o religiosità perché, scrive, il romanzo è talmente intriso di cattolicesimo nel messaggio e nel simbolismo da risultare superfluo ogni altro elemento più evidente; quindi bisogna ammettere che questa presenza divina c’è e rimane per tutto il romanzo ad un livello implicito, più profondo e misterioso (al punto che si può dire che la protagonista del romanzo sia la Provvidenza).
L’affermazione merita un approfondimento. Essa è divisa in due parti: quella relativa all’assenza degli dei e quella sulla solitudine degli hobbit e di Frodo. Partiamo dalla seconda parte che suona non convincente sin dal titolo del primo libro della celebre trilogia: la compagnia dell’anello.
Sigurd, così come molti eroi de Il Silmarillion, basta pensare a Turin, viaggiano davvero verso la solitudine, non così però gli hobbit e i protagonisti del Signore degli Anelli. Il viaggio del Signore degli Anelli è un viaggio essenzialmente cristiano e cattolico, un viaggio che in quanto tale è condiviso. Di fatto Frodo non è mai solo. Qui va chiarito un punto: se con “solitudine” Modeo aveva intenzione di parlare di “responsabilità” allora si può anche essere d’accordo, il romanzo di Tolkien è un grande poema che ha al centro anche questo aspetto della libertà e quindi della responsabilità delle azioni umane. L’irruzione dell’Anello nei tranquilli confini della Contea (che sono i confini della vita quotidiana del lettore) è un fatto che interpella il senso di responsabilità di tutti e tutti rispondono, in modi spesso molto diversi, a questa singolare “chiamata”. Da questo punto di vista è vero che la dottrina del libero arbitrio del cattolico Tolkien è rispettata (mentre nelle saghe nordiche e germaniche si sente forte il peso di un Fato cieco e ineluttabile). Ma se invece si vuole parlare della mera solitudine di Frodo c’è soltanto da ripetere che Frodo non è mai solo, viene spontaneo citare Benedetto XVI: «chi crede non è mai solo».
Frodo non è come Ulisse e nemmeno come Enea, tantomeno come Sigurd, ma è come Abramo: un uomo della fede. Egli compie il salto vertiginoso della fede, parte per un viaggio di cui ignora o semplicemente intuisce la direzione e l’esito, in quanto si affida alla parola di qualcun altro. Già la genesi dell’avventura di Frodo ci dice che non è un eroe (e nemmeno un antieroe) solitario. Più che un eroe Frodo è una figura di santo e i santi, si sa, sono coloro che vivono nella Comunione (appunto dei Santi).
Frodo riceve l’anello da Bilbo (ecco, ad esempio Bilbo lui sì che è un personaggio – abbastanza – solitario), ascolta Gandalf, sta sempre con Sam e con una nidiata di cugini e amici e parte per un viaggio insieme ad una intera “compagnia” dove la parola stessa è lì a distruggere ogni idea di romantica e disperata solitudine. Compagnia: cum-panis, mangiare il pane insieme, questa cosa qui così concreta quotidiana e reale è la protagonista della fantastica saga tolkieniana, non l’eroismo o l’antieroismo di un singolo. E’ vero che alla fine Frodo lascerà Sam e verrà ricompensato con il viaggio nel Reame Beato di Valinor ma anche lì non sarà un viaggio solitario ma insieme a Bilbo, Gandalf e tanti altri Elfi che essendo “passati per la grande tribolazione” possono approdare ai lidi del “paradiso” (peraltro questo finale, così apparentemente spiazzante per il lettore, è una conferma della cattolicità profonda dell’opera: nessun ritorno al passato perché la storia procede sempre in avanti, come la strada di cui parla Bilbo nelle sue canzoncine).
La chiusura del romanzo, mentre si apre il sipario sulla descrizione del Reame di Valinor, permette di rispondere alla prima parte dell’affermazione, sul fatto cioè che mancano gli dei nel romanzo di Tolkien. Da una parte questo è vero però è utile ricordare che è Tolkien stesso che ha volutamente cancellato ogni presenza esplicita di divinità o religiosità perché, scrive, il romanzo è talmente intriso di cattolicesimo nel messaggio e nel simbolismo da risultare superfluo ogni altro elemento più evidente; quindi bisogna ammettere che questa presenza divina c’è e rimane per tutto il romanzo ad un livello implicito, più profondo e misterioso (al punto che si può dire che la protagonista del romanzo sia la Provvidenza).
Non si capisce niente, cambia carattere.
RispondiEliminaOra si legge, tranne il primo rigo.
RispondiEliminaTo-to-to-TOLKIEN NICHILISTA?
RispondiEliminaProbabilmente non hanno letto NULLA di Tolkien. O si sono fermati troppo presto.
Oppure sono nichilisti loro e vedono tutto con questi occhiali.