Ero nervoso quando incontrai il Signor Mussolini, principalmente perché parlava francese tanto meglio di me. Ma è forse curioso notare che, mentre il mio nervosismo in presenza del Duce mi spinse follemente a parlare e parlare in francese, semplicemente perché non sapevo parlare in francese, alla presenza del Papa scopersi che non sapevo parlare in inglese, o che non sapevo parlare affatto. Egli uscì all’improvviso dal suo studio, una figura robusta coperta da un mantello, con un viso quadrato e gli occhiali e cominciò a parlarmi di ciò che avevo scritto, dicendo cose molto generose a proposito di un profilo di san Francesco che avevo scritto. Mi chiese se avevo scritto molto; e risposi, con smozzicate frasi francesi, che era fin troppo vero, o qualcosa del genere. Il dignitario clericale si intromise nobilmente in mio sostegno dicendo che la mia era modestia. In realtà, avevo la testa che turbinava e sarebbe potuta essere qualunque cosa. Poi egli fece un gesto e ci inginocchiammo tutti; e nelle parole che seguirono compresi per la prima volta ciò che un tempo si intendeva attraverso l’uso del plurale cerimoniale, e in un lampo vidi il senso di qualcosa che mi era sempre sembrata un’usanza regale priva di senso. Con una nuova forte voce, che a malapena somigliava alla sua, cominciò: “Nous vous benissons” (Noi vi benediciamo) e io seppi che lì c’era qualcosa infinitamente più grande di un individuo; seppi che era veramente “Noi”; Noi, Pietro e Gregorio e Ildebrando e tutta la dinastia che non perisce. Poi, mentre egli se ne andava, ci alzammo e trovammo la strada per uscire dal Palazzo, attraverso drappelli di Guardie svizzere e papali, finché non fummo di nuovo all’aperto. Dissi al dignitario clericale: “Questo mi ha terrorizzato più di qualunque cosa abbia mai conosciuto in vita mia”. Il dignitario clericale rise di cuore.
Gilbert Keith Chesterton, La resurrezione di Roma.
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